Christina Pluhar (1965) |
Christina Pluhar nasce a Graz dove sviluppa una precoce passione per la musica barocca che la porta a studiare il liuto, la tiorba, la chitarra barocca, l’arpa barocca e l’arciliuto. Ha collaborato, tra gli altri, con Jordi Savall, Il Giardino Armonico, Les Musiciens du Louvre, Marc Minkowski, Ricercar Consort, Cantus, Cölln, René Jacobs, Ivor Bolton. Insegnante al Conservatoire Royal di L’Aia e all’Universität Graz, nel 2000 fonda L’Arpeggiata, fucina di esplorazioni della musica rinascimentale e barocca, di sperimentazioni e di contaminazione tra le arti. Con dieci album già all’attivo, l’ensemble, in continua tournée per il mondo, pubblicherà nel marzo 2013 un nuovo album dal titolo “Mediterraneo”.
Il suo esordio nel mondo della musica è segnato dal barocco. Cosa l’ha portata a scegliere questa particolare cultura musicale e quali sono state le tappe salienti che hanno dato avvio alla sua carriera?
Sono nata a Graz e all’epoca l’Austria era un Paese musicalmente accentrato sul classicismo tanto che nomi come quelli di Mozart e Haydn sono stati una costante nella mia età evolutiva. Abbastanza giovane, iniziai lo studio della chitarra classica e a diciotto anni ebbi la fortuna di seguire degli stage in Italia, molto numerosi negli anni ’80. In questo frangente della mia vita mi imbattei nel liuto, col quale m’appassionai anche degli altri strumenti a corde pizzicate e del repertorio barocco, in particolare di quello italiano; è stata un’esperienza fortissima che comunque serbavo già negli anni dei miei studi sulla chitarra.
Lo studio della liuteria barocca mi portò anche alla scoperta dell’immensa libertà interpretativa che il suo repertorio offre. Se le strade del classicismo sono oggi abbastanza standardizzate, non si può dire altrettanto del barocco perché l’artista ha spesso il compito di scoprire individualmente una partitura che nessuno ha mai suonato più per secoli e conseguentemente il pubblico contemporaneo non ha mai sentito. L’interprete ha, dunque, una grande libertà di creare un mondo nuovo sia per sé stesso, ma anche per il pubblico fruitore ed è in questo particolare contesto che deve emergere la singolare arte dell’improvvisazione.
Inevitabile non fare un cenno alla filologia che spesso dà linfa vitale a dibattiti molto accesi. Lavorando su una cultura che spesso crea questioni che potrebbero definirsi di “archeologia musicale” nella quale (come ha avuto modo di illustrare) quella dell’improvvisazione è un aspetto inscindibile, quali sono le strategie che adotta?
Anche se la mia generazione ha avuto la fortuna che tanto studio tecnico sia stato già fatto da quelle precedenti, rimane comunque l’impossibilità a specializzarsi su tutta la musica prodotta dall’Occidente. In tal caso è bene concentrarsi su un determinato periodo verso il quale si è maggiormente inclinati, studiandone ogni singolo aspetto, anche interpretativo, tramite una capillare ricerca in biblioteche e archivi. Una volta acquisito un buon bagaglio nozionistico, lo stesso artista, supportato da una figura musicologica, deve lavorare di concerto col liutaio che gli realizza uno strumento antico in quanto è indispensabile, tra le altre cose, anche la ricostruzione di un suono ben preciso. Questo processo che ho adottato è complesso, ma indispensabile perché siamo di fronte ad una tradizione che è stata interrotta negli anni ed è comparabile allo studio che si fa di una lingua non più parlata: per chi desidera studiare il latino o il greco antico per potersi esprimere con questo linguaggio che la massa non parla più, le fonti letterarie acquistano una fondamentale importanza in quanto in esse ci sono informazioni di grammatica, intonazione, dialetto, melodia: tutti aspetti che comunque rimangono difficili da ricostruire perché de facto non ci sono esempi sonori facendo dell’arbitrarietà un fattore dal quale non si può prescindere.
