Giovanni Balducci "Il perdono di Gesualdo" (particolare) |
Il Quarto Libro de’Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa”
venne pubblicato nel 1596 dall’editore ferrarese Vittorio Baldini (lo
stesso del Primo, Secondo e Terzo Libro) e ristampato poi a
Venezia da Gardano nel 1604 e 1611; nel 1613, questo libro fu poi
pubblicato “in partitura” (raro che avvenisse in quest’epoca) a Genova,
dall’editore Giuseppe Pavoni, perchè si studiassero le melodie orizzontali
insieme al loro innovativo senso verticale-armonico. Questo Quarto
Libro sarà l’ultima pubblicazione che nasce in quella Ferrara che, due anni
prima, l’aveva accolto a braccia aperte, quale sposo di Eleonora d’Este, figlia
del duca. Come abbiamo visto nelle note della prima pubblicazione di questa
serie di registrazioni a lui dedicate (che ci offrono l’ascolto di tutti i suoi
madrigali e opere profane), per Carlo Gesualdo stampare le proprie opere a
Ferrara significava contribuire ad incrementare con la propria arte quella corte
che, più d’ogni altra, aveva dato un contributo fondamentale allo sviluppo del
madrigale, forma musicale di sintesi tra arti di una raffinata cultura
aristocratica. Purtroppo la speranza di voltare pagina e crearsi un nuovo
futuro, una nuova vita che sopprimesse definitivamente il passato che tanto
l’aveva segnato, non ebbe il successo sperato.
Il processo dopo l’assassinio
“Don Carlo Gesualdo, figliolo del principe di Venosa et nipote
dello illustrissimo cardinale, appositamente salito martedì alle 6 ore di
notte con sicura compagnia alla stanza della donna Maria d’Avalos, moglie
et cugina sua carnale, stimata la più bella signora di Napoli,
ammazzò prima il signor Fabricio Caraffa, duca d’Andria, che era con
essa, et lei appresso, di questa maniera vendicando l’ingiuria
ricevuta”. Così scrive l’ambasciatore veneziano a Napoli al suo doge, il 19
ottobre 1590. Il dramma avviene in un palazzo in pieno centro storico di Napoli.
La descrizione del fatto è dettagliata: infatti, pochi giorni dopo l’assassinio,
Gesualdo (aveva ventiquattro anni, lo ricordiamo) fu processato dai magistrati.
Due i testimoni: Silvia Albana, la serva di camera di Maria d’Avalos, e Pietro
Maliziale detto il Bardotti, servo del principe. Entrambe le testimonianze
(trascritte pedissequamente e allegate agli atti del processo) narrano come si
svolsero i fatti con dovizia di particolari. Alcuni di questi sono interessanti
anche per noi: Carafa, quando venne sorpreso, indossava una camicia da notte
femminile che Maria stessa aveva ordinato alla serva di appoggiare sul letto
prima che lui arrivasse e le parlasse alla finestra “cossì come più volte ha
visto essa testimonia che facea detta signora”. Carlo quando arriva,
urla alla serva “Ah traditora, te voglio occidere, mò non mi
scappi”. Bardotto invece testimonia che “il Signor Carlo li disse
che volea andare a caccia, et esso testimonio li disse che quella ora
non era hora di caccia, et detto il signor Carlo rispose: vedrai che
caccia faccio io!”; più tardi dice “voglio andare ad ammazzare il duca de
Andria et questa bagascia de donna Maria”et così sagliendo alla
porta, vedde esso testimonio tre homini armati (…) li quali portavano
una alabarda per uno et uno archibuscetto per uno (…) aprirono la porta
della camera dove dormea la signora donna Maria de Avalos (…)
ordinò che havesse buttato una delle due torcie che esso testimonio
portava in mano (…) et in questo sentio dui botte di scoppiettate et don
Carlo dire “Ammaza, ammaza quest’infame et questa bagascia! A casa
Gesualdo corna!” (…) uscirno quelli tre giovani (…) et poi uscio il
signor don Carlo tutte piene le mani di sangue et domandava dov’era la
ruffiana di Laura, et non avendola trovata, tornò a trasire alla camera
de donna Maria, dicendo “non credo che siano morti”(…) andò al
letto della signora Maria dicendo “non deve essere morta ancora” et le
diede alcune ferite (…) et disse a esso testimonio “ecco una chiave che
ho trovata sopra la seggia”.
