La memoria, inceppata, rimetteva ostinatamente in circolo gli stessi frammenti musicali: frasi arcigne, rocciose, inutilmente propositive (irritanti, in verità). In nessuna sintonia apparente con il clima del momento. Per di più mi era impossibile dar loro un nome, riportarle nell'alveo di una piena, rassicurante, identità.
Andavo ad imbarcarmi a Porto Torres. Ero diretto a Torino.
La macchina - un maggiolino color sabbia - era molto carica: album telati ricolmi di LP, e libri, e sgabelli di fèrula. Anche tavole di legno verniciato e mattoni per il montaggio di rapide librerie. E la vecchia stufa romana, a gas. Nelle borse patetici ciclostilati...
Tra i libri una raccolta di giornali di bordo, relazioni, memorie marinare íntitolata Avventure e viaggi di mare (Feltrinelli, 1959): non me ne potevo separare, in particolar modo per un piccolo capolavoro di assoluta dissennatezza tratto dal1'Hidrographie di padre Fournier. Si trattava de Il pesce vescovo, brano che non mi stancherò mai di rileggere: «Nel Mar Baltíco, verso la costa di Polonia e di Prussia, fu pescato nell'anno 1433 un uomo marino, il cui aspetto era in tutto quello d'un vescovo: aveva in capo la mitra, la croce in mano, ed ogni altro paramento di cui sogliono rivestirsi i vescovi quando celebrano la Santa Messa. La pianeta gli si sollevava facilmente fino al ginocchio tanto davanti quanto dietro.
«Permise che molte persone lo toccassero, specialmente i vescovi di quelle contrade, verso i quali, come diede ad intendere a gesti, nutriva un profondo rispetto. E benché non parlasse, capiva bene quanto gli si diceva.
«Volendo il re rinserrarlo in una torre, fece intendere che ciò non gli aggradava, e poiché i vescovi pregarono il re di lasciarlo tornare al mare, egli, a gesti, ne li ringraziò. Entrato poi nel mare fino all'ombelico, dopo aver salutato i vescovi e la moltitudine accorsa, e impartito loro la benedizione con un segno di croce, si tuffò e disparve alla vista ... »...
Introducevano il furetto in una fessura del muro a secco. Ne riemergeva istantaneamente, avvinghiato al collo di una povera lepre che saltava qua e là, disperata, correndo come impazzita dallo spavento e dal dolore. Non volevo partecipare a tanta crudeltà: mi ero ritratto, non prima però di avere istintivamente raccolto nell'erba un batufolo di ovatta grigio-beige puntato dai cani. Era un leprotto neonato... Lo nascosì in una tasca e tornai di corsa a casa...
Perché mai, fra i tanti, proprio questo ricordo, brutale, dissonante?
Le procedure dell'imbarco mi distolsero dai pensieri quando, a un tratto, la memoria riprese a vivere, i lacerti musicali si ricomposero - a mente snebbiata nell'ouverture Coriolan di Beethoven, e si sciolsero gli enigmi: Coriolano era anche il nome che, con altri amici, avevamo scherzosamente voluto attribuire al piccolo animale salvato!...
E questo doppio segnale a eco, siccome ammutolito per pochi attimi in un binario morto della memoria, non ebbe più modo di trattenere un'altra serie di immagini, fino a quel punto rimaste mute, indecifrabili, solo vagamente intuibili: iconografia mentale che mi si veniva configurando, nel sofferto distacco, già irreversibile, come una sorta di confusa relazione sui miei rapporti con la musica, vissuti allora con entusiasta disordine o mera casualità: moltitudini di ascolti che percepivo come siderali astrazioni irrisolte nel silenzio antico di quelle plaghe; assieme alle loro sterili combinazioni, poi, con un mondo di affetti intensi ma già vetrificati: un mare di onde rifratte insomma, stranamente terree, solidificate, incompiute, a malapena assorbite dalla flemma terribile di quel paesaggio...
La Sardegna, così, mi rimandava al mittente. Con sbrigativa, energica, sobrietà. Non senza, però, la sorda venatura di uno strano, anche pudicissimo, senso d'incompiutezza, come una nostalgìa vissuta con tristezza ma lievemente recitata, un pochino troppo insistita...