Quello dell’arbitrarietà è infatti un aspetto, spesso scottante, di primaria importanza: se dei compositori del secolo scorso abbiamo registrazioni che ci permettono di captare come essi interpretavano le loro partiture, allo stesso tempo non possiamo sapere come effettivamente Mozart diresse il suo Don Giovanni a Praga o qualsivoglia altra sua composizione.
Esatto. Fino agli anni ‘60-’70 del Novecento le musiche di Mozart erano interpretate tenendo fede ad una tradizione esecutiva romantica. Lo studio della musica “antica” ha apportato una ventata di riflessioni sull’articolazione, sulla vocalità, sul fraseggio e sugli stessi strumenti per arrivare a rileggere Mozart in maniera più corretta e non più secondo l’ottica di un gusto posteriore ed estraneo al compositore e che si è protratto fino alla vigilia del nostro millennio. Tuttavia con Mozart siamo in possesso di molte indicazioni già scritte da egli stesso nei suoi manoscritti e, man mano che si scorre a ritroso nel tempo, le indicazioni autografe vanno scemando, offrendo all’interprete di oggi ampi spazi d’improvvisazione. Per rendere l’idea della profonda disparità che persiste tra il classicismo e il barocco si può prendere ad esempio la differenza strutturale che c’è tra un’aria mozartiana, costituita da una linea vocale e una orchestrale, e un’aria barocca che è invece composta da una linea di melodia col testo e una di basso senza nessuna precisa specificazione rendendo tutti i colori degli strumenti che accompagnano la voce a libera scelta dell’esecutore.
Ha avuto comunque modo di esplorare altre epoche?
Quando mi trovo ad ampliare il repertorio trovo riferimenti che mi riconducono all’epoca di mia competenza che è il ‘600, come avviene per il programma di “La tarantella” che ho affrontato di recente per i concerti di ottobre 2012 a Siena, Leytron e Wittenberg…
Toccando questo tema mi anticipa un quesito su “La tarantella” che avevo in serbo…
È infatti un buon esempio per rispondere a questa domanda…
Uniamo l’utile al dilettevole…
[Sorride] Un vasto corpus di scritture come quelle di Athanasius Kircher che, risalenti all’incirca al 1650, ci forniscono trattati sul tarantismo e sulla tarantella che è una musica che non si è conservata in partiture manoscritte autentiche ad eccezione di alcuni rarissimi esemplari…
Effettivamente abbiamo a che fare con la musica popolare…
È per via orale che questa tradizione s’è tramandata ed è difficile sapere quando è nata. Lo strumento della chitarra battente è autoctono dell’Italia meridionale. Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al ‘600 e, evolvendosi nell’attuale chitarra acustica, ha la peculiarità di essere rimasto uno strumento popolare: fenomeni come questo ci fanno capire che ci troviamo di fronte a un barocco vivo. Una simile realtà è riscontrabile anche nella musica sudamericana [a tal proposito si segnala l’album che ha recentemente pubblicato “Los Pajaros Perdidos”, ndr] che è vivacizzata da strumenti che somigliano molto a quelli barocchi.
Obiettivo della mia ricerca, nella definizione dei concerti, è quello di dar voce ad una musica tradizionale viva che abbia una forte connessione con quella scritta del XVII secolo. Dal tentativo di ascrivere la musica tradizionale in un contesto più antico ne consegue l’ulteriore interessante possibilità d’assistere ad artisti che suonano strumenti solitamente custoditi nei musei, ma la cui linea culturale non ha sostanzialmente conosciuto una vera e propria interruzione.
Nei vostri concerti fondete la musica col canto, la danza, il teatro. Qual è il vostro lavoro che porta a questo armonioso abbraccio tra le arti?