Le testimonianze non possono che portare ad un verdetto: l’omicidio
perpetuato in caso d’adulterio conclamato non è un delitto, ma un diritto del
quale può avvalersi l’offeso per difendere l’onore della propria persona. Viene
definito come “delitto d’onore”. La legge, inoltre, prevede che in tale
situazione di tradimento, sia giustificato il duplice omicidio da attuare
congiuntamente (quindi non in due momenti diversi) contro la moglie adultera e
contro l’uomo che giace con lei. L’omicidio per adulterio è dunque un vero e
proprio diritto ad uccidere offerto al maschio (in quanto l’adulterio è
concepito solo da parte femminile e non maschile). Come recita il Codice
delle leggi del Regno di Napoli: “al marito è lecito di uccidere in atto
di adulterio la moglie e l’uomo”.
Le testimonianze dei due servi sono costruite in modo che non vi siano dubbi
(per questo i particolari citati sono importanti): gli adulteri sono colti in
flagranza di reato in casa propria; Carafa è vestito con sottoveste femminile di
proprietà della d’Avalos (quindi non era passato casualmente); v’è consuetudine
nel tradimento in casa propria “come più volte ha visto”; subisce
vergogna e infamia “A casa Gesualdo corna!”; le mani piene di sangue sono
di Gesualdo che ritorna flagellando nuovamente il corpo di Maria (quindi non
sono i fedeli amici che uccidono ma lui stesso visto che solo lui ne aveva il
diritto; ma noi ci poniamo l’ulteriore domanda: sarebbe stato capace di fare
tutto questo da solo?); le chiavi sono un pesante elemento di tradimento
reiterato in casa propria.
Era considerata infamante e addirittura un reato (lenocidio) che il marito
perdonasse la moglie sorpresa in flagrante adulterio e consentisse a lasciare
andare l’adultero: tutta una serie di leggi lo vietava. Gesualdo non può far
altro che affrontare quella dura realtà che tutta Napoli conosceva e che
infamava la sua casata, il suo prestigio, la sua virilità. Non sapremmo mai se
lui si fosse rassegnato a questa condizione: sicuramente diventa un problema nel
momento in cui diventa di dominio pubblico. Gesualdo doveva decidere se
accettare la sua condizione di “cornuto”, non facendo nulla e passare la sua
vita disprezzato da tutti, parenti, amici, servi, nobiltà, oppure se affrontare
la situazione mondando il disonore con il sangue. Naturalmente entrambe le
soluzioni erano violente, l’una contro se stesso, l’altra contro la donna che
amava. La legge però gli permetteva di risolvere tutto, permettendogli di vivere
nel giusto. Bastava che tutto fosse ben predisposto, che ci fossero i testimoni
e che questi sostenessero la tesi del delitto d’onore: tutto doveva essere
corretto agli occhi della giustizia e della società. Purtroppo se la giustizia
assolve il delitto dal punto di vista formale e giuridico, il delitto non fu
assolto dai poeti contemporanei che per anni trattarono la vicenda: come vedremo
nel libretto allegato alla pubblicazione del Quinto Libro de’ Madrigali
vedremo che fiorirono numerose poesie e testi letterali e teatrali che non
condividono l’assoluzione, optando per avvalorare la tesi del grande amore
reciso dalla violenza.
Purtroppo un nemico ben più forte della fantasia letteraria attacca l’animo
del nostro musicista: il tormento del rimorso. Focalizza bene Giovanni Iudica
nella sua biografia “Il principe dei musici” scrivendo che Gesualdo
“aveva ceduto alla volontà e alle leggi della sua epoca, del suo
casato, incapace di obbedire al proprio impulso, alla propria volontà.
