Diciott'anni di carriera, di concerti, di incisioni e di prime esecuzioni assolute. Il Quartetto Prometeo è, a distanza di due mesi dal Trio Johannes (vedi Amadeus n. 260, luglio 2011), il secondo ensemble italiano che festeggia la maggiore età nel 2011 con un cd allegato ad Amadeus. Il Prometeo però ha cambiato alcuni dei componenti - tutti nati nei primi anni Settanta - nel corso della sua carriera. Aldo Campagnari (secondo violino) e Francesco Dillon (violoncello), i membri fondatori rimasti nella formazione, hanno «voluto e cercato» gli altri due musicisti che ora sono parte stabile del quartetto: Giulio Rovighi (primo violino) da tre anni, Massimo Piva (viola), il più giovane, da un anno soltanto.
Il Prometeo ha vinto numerosi concorsi internazionali, tra cui la grande affermazione alla 50° edizione del Prague Spring International Music Competition nel 1998, in cui hanno ricevuto anche il Premio Speciale Bärenreiter per la migliore esecuzione fedele al testo originale del
Quartetto K 590 di Mozart, il Premio Città di Praga come migliore quartetto e il Premio Pro Harmonia Mundi. La sua storia nasce cinque anni prima alla Scuola di Musica di Fiesole, dove Campagnari e Dillon erano prime parti dell'Orchestra Giovanile Italiana, sotto gli auspici dello
storico violista del Quartetto Italiano Piero Farulli. Agli inizi del percorso, però, Prometeo era ancora lontano. «Il nostro primo nome», ricorda Dillon, «ci è stato proposto da Farulli, ed era Quartetto dell'Orchestra Giovanile Italiana 1993. Poi per fortuna quel nome chilometrico
venne abbreviato in Quartetto Ogi».
E dunque quando è "nato" Prometeo?
Dillon. «Dopo qualche anno, quando non eravamo più giovanissimi e abbiamo cercato un nome per percorrere una strada più indipendente. Dopo una lunga riflessione abbiamo scelto Prometeo, sia come riferimento all'opera omonima di Luigi Nono, e quindi alla contemporaneità,
sia come legame con la classicità».
La vostra identità si è modificata quando è cambiata la formazione originaria?
Dillon. «lo e Aldo non vediamo un cambiamento radicale quanto un'evoluzione. Lo stile del nostro quartetto resta e la componente individuale viene integrata nella "visione Prometeo". Suonare insieme in quartetto è molto delicato e bisogna scegliersi per affinità musicale. Non ci siamo mai scelti in base alla comodità geografica, anche se sarebbe molto più comodo: io sono di Firenze, Aldo di Trento, Giulio di Roma e Massimo di Rovigo, quindi siamo sempre in viaggio».
Quali sono le caratteristiche del Quartetto Prometeo come insieme e quali invece gli apporti dei singoli elementi?
Rovighi. «Il tratto distintivo è che non c'è un leader. Da noi le decisioni vengono equamente divise e ognuno porta lo stesso tipo di apporto e contributo. Certo, ci vogliono più tempo e più prove, ma sicuramente c'è abbondanza di idee».
Dillon. «Per quanto riguarda le peculiarità individuali, le abbiamo individuate nelle biografie in chiave scherzosa disponibili sul nostro sito internet (www.quartettoprometeo. com): Giulio è il più attento alla qualità del suono, Aldo il maniaco del ritmo, il "metronomo", Massimo il più rigoroso nella ricerca del fraseggio e della metrica, mentre io sono il fantasista che propone brani stravaganti».
Visitando il vostro sito internet e la vostra pagina Facebook si nota un approccio divertente e fresco alla comunicazione. Lo mantenete anche quando affrontate una partitura?
Campagnari. «Alle prove quasi mai, mentre durante i concerti ci sentiamo un po' píù liberi di divertirci con il pubblico».
Dillon. «Ogni tanto però giochiamo anche con il repertorio. Quest'anno abbiamo inciso un disco di trascrizioni di Stefano Scodanibbio e da cose molto serie, come tre contrappunti dell'Arte della Fuga di Bach, siamo arrivati ad altre più leggere come 5 canzoni messicane che suoniamo come bis».