Coinvolgimento e improvvisazione. Il pubblico di oggi è diverso da quello di qualche anno fa in quanto ha acquisito la volontà di partecipare ad uno spettacolo non più solo intellettualmente, ma anche di emozionarsi in prima persona. Per questo motivo mi pongo l’obiettivo di una forma di spettacolo più complessa e stimolante, rispetto a un tradizionale concerto, che possa instaurare una massima comunicabilità reciproca tra l’artista e lo spettatore.
Una similitudine con il flamenco, dove il tersicoreo improvvisa con il musicista e viceversa, è riscontrabile nella cultura indiana: anche qui una danzatrice è in costante dialogo con i musicisti e viene addirittura a mancare la figura del coreografo che pone regole ben precise sui passi da eseguirsi. La continua improvvisazione rende lo spettacolo vivo: è questa la peculiarità coreutica che ho incluso nel programma de “La tarantella” avvalendomi della danzatrice Anna Dego con la quale ho il piacere di lavorare da parecchio tempo.
Il mercato discografico odierno, si sa, privilegia i prodotti commerciali alla qualità. L’Arpeggiata ha già alle spalle una discografia di tutto rispetto, ma al contempo c’è un’innegabile differenza tra il poter assistere ad un vostro spettacolo dal vivo e il fruirlo per mezzo di un compact-disc. Quali strategie adottate?
Oggi c’è una differenza tra la musica pop e la musica classica della quale ci sono in commercio dischi di ottimo livello…
Il problema è che sono pochi, troppo pochi, ad acquistare questi prodotti…
Non sono d’accordo. Ritengo invece che c’è un profondo bisogno del pubblico di ascoltare la bella musica. Nonostante la diffusa crisi del mercato discografico questa generazione ha una grande opportunità di accedere alla musica registrata come mai è avvenuto prima grazie a strumenti come registratori, iPhone ecc., offrendo all’artista, allo stesso tempo, un’ulteriore grande opportunità di comunicare con un pubblico molto più vasto rispetto al passato. Anche per il fatto di rappresentare un caso eccezionale nel campo della musica colta, i cd del nostro ensemble ricevono costanti successi dei quali ne beneficiano anche le case discografiche che credono in noi. In ogni parte del globo in cui approdiamo, troviamo sempre un rapporto che è già stato virtualmente costruito grazie al disco per mezzo del quale il nostro messaggio è giunto agli spettatori già prima di noi stessi. Nel ‘600 tutto questo era impensabile perché, oltre alla mancanza delle tecnologie d’oggi, la musica era elitaria ed esclusivamente riservata ad una strettissima cerchia di persone.
Sono nata a Graz e all’epoca l’Austria era un Paese musicalmente accentrato sul classicismo tanto che nomi come quelli di Mozart e Haydn sono stati una costante nella mia età evolutiva. Abbastanza giovane, iniziai lo studio della chitarra classica e a diciotto anni ebbi la fortuna di seguire degli stage in Italia, molto numerosi negli anni ’80. In questo frangente della mia vita mi imbattei nel liuto, col quale m’appassionai anche degli altri strumenti a corde pizzicate e del repertorio barocco, in particolare di quello italiano; è stata un’esperienza fortissima che comunque serbavo già negli anni dei miei studi sulla chitarra.
Lo studio della liuteria barocca mi portò anche alla scoperta dell’immensa libertà interpretativa che il suo repertorio offre. Se le strade del classicismo sono oggi abbastanza standardizzate, non si può dire altrettanto del barocco perché l’artista ha spesso il compito di scoprire individualmente una partitura che nessuno ha mai suonato più per secoli e conseguentemente il pubblico contemporaneo non ha mai sentito. L’interprete ha, dunque, una grande libertà di creare un mondo nuovo sia per sé stesso, ma anche per il pubblico fruitore ed è in questo particolare contesto che deve emergere la singolare arte dell’improvvisazione.
Inevitabile non fare un cenno alla filologia che spesso dà linfa vitale a dibattiti molto accesi. Lavorando su una cultura che spesso crea questioni che potrebbero definirsi di “archeologia musicale” nella quale (come ha avuto modo di illustrare) quella dell’improvvisazione è un aspetto inscindibile, quali sono le strategie che adotta?