Alle ragioni dell’onore aveva sacrificato quelle del suo amore,
quando l’intero suo essere avrebbe più volentieri rinunciato a tutto
pur di non fare del male alla donna amata. Aveva chiesto perdono a Dio
per quello che aveva fatto; il suo confessore l’aveva assolto, i suoi
familiari gli erano grati, il popolo di Gesualdo lo ammirava, i suoi
sudditi ne avevano fatto un eroe. Era la sua coscienza che non l’aveva
perdonato, ed il suo io aveva emesso un giudicato di condanna. A Carlo,
per lenire la ferita di questo conflitto interiore, non restava
che il BALSAMO DELLA MUSICA.
La musica come espiazione: il Quarto Libro de’ Madrigali
Nel Quarto libro de’ Madrigali, al centro della pubblicazione, osserviamo
un’anomalia: un madrigale spirituale “Sparge la morte al mio Signor”, vero e proprio affresco sacro, che ritrae le sofferenze di
Cristo sulla croce. Il testo ha tutte le caratteristiche per interessare il
nostro Gesualdo (abbiamo trattato nella precedente pubblicazione, i criteri di
scelta dei testi: morte, sospiri,
sofferenze, insomma i temi del madrigale gesualdiano sono traslati dalla donna
che fa soffrire, al supplizio di Cristo sulla croce. Il tema è l’espiazione, il
tormento per una morte ingiusta (quella di Cristo, come quella di Maria
d’Avalos): ritroviamo tale tema immortalato dal pittore Giovanni Balducci
(Firenze 1560–Napoli 1631) nella pala d’altare “Il perdono di
Gesualdo” (1609), riprodotta nell’ultima pagina di questo libretto.
Conservato nella Cappella del Convento di Santa Maria delle Grazie, nella città
di Gesualdo e nello stesso luogo che ospita la tomba di Carlo e del suo figlio
Emanuele, il grande quadro (alto cinque metri) rappresenta il nostro principe
inginocchiato insieme alla seconda moglie Eleonora d’Este, in attesa del
giudizio di Cristo. Le eterne sofferenze dell’inferno, si aprono davanti a lui
in una drammatica scena di anime immerse nelle fiamme: come un angelo tende la
mano ad un’anima perdonata mentre un’altro solleva il corpo di un’altra anima
graziata, così il Principe spera di essere perdonato dalla sua colpa grazie
all’intercessione della Vergine Maria, dell’arcangelo Michele e soprattutto
grazie alla presentazione dello zio cardinale Carlo Borromeo (1538–1584),
all’epoca del quadro già proclamato beato (1602) e in seguito canonizzato santo
(1610). Vegliano su di lui, con un gesto, anche S. Francesco, S. Domenico, la
Maddalena, S. Caterina da Siena, ai quali il nostro principe era particolarmente
devoto. Dunque il balsamo della musica non gli basta. Tutto può alleviare
quel senso di colpa che dal giorno dell’assassinio afferra e tormenta il nostro
musicista: Gesualdo commissiona il dipinto e commissiona un Quarto Libro de’
Madrigali nel 1594, al rinomato compositore e organista ferrarese Luzzasco
Luzzaschi (1545–1607). Al centro di questa pubblicazione fa collocare proprio un
madrigale spirituale che riprende il tema del perdono:
S’homai d’ogni su’errore
L’alma Signor pentita
Perdon ti chiede e in un ti chiede aita
Tu fonte di pietà tu mar di spene
Per cui pur si mantiene
Questa del mondo rio misera valle
A prieghi miei deh non voltar le spalle
deh no dolce Signore
Ma ver me suoni tua paterna voce
Qual l’udì già il buon ladrone in croce.
Due anni più tardi, sempre per un Quarto Libro, sempre a metà
pubblicazione (le coincidenze sono troppo evidenti per non essere rilevate),
Gesualdo colloca un affresco sacro in un’opera profana. Nel tentativo di
evidenziare questo momento di raccoglimento e di preghiera, all’esecuzione del
brano vocale di Gesualdo abbiamo voluto far precedere un’intonazione per organo
sul Quarto Tono, proprio di Luzzaschi, inserita nel trattato “Il
transilvano” di Gerolamo Deruta, 1593 e accompagnare il madrigale con
questo strumento (unica eccezione nella nostra esecuzione completa delle opere
profane).
