"Quadrophenia" - The Who (19736) |
Aspramente criticato e snobbato dai fans di lunga data, idolatrato da quelli di nuova generazione, Quadrophenia fu, forse, l’album più “Who” di qualsiasi altro lavoro degli Who. Più complesso di quello che potesse apparire ad una prima e superficiale chiave di lettura, la sua genesi datò 1972. In origine era intento della band e del suo principale ideatore Pete Townshend dar vita ad un’opera rock imperniata sui quattro artisti stessi, considerato che lo straordinario “Tommy” che l’aveva preceduta, per forza di cose veniva identificato col solo Roger Daltrey. Tuttavia, l’idea di un personaggio centrale di fantasia che incarnasse non soltanto le personalità dei singoli Who ma anche le frustrazioni e le illusioni dell’adolescente in cerca di sé stesso, cominciò a farsi strada nella mente di Townshend.
Ed il memorabile ed efficace calembour fra Quadrophenia e schizofrenia, trovò immediatamente ragion d’essere nel tormentato protagonista Jimmy Cooper: giovane mod fresco del 1965 ( con un salto di tempo indietro di 7 anni, epoca in cui gli Who stessi avevano cavalcato l’ondata Mod) che nel Modernismo cerca risposte e salvezza dal male di vivere dell’adolescenza. L’impatto e l’approccio emotivo di Quadrophenia distava anni luce da quello di Tommy: mentre l’innocente e angelico Tommy, aggredito e dilaniato emozionalmente e psicologicamente da un ributtante mondo esterno (la sua famiglia in primis), nel suo tortuoso cammino verso la luce avrebbe conquistato e detenuto un’incrollabile forza e pace interiore tale da illuminare quanti intorno a lui, il travaglio di Jimmy non porterà solo sé stesso alla rovina, ma travolgerà anche i suoi rapporti sociali. Tommy raggiunge, di sofferenza in sofferenza, di sopruso in sopruso, la consapevolezza di sé e del mondo esteriore, mentre Jimmy fino alla fine combatterà contro i suoi demoni.
Lungi dall’essere un’opera giovanilstica, Quadrophenia era un richiamo di Townshend alla maturità, un tentativo di indurre i fans (e gli altri componenti del gruppo) a fare i conti con la crescita e il cambiamento degli Who (forse, avvenuto in maggior misura soltanto in sé stesso), prendendo atto che gli anni ’60 erano finiti nonostante si pretendesse ancora di riesumarli e trascinarli instancabilmente; messaggio, questo,che l’audience di allora certamente non captò, contribuendo ad accorciare le distanze fra le frustrazioni del fittizio mod Jimmy Cooper e quelle del suo creatore Pete Towshend, innanzi a coloro che volevano imprigionarlo nella ragnatela dorata delle glorie del passato, (gli altri tre Who compresi), e che solo l’irrequieto chitarrista pareva volersi lasciar dietro definitivamente.
E Quadrophenia era una sfida: sfida verso i fans, sfida verso il gruppo e sfida verso l’impossibilità di perpetrare all’infinito l’illusione di un’eterna giovinezza. Sarà proprio Townshend, attraverso l’animo tormentato di Jimmy a lanciare la sua provocazione: affrontare la maturità che la vita impone o suicidarsi; e quando la pregiata Vespa Gs, simbolo del modernismo e di una sfrontata giovinezza precipiterà dalla scogliera senza il suo “cavaliere” in parka, sarà chiaro che l’unica decisione possibile e sensata è stata presa. Concepita come la sound-track per un film immaginario (senza la minima idea della sua realizzazione postuma), sia in studio che live, l’effetto sonoro doveva essere parimenti “quadrofenico”, anzi, “quadrofonico” a voler essere precisi.
Nel suggestivo brano d’apertura “I am the sea” che introduce e riassume in un lisergico riverbero bagnato dal mare i temi salienti della storia, le onde sembrano avvolgere e risucchiare l’ascoltatore(effetto ottenuto durante i concerti posizionando casse tutto intorno l’area), preparandolo al manifestarsi della quadrofenia del protagonista; avvisaglie percepite freneticamente e rabbiosamente attraverso potenti arrangiamenti e vocals graffianti nel seguente “The real me”. Jimmy si perde nel suo progressivo estraniamento, sentendo l’alienazione crescere e non ottenendo da nessuno risposte soddisfacenti, né dallo psichiatra, né dalla madre, né dal prete. E a seguito di una lite domestica sfociata dopo un morbido interludio di pianoforte e chitarra acustica ( “Cut my hair”), precipitando ancora di più nell’instabilità emotiva, si domanda se il Modernismo non possa essere la giusta soluzione ai suoi turbamenti.