Anche se la mia generazione ha avuto la fortuna che tanto studio tecnico sia stato già fatto da quelle precedenti, rimane comunque l’impossibilità a specializzarsi su tutta la musica prodotta dall’Occidente. In tal caso è bene concentrarsi su un determinato periodo verso il quale si è maggiormente inclinati, studiandone ogni singolo aspetto, anche interpretativo, tramite una capillare ricerca in biblioteche e archivi. Una volta acquisito un buon bagaglio nozionistico, lo stesso artista, supportato da una figura musicologica, deve lavorare di concerto col liutaio che gli realizza uno strumento antico in quanto è indispensabile, tra le altre cose, anche la ricostruzione di un suono ben preciso. Questo processo che ho adottato è complesso, ma indispensabile perché siamo di fronte ad una tradizione che è stata interrotta negli anni ed è comparabile allo studio che si fa di una lingua non più parlata: per chi desidera studiare il latino o il greco antico per potersi esprimere con questo linguaggio che la massa non parla più, le fonti letterarie acquistano una fondamentale importanza in quanto in esse ci sono informazioni di grammatica, intonazione, dialetto, melodia: tutti aspetti che comunque rimangono difficili da ricostruire perché de facto non ci sono esempi sonori facendo dell’arbitrarietà un fattore dal quale non si può prescindere.
Quello dell’arbitrarietà è infatti un aspetto, spesso scottante, di primaria importanza: se dei compositori del secolo scorso abbiamo registrazioni che ci permettono di captare come essi interpretavano le loro partiture, allo stesso tempo non possiamo sapere come effettivamente Mozart diresse il suo Don Giovanni a Praga o qualsivoglia altra sua composizione.
Esatto. Fino agli anni ‘60-’70 del Novecento le musiche di Mozart erano interpretate tenendo fede ad una tradizione esecutiva romantica. Lo studio della musica “antica” ha apportato una ventata di riflessioni sull’articolazione, sulla vocalità, sul fraseggio e sugli stessi strumenti per arrivare a rileggere Mozart in maniera più corretta e non più secondo l’ottica di un gusto posteriore ed estraneo al compositore e che si è protratto fino alla vigilia del nostro millennio. Tuttavia con Mozart siamo in possesso di molte indicazioni già scritte da egli stesso nei suoi manoscritti e, man mano che si scorre a ritroso nel tempo, le indicazioni autografe vanno scemando, offrendo all’interprete di oggi ampi spazi d’improvvisazione. Per rendere l’idea della profonda disparità che persiste tra il classicismo e il barocco si può prendere ad esempio la differenza strutturale che c’è tra un’aria mozartiana, costituita da una linea vocale e una orchestrale, e un’aria barocca che è invece composta da una linea di melodia col testo e una di basso senza nessuna precisa specificazione rendendo tutti i colori degli strumenti che accompagnano la voce a libera scelta dell’esecutore.
Ha avuto comunque modo di esplorare altre epoche?
Quando mi trovo ad ampliare il repertorio trovo riferimenti che mi riconducono all’epoca di mia competenza che è il ‘600, come avviene per il programma di “La tarantella” che ho affrontato di recente per i concerti di ottobre 2012 a Siena, Leytron e Wittenberg…
Toccando questo tema mi anticipa un quesito su “La tarantella” che avevo in serbo…
È infatti un buon esempio per rispondere a questa domanda…
Uniamo l’utile al dilettevole…
[Sorride] Un vasto corpus di scritture come quelle di Athanasius Kircher che, risalenti all’incirca al 1650, ci forniscono trattati sul tarantismo e sulla tarantella che è una musica che non si è conservata in partiture manoscritte autentiche ad eccezione di alcuni rarissimi esemplari…
Effettivamente abbiamo a che fare con la musica popolare…
È per via orale che questa tradizione s’è tramandata ed è difficile sapere quando è nata. Lo strumento della chitarra battente è autoctono dell’Italia meridionale. Le prime testimonianze della sua esistenza risalgono al ‘600 e, evolvendosi nell’attuale chitarra acustica, ha la peculiarità di essere rimasto uno strumento popolare: fenomeni come questo ci fanno capire che ci troviamo di fronte a un barocco vivo. Una simile realtà è riscontrabile anche nella musica sudamericana [a tal proposito si segnala l’album che ha recentemente pubblicato “Los Pajaros Perdidos”, ndr] che è vivacizzata da strumenti che somigliano molto a quelli barocchi.