Deferente omaggio ferrarese è anche il meraviglioso madrigale iniziale
“Luci serene e chiare” (in seguito, musicato nel 1603 nel
Quarto Libro de’ Madrigali di Claudio Monteverdi dedicato agli
Accademici Intrepidi di Ferrara). Come spesso accade, il primo brano è un
madrigale innovativo che evidenzia le novità linguistiche della raccolta: la
perfetta aderenza tra parola e musica ma soprattutto la capacità della musica di
trasfigurare quell’energia e quel vigore che la parola può offrire perchè
divenga immagine, avvenimento, situazione acustica da rimirare e da apprezzare
attraverso l’ascolto, diventa qui mirabile. Non è più il “madrigalismo”
manierato, fine a se stesso: è espressività, è parola poetica che si
trasforma in un “evento sonoro”. Grondano veramente di sangue le dissonanze
sulle parole “e tutta sangue si strugge e non si duol, more e non
langue”, quando le melodie lentamente si spossano come un corpo esangue a
terra, in un finale fra i più geniali e struggenti della letteratura
madrigalistica.
Gli attriti taglienti sono il tema di “Io tacerò” (in due parti) dove dinamiche esasperate, sulle teatrali parole
“ma se avverrà ch’io mora, griderà poi per me la morte ancora”,
innescano accesi contrasti dinamici e armonici, dove germogliano dure
dissonanze e concatenazioni armoniche non più regolate dagli schemi compositivi
tipici di quel periodo storico. Il desiderio di lacerare queste regole invalse è
evidente in “Questa crudele e pia” sulle parole “anco
sdegnosa” e nel finale; senza precedenti il finale di “O sempre
crudo amore”, che tratteggia lo sconforto dell’anima dopo le
dissonanze “peni il cor” che trafiggono il nostro ascolto, tanto quanto
un pugnale potrebbe entrare con forza nel nostro cuore.
Un esempio di quello che definiamo come “evento sonoro” è la seconda parte di
“Ecco morirò dunque” dove la parola “discoloro” (in
contrasto con “Ahi” di sofferenza concreta e immediata) scioglie le
melodie in una rete di passaggi cromatici discendenti che traducono
perfettamente il perdere della consistenza di forme e colori apparentemente
tangibili, solidi e cangianti: la verità oggettiva del mondo rinascimentale,
lascia spazio a forme meno nette, a contorni evanescenti, colori in divenire che
si evolvono soggettivamente a seconda dello stato d’animo del nostro vivere.
Anche la “strana morte” di Arde il mio cor non
è che destabilizzazione della concatenazione armonica tradizionale, voluta a
contrastare la stabilizzante e “dolce” atmosfera immediatamente
precedente.
Vano il tentativo dei tre brani finali di questo Quarto Libro (di cui
gli ultimi due eccezionalmente a sei voci) a riportare il clima giocoso e la
serenità all’ascoltatore: in tutto il libro è fortemente e volutamente presente
il desiderio e la determinazione di scardinare la perfezione che da decenni
desiderava offrire all’ascoltatore una visione univoca della bellezza artistica
e della realtà. Qui tutto è asimmetria, eccezioni alle regole, armonie
inconsuete, partenze e finali con voci che non si assommano verticalmente ma che
arrivano in ritardo rispetto all’accordo (finendo per divenire frammenti
solitari e isolati), cadenze irregolari che non offrono stabilità. Esiste
volontà di rompere con il passato perfetto dello stile “alla Palestrina”, della
filosofia che reputa la perfezione come “bello assoluto”. Irrompe nel mondo
artistico musicale, pittorico e architettonico un nuovo valore: l’espressività,
quella forza che trascina l’uomo verso nuovi modi di realizzare Arte.
Marco Longhini
(note al CD Naxos 8.572137)
1 commento:
Che meraviglia!
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