”The punk and the godfather”, energetica dichirazione di rivolta adolescenziale contro la finzione scenica delle rock’n’roll stars: è Jimmy che in cerca di risposte nei suoi idoli mod, si reca al concerto della sua band preferita (gli Who naturalmente), ma ne rimane deluso dopo un incontro fugace nel backstage. Non c’è nulla dietro al rock’n’roll, le sue stelle sono mere bugie e in fondo, neanche con i suoi simili mods ha molto da dirsi; sono eroi a cui ispirarsi che egli cerca, qualcuno o qualcosa in grado di soddisfare la sua brama di certezze, di questioni insolute. Consapevole della sua superiorità emotiva, l’essere “the face”, il mod perfetto è l’illusione di poter contare qualcosa e di imporsi.
Un apparente serenità ed una sobria malinconia è quella che un ispirato Roger Daltrey accompagnato da accordi lirici di piano e una chitarra quasi poetica, intona, cantando la sconfitta del giovane Jimmy, la bruciante consapevolezza di essere un perdente: ma nonostante tutto, sé stesso è ciò che gli rimane (“I’m one”); è un attimo ed in un crescendo di pathos, l’essere il solo ed imporlo rabbiosamente attraverso uno smagliante e ruvido Keith Moon colma di contrapposizioni emozionali il brano. Come diventare il migliore, il “top of the mods”, se non finanziandosi per la propria immagine? Il protagonista lascia la scuola impiegandosi come spazzino (nel film,invece, sarà un portabuste d’ufficio), lavoro che lo deprimerà ed esaspererà ulteriormente (“The dirty jobs”, “Helpless dancer”, “Is it my head?”); pessimismo e sconforto che dilagheranno in uno dei passaggi più belli e commoventi dell’album “I had enough”e “Love reign o’er me” alla vista dell’ambita e desiderata Stephanie con il suo migliore amico.
Le travolgenti drums di Moon e l’impeccabile, irrefrenabile sezione ritmica Entwistle-Townshend coadiuveranno un Daltrey invelenito in un’inarrestabile presa di coscienza. Jimmy Cooper ne ha abbastanza di ciò che è stata la sua esistenza (feste, droga, sogni e adolescenza ) ma soprattutto, ne ha abbastanza di vivere. La drammatica “I had enough” è una resa dei conti che s’interseca e si completa con la toccante “Love reign o’er me”, che in un disperato grido di chi medita il suicidio si tronca d’imporvviso. Ma alle 5,15 (“ 5,15” ) il quadrofenico mod è pronto nel suo abito migliore, parka, droga e gin, a saltare , sopra accenti in bilico fra soul, funky e schietto rock, sul treno che lo condurrà a Brighton: in uno stato mentale alterato e surreale, ricorda i bei tempi andati, dagli scontri coi rockers che proprie su quelle spiagge avvenivano, all’amicizia con gli altri mods, fino alla sua ex ragazza.
Ma lì, a Brighton, ora c’è solo lui a far rivivere le immagini e le illusioni del passato che si accavallano nel suo cervello stravolto; l’invidiato e imitato “ace face” re di tutte le feste (nel film, ruolo di Sting) non è che un fattorino di un hotel ("Bell boy”, qui interpretato superbamente da uno sguaiato Keith Moon), le ragazze incontrate solo delle sciocche. Le personalità multi-sfaccettate di Jimmy, ovvero l’essenza stessa della quadrofenia, per un istante si riuniscono in un unico momento di raziocinio (“Is it me for a moment?”) deflagrante nella finale crisi di rabbia che lo spingerà a rubare una barca (nel film si tratta della Vespa di Sting) e scivolare in deliquio verso le cascate; è un attimo e prima di sfracellarsi si aggrappa alle rocce, lasciando precipitare la sola barca.
Jimmy ne esce trasformato sensibilmente; purificato, abbraccia la pioggia che scende, ritrovando finalmente sé stesso e pronto a vivificarsi nell’amore, l’unica cosa che dia veramente un senso alla vita: ed il magnifico tema di “Love reign o’er me” torna a ripetersi, indispensabile reprise che chiarifica il senso dell’opera. Attraverso il dolore, Jimmy ha acquistato un grado maggiore di consapevolezza e maturità ed in questo sta la sua vittoria. Quadrophenia è dunque un racconto universale e poco importa la sua ambientazione;che siano mods del ’65 è rilevante solo ai fini di un concept album ma non nel suo intento e nella sua morale.
La purificazione e la presa di coscienza attraverso le sofferenze, nel ripido cammino vero la luce e la saggezza non necessita di etichette, è un percorso (quasi) obbligato per tutti e Jimmy Cooper ne è il testimone di una parabola musicale, perché in fin dei conti, la sua quadrofenia, è un tratto caratteristico del genere umano.
di Brionia Meriggi (www.storiadellamusica.it)
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