Obiettivo della mia ricerca, nella definizione dei concerti, è quello di dar voce ad una musica tradizionale viva che abbia una forte connessione con quella scritta del XVII secolo. Dal tentativo di ascrivere la musica tradizionale in un contesto più antico ne consegue l’ulteriore interessante possibilità d’assistere ad artisti che suonano strumenti solitamente custoditi nei musei, ma la cui linea culturale non ha sostanzialmente conosciuto una vera e propria interruzione.
Nei vostri concerti fondete la musica col canto, la danza, il teatro. Qual è il vostro lavoro che porta a questo armonioso abbraccio tra le arti?
Coinvolgimento e improvvisazione. Il pubblico di oggi è diverso da quello di qualche anno fa in quanto ha acquisito la volontà di partecipare ad uno spettacolo non più solo intellettualmente, ma anche di emozionarsi in prima persona. Per questo motivo mi pongo l’obiettivo di una forma di spettacolo più complessa e stimolante, rispetto a un tradizionale concerto, che possa instaurare una massima comunicabilità reciproca tra l’artista e lo spettatore.
Una similitudine con il flamenco, dove il tersicoreo improvvisa con il musicista e viceversa, è riscontrabile nella cultura indiana: anche qui una danzatrice è in costante dialogo con i musicisti e viene addirittura a mancare la figura del coreografo che pone regole ben precise sui passi da eseguirsi. La continua improvvisazione rende lo spettacolo vivo: è questa la peculiarità coreutica che ho incluso nel programma de “La tarantella” avvalendomi della danzatrice Anna Dego con la quale ho il piacere di lavorare da parecchio tempo.
Il mercato discografico odierno, si sa, privilegia i prodotti commerciali alla qualità. L’Arpeggiata ha già alle spalle una discografia di tutto rispetto, ma al contempo c’è un’innegabile differenza tra il poter assistere ad un vostro spettacolo dal vivo e il fruirlo per mezzo di un compact-disc. Quali strategie adottate?
Oggi c’è una differenza tra la musica pop e la musica classica della quale ci sono in commercio dischi di ottimo livello…
Il problema è che sono pochi, troppo pochi, ad acquistare questi prodotti…
Non sono d’accordo. Ritengo invece che c’è un profondo bisogno del pubblico di ascoltare la bella musica. Nonostante la diffusa crisi del mercato discografico questa generazione ha una grande opportunità di accedere alla musica registrata come mai è avvenuto prima grazie a strumenti come registratori, iPhone ecc., offrendo all’artista, allo stesso tempo, un’ulteriore grande opportunità di comunicare con un pubblico molto più vasto rispetto al passato. Anche per il fatto di rappresentare un caso eccezionale nel campo della musica colta, i cd del nostro ensemble ricevono costanti successi dei quali ne beneficiano anche le case discografiche che credono in noi. In ogni parte del globo in cui approdiamo, troviamo sempre un rapporto che è già stato virtualmente costruito grazie al disco per mezzo del quale il nostro messaggio è giunto agli spettatori già prima di noi stessi. Nel ‘600 tutto questo era impensabile perché, oltre alla mancanza delle tecnologie d’oggi, la musica era elitaria ed esclusivamente riservata ad una strettissima cerchia di persone.