Qual è il vostro rapporto con la musica contemporanea? Ci sono dei compositori con cui avete un rapporto speciale e privilegiato?
Dillon. «L'idea è quella di mettere in dialogo musiche di varie epoche: accostiamo György Kurtág ad Alban Berg e Schumann, o Sciarrino a Debussy e Brahms, e cerchiamo di spiegare in sede di concerto come il compositore del Novecento segua idealmente la scia tracciata dagli altri due. Abbiamo poi lavorato molto con Salvatore Sciarrino, che ha trascritto per noi le Sonate di Scarlatti e ci ha dedicato il Quartetto n. 8, e con Stefano Gervasoni.
Rovighi. «Collaboriamo anche con Ivan Fedele, che ha molto apprezzato la nostra interpretazione di Der Tod und das Mädchen di Schubert, nel quale lo studio della musica contemporanea ci ha permesso di ampliare moltissimo la gamma delle sonorità».
Piva. «Io stesso compongo: la mia opera più complessa è proprio un quartetto per archi e la mia aspirazione sarebbe quella di eseguirlo con loro».
Nella lista delle vostre influenze musicali, pubblicata sulla vostra pagina Facebook, Robert Schumann spicca perché è il primo nome. E' una casualità o effettivamente lo considerate un punto di riferimento assoluto?
Campagnari. «Non è casuale. Il suo Quartetto n. 1 è il primo pezzo che abbiamo studiato insieme, quindi si può dire che Schumann sia sempre stato un filo conduttore della nostra attività».
Schumann non si è dedicato molto al quartetto d'archi. Ne ha realizzati solo tre, scritti nell'arco di due mesi nel 1842. Quali sono le loro caratteristiche?
Rovighi. «Il primo quartetto è il più facile da ascoltare, il più limpido e il più classico come scrittura. Il secondo rappresenta di più il lato inquieto, scritto con soluzioni più audaci e complesse. Il terzo è il più elaborato e consapevole».
Dillon. «Sono stati composti in un periodo felice della vita di Schumann, sposato da poco: all'inizio del Quartetto n. 3 c'è una quinta discendente che è un motto sulla parola "Clara", quasi un messaggio cifrato, come del resto ha fatto in tutta la sua opera».
Come mai faticano a rientrare nel grande repertorio?
Campagnari. «Forse si pensa che sia musica a cui manca oggettività, e invece ha contenuti poetici meravigliosi che vanno sottolineati nell'interpretazione. Altrimenti si rischia di perderne le sfumature, che sono la cosa più bella».
Dillon. «Alcuni movimenti sono molto complicati da risolvere dal punto di vista tecnico, soprattutto nell'applicazione del rubato tipico del pianista che esegue Schumann. La sfida, se ci si vuole cimentare con questi tre quartetti, è ottenerlo pur suonando in quattro».
Rovighi. «Anche la loro scrittura è molto pianistica, e tradurla con uno strumento ad arco non è per niente semplice».
Che scelte interpretative avete operato?
Rovighi. «Essere più liberi possibile e superare il limite della scrittura quartettistica rendendola quasi individuale. Abbiamo anche cercato di seguire i metronomi originali con tempi molto rapidi».
Dillon. «In molti casi quelle indicazioni sono una spinta a estremizzare i caratteri, e noi abbiamo cercato di seguirne lo slancio».
Quali sono i vostri progetti futuri?
Campagnari. «Abbiamo in uscita l'integrale per quartetto d'archi di Salvatore Sciarrino e stiamo completando la registrazione di due cd-dvd: il primo conterrà Der Tod una das Mädchen di Schubert e l'op. 95 di Beethoven, il secondo musiche da camera di Ivan Fedele, tra cui un pezzo scritto per noi che prevede la partecipazione del soprano Valentina Coladonato».
Rovighi. «A settembre registreremo anche l'integrale per quartetto d'archi di Hugo Wolf, che comprende il Quartetto, l'Intermezzo e la Serenata italiana».
Dillon. «Per quanto riguarda i concerti, oltre alle date in Italia abbiamo nei prossimi mesi due tournée in Olanda, e Argentina».
di Claudia Abbiati (Amadeus, n.262, settembre 2011)
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