Essendo la quintessenza di gruppo “virtuoso”, composto di abilissimi arrangiatori ed esecutori capaci di creare partiture di intricata genìe ed impeccabile riuscita, la recensione di un disco degli Yes, da parte di un loro fan e tale io sono, tende a virare sempre e comunque all’aspetto tecnico della loro musica, accusata dai detrattori di costituire mero esercizio formale, vuoto di contenuti. Effettivamente le opere minori della loro vastissima discografia hanno questo difetto, non è certo il caso però di “Close To The Edge”, quinto album da essi prodotto e considerato loro capolavoro. Fulcro centrale del meccanismo Yes è la collaborazione fra il cantante e compositore principale Jon Anderson ed il bassista Chris Squire. Anderson è insolita figura di leader, assai carente in quanto a presenza scenica (sul palco se ne sta, piccoletto e all’apparenza timido, attaccato al microfono al massimo agitando un tamburello o strimpellando talvolta un’acustica) tiene però un’incredibile voce, altissima e melodiosa ma al contempo forte e salda, intonata da paura, inevitabilmente dominante sopra gli strumenti anche nelle fasi più concitate e nei pieni orchestrali più stratificati. Il basso di Squire ha un impatto nella struttura dei brani di inusuale rilievo. Appresa in gioventù la lezione dei primi grandi bassisti melodici del rock (Paul McCartney, John Entwhistle degli Who… inquadrabili come musicisti per così dire “fuori ruolo”, con un approccio chitarristico al loro strumento nel senso di sostanzialmente melodico ed armonico più che ritmico) Squire ha sviluppato uno stile superlativo spettacolare e penetrante, messo in primissimo piano dal timbro secco e brillante del suo Rickenbacker e da un sempre generoso missaggio, sì da farne il vero motore ritmico/armonico della musica Yes. In modo tale che il chitarrista Steve Howe, virtuosissimo autodidatta con una spaventevole preparazione e sensibilità al tocco classico ed al contrappunto, svincolato da grossi obblighi ritmici può svariare alla grande in tutta una serie di abbellimenti, bordature, armonizzazioni da manuale. Un vero professore con laurea honoris causa, con un approccio “progressivo” alla chitarra elettrica nel quale il rock è soltanto uno degli elementi e neanche il principale. Jazz, folk e classica si mescolano nei suoi interventi rendendo a sua volta peculiare e riconoscibilissima la musica sua e del gruppo.In questo disco il tastierista è Rick Wakeman: studi classici ortodossi per lui, risultanti in una destrezza tecnica a livello di grande concertista, da subito convogliata nel più remunerativo e frizzante mondo del rock. La sua mano destra sui tasti bianchi e neri, che siano di sintetizzatori, organi o pianoforti, è di proverbiale agilità e sensibilità. Non altrettanto la sua vena compositiva, Wakeman negli Yes è solo arrangiatore e sommo esecutore, ciliegina sulla sostanziosa torta preparata dai colleghi. Alla batteria in questo disco siede ancora Bill Bruford, al tempo elevato a sua volta al rango di fenomeno. Non lo è, ma ”Close To The Edge” è l’opera ideale per apprezzarlo nella fase migliore della sua carriera, appesantitasi nel corso degli anni con un’involuzione di stile e di scelta di suoni. Qui il giovane Bruford appare ancora essenziale e creativo in sommo grado (ti aspetti un colpo di cassa e lui invece usa il rullante, e viceversa…veramente imprevedibile il suo accompagnamento per lunghi tratti). La suite che dà il titolo ed apre l’album si dipana per diciotto minuti in quattro diversi movimenti. Compatta e varia, brillante ed intricata, prima convulsa poi eterea infine gloriosa, è un classico del progressive di intensa musicalità, le partiture dei cinque musicisti hanno percorsi spesso asincroni per poi confluire magicamente in stacchi e cambi d’atmosfera. La scansione ritmica e quella vocale divergono spesso e volentieri, richiedendo consumata abilità a chi, come Squire e Howe, è impegnato sia strumentalmente che vocalmente (mi riferisco chiaramente alla sua esecuzione in concerto). “And You And I” è altra abbondante composizione, più lineare e definibile nelle sue parti: esordisce con un introduzione di Howe alla 12 corde acustica, sulla quale Wakeman si inventa deliziosi svolazzi di Minimoog (il glorioso, insuperato sintetizzatore monofonico solista) mentre Anderson declama asciuttamente le strofe. Tutto cambia al momento del ritornello, perché parte un’inaudita, veramente stentorea fanfara di moog + chitarra lap steel all’unisono, con tonnellate d’eco e su un tappeto fosforescente di mellotron ed organo. Una atmosfera massimamente sonora ed eroica, un vero trionfo all’estinguersi del quale riprende serafica la 12 corde stavolta più briosa per un altro giro strofe + fanfara stellare e conclusione finale oltrepassato il decimo minuto di durata. Gran pezzo, seppur magniloquente, indimenticabile. A chiudere l’album la cavalcata di “Siberian Kathru”, inaugurata da un riff piuttosto obliquo dell’elettrica di Howe sul quale si innesta un cantato ancora più obliquo che poi si estende in una jam strumentale, con le tipiche stratificazioni ritmiche notevoli stavolta non particolarmente eclatanti. Splendida la copertina dell’artista Roger Dean, un disegnatore molto astrale ed immaginifico: elegante ed essenziale all’esterno con il sinuoso logo Yes che qui fa la sua prima apparizione, fantasiosa all’interno con un paesaggio asteroidale ed acquatico in irrealistico equilibrio.
Pier Paolo Farina
Pier Paolo Farina
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