Nel corso della sua carriera ha avuto modo di lavorare con ensemble e artisti di grande levatura: si pensino, solo per citarne alcuni a titolo d’esempio, Marc Minkowski e Les musiciense du Louvre, Il giardino armonico, Jordi Savall o René Jacobs. Quali sono le esperienze che oggi reputa di averla segnata maggiormente?
Devo dire di essere felice di aver vissuto diverse esperienze prima di aver creato un mio ensemble. Ritengo molto importante, per la formazione di ogni artista, il compimento di un particolare cammino nel quale si ha l’opportunità di studiare le metodologie lavorative dei vari direttori e dei solisti che già hanno una consolidata carriera professionale, oltre ad analizzarne i diversi punti di vista perché in nessun caso della vita c’è un unico modo di fare le cose: ognuno ha una sua idea e tutte contribuiscono alla realizzazione di un propria concezione d’interpretazione. Noto in molti giovani, appena terminati gli studi, la volontà di fondare fin da subito un proprio ensemble privandosi della straordinaria opportunità di conoscere le altre opinioni e gli altri modi di fare la musica correndo il rischio di avere un’unica idea personale, mentre sono ben poche le persone che hanno la genialità di seguire le tappe della vita. [sorride] L’aver avuto l’opportunità di lavorare con persone completamente diverse tra loro m’ha portato al punto in cui è sorto il bisogno di creare programmi miei e miscelare esecutori che apprezzo, ma comunque dopo un lungo cammino di maturità.
Ed ecco che si giunge al 2000, anno in cui fonda L’Arpeggiata. Un ensemble barocco, ma non solo…
L’idea ha sempre albergato in me. Come ho appena avuto modo di illustrare, ho atteso molto tempo prima di compiere un simile passo in quanto volevo creare un gruppo diverso dagli altri con una precisa intenzione di rinnovare l’idea di musica con un concetto originale. Non mi reputo tuttavia un leader che detta precise regole ai suoi strumentisti: pur ricoprendo il ruolo di direttore in questo ensemble, quello a cui miro è la creatività che deve emergere da ogni artista concedendo ad ognuno lo spazio necessario. È un lavoro non semplice, ma il risultato è un valore al quale ha concorso una pluralità di punti di vista e non solamente il mio.
Mi perdoni se posso sembrare indiscreto. Nonostante siamo nel terzo millennio il monopolio maschile detiene ancora il podio orchestrale. Lei è una rarissima direttrice donna: come vive questo ruolo?
[Sorride] Il mondo della musica non è fatto solo di artisti, ma di un insieme molto più complesso e sotto questo punto di vista non è facile essere donna ed effettivamente essere a capo di un gruppo è un caso eccezionale nonostante siamo nel 2012. L’indole femminile tende a mettere da parte una certa irascibilità mettendo in campo una strategia di lavoro diversa che permette di realizzare cose diverse rispetto ad un collega uomo. Questo non vuol dire che viene a mancare la figura di un leader che sia un punto di riferimento artistico per tutti, ma tengo piuttosto ad armonizzare il tutto in un’unica forza comune senza che essa difetti di una guida. Sotto questo aspetto siamo al pari di un gruppo jazz dove c’è un leader, ma tutti gli altri componenti sono solisti di pari importanza.
Torniamo al tema della tarantella. Un’artista come lei che è di estrazione culturale nordica come si approccia con un programma che tratta aspetti propri del costume mediterraneo?
Le mie origini hanno permesso di osservare questo repertorio musicale da un punto di vista diverso e distaccato rispetto a quello degli italiani. Questo approccio mi ha dato modo di notare che il barocco italiano è sorprendentemente disseminato di elementi che si avvicinano alla tradizione della tarantella. Come descritto da Athanasius Kircher, la corrente della tarantella di quest’epoca non si avvale di una metrica in 12/8 come avviene del XIX secolo. A titolo d’esempio egli fornisce un passo di basso ostinato in 4/4 che nella tradizione italiana è rintracciabile in una variante individuabile sotto il nome di “Tarantella del Carpino”. Ci troviamo davanti a un’abbondante varietà di forme musicali non scritte e profondamente diverse da quelle composte a partire da due secoli fa delle quali invece abbiamo partiture pervenute. Oltre a quelli forniti da Kircher, altri passi di questa danza sono presenti in opere di altri trattatisti italiani, ma anche spagnoli e sudamericani del XVII secolo: questo denuncia che all’epoca era ben viva una certa musica tradizionale che, riuscendo a penetrare nelle partiture di compositori della quale ne ha fatto uso, continua a sopravvivere tutt’oggi. La mia identità austriaca non si è rivelata un limite, ma mi ha permesso di mantenere una sana distanza scientifica nei confronti di questo genere italiano.
Nel 2004 L’Arpeggiata lavora sulla “Rappresentazione di Anima e di Corpo” di Emilio Dé Cavalieri, del quale cura una versione integrale pubblicandone un album e dimostrando di non tralasciare quel genere che oggi conosciamo sotto il nome di opera, ma che all’epoca della composizione di questo capolavoro era individuato come “recitar cantando”.
Oltre a “Rappresentazione di Anima e di Corpo” abbiamo realizzato qualche mese fa “Il Paride” di Giovanni Andrea Angelini Bontempi; mentre in estate siamo andati in scena con “Il combattimento di Tancredi e di Clorinda” di Claudio Monteverdi e “Il palazzo incantato” di Luigi Rossi insieme alla Compagnia Figli d’arte di Mimmo Cuticchio, e, in un passato più remoto, ci siamo imbattuti in “L’Euridice” di Jacopo Peri. Oggi è difficile sapere con quali voci e quali risultati i compositori rinascimentali e barocchi hanno lavorato per la messinscena delle loro opere, per via dell’estinzione dei cantanti castrati. Trovo oggi non propriamente facile nemmeno la realizzazione del recitar cantando vero e proprio perché la sfera spettacolare attuale, a differenza del ‘600, scarseggia di cantanti che siano anche attori.
Progetti futuri?
A marzo 2013 l’uscita del nuovo album “Mediterraneo” che percorre la stessa strada tracciata da “La tarantella” in quanto il punto di partenza è la tarantella cantata in “griko” nel sud del Salento. Da qui la partenza per compiere un viaggio culturale in Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo.
Devo dire di essere felice di aver vissuto diverse esperienze prima di aver creato un mio ensemble. Ritengo molto importante, per la formazione di ogni artista, il compimento di un particolare cammino nel quale si ha l’opportunità di studiare le metodologie lavorative dei vari direttori e dei solisti che già hanno una consolidata carriera professionale, oltre ad analizzarne i diversi punti di vista perché in nessun caso della vita c’è un unico modo di fare le cose: ognuno ha una sua idea e tutte contribuiscono alla realizzazione di un propria concezione d’interpretazione. Noto in molti giovani, appena terminati gli studi, la volontà di fondare fin da subito un proprio ensemble privandosi della straordinaria opportunità di conoscere le altre opinioni e gli altri modi di fare la musica correndo il rischio di avere un’unica idea personale, mentre sono ben poche le persone che hanno la genialità di seguire le tappe della vita. [sorride] L’aver avuto l’opportunità di lavorare con persone completamente diverse tra loro m’ha portato al punto in cui è sorto il bisogno di creare programmi miei e miscelare esecutori che apprezzo, ma comunque dopo un lungo cammino di maturità.
Ed ecco che si giunge al 2000, anno in cui fonda L’Arpeggiata. Un ensemble barocco, ma non solo…
L’idea ha sempre albergato in me. Come ho appena avuto modo di illustrare, ho atteso molto tempo prima di compiere un simile passo in quanto volevo creare un gruppo diverso dagli altri con una precisa intenzione di rinnovare l’idea di musica con un concetto originale. Non mi reputo tuttavia un leader che detta precise regole ai suoi strumentisti: pur