Paolo Terni (da "Un vento sottilissimo", Sellerio, 2002)
Andavo ad imbarcarmi a Porto Torres. Ero diretto a Torino.
La macchina - un maggiolino color sabbia - era molto carica: album telati ricolmi di LP, e libri, e sgabelli di fèrula. Anche tavole di legno verniciato e mattoni per il montaggio di rapide librerie. E la vecchia stufa romana, a gas. Nelle borse patetici ciclostilati...
Tra i libri una raccolta di giornali di bordo, relazioni, memorie marinare íntitolata Avventure e viaggi di mare (Feltrinelli, 1959): non me ne potevo separare, in particolar modo per un piccolo capolavoro di assoluta dissennatezza tratto dal1'Hidrographie di padre Fournier. Si trattava de Il pesce vescovo, brano che non mi stancherò mai di rileggere: «Nel Mar Baltíco, verso la costa di Polonia e di Prussia, fu pescato nell'anno 1433 un uomo marino, il cui aspetto era in tutto quello d'un vescovo: aveva in capo la mitra, la croce in mano, ed ogni altro paramento di cui sogliono rivestirsi i vescovi quando celebrano la Santa Messa. La pianeta gli si sollevava facilmente fino al ginocchio tanto davanti quanto dietro.
«Permise che molte persone lo toccassero, specialmente i vescovi di quelle contrade, verso i quali, come diede ad intendere a gesti, nutriva un profondo rispetto. E benché non parlasse, capiva bene quanto gli si diceva.
«Volendo il re rinserrarlo in una torre, fece intendere che ciò non gli aggradava, e poiché i vescovi pregarono il re di lasciarlo tornare al mare, egli, a gesti, ne li ringraziò. Entrato poi nel mare fino all'ombelico, dopo aver salutato i vescovi e la moltitudine accorsa, e impartito loro la benedizione con un segno di croce, si tuffò e disparve alla vista ... »...
Introducevano il furetto in una fessura del muro a secco. Ne riemergeva istantaneamente, avvinghiato al collo di una povera lepre che saltava qua e là, disperata, correndo come impazzita dallo spavento e dal dolore. Non volevo partecipare a tanta crudeltà: mi ero ritratto, non prima però di avere istintivamente raccolto nell'erba un batufolo di ovatta grigio-beige puntato dai cani. Era un leprotto neonato... Lo nascosì in una tasca e tornai di corsa a casa...
Perché mai, fra i tanti, proprio questo ricordo, brutale, dissonante?
Le procedure dell'imbarco mi distolsero dai pensieri quando, a un tratto, la memoria riprese a vivere, i lacerti musicali si ricomposero - a mente snebbiata nell'ouverture Coriolan di Beethoven, e si sciolsero gli enigmi: Coriolano era anche il nome che, con altri amici, avevamo scherzosamente voluto attribuire al piccolo animale salvato!...
E questo doppio segnale a eco, siccome ammutolito per pochi attimi in un binario morto della memoria, non ebbe più modo di trattenere un'altra serie di immagini, fino a quel punto rimaste mute, indecifrabili, solo vagamente intuibili: iconografia mentale che mi si veniva configurando, nel sofferto distacco, già irreversibile, come una sorta di confusa relazione sui miei rapporti con la musica, vissuti allora con entusiasta disordine o mera casualità: moltitudini di ascolti che percepivo come siderali astrazioni irrisolte nel silenzio antico di quelle plaghe; assieme alle loro sterili combinazioni, poi, con un mondo di affetti intensi ma già vetrificati: un mare di onde rifratte insomma, stranamente terree, solidificate, incompiute, a malapena assorbite dalla flemma terribile di quel paesaggio...
La Sardegna, così, mi rimandava al mittente. Con sbrigativa, energica, sobrietà. Non senza, però, la sorda venatura di uno strano, anche pudicissimo, senso d'incompiutezza, come una nostalgìa vissuta con tristezza ma lievemente recitata, un pochino troppo insistita...
Paolo Terni (da "Un vento sottilissimo", Sellerio, 2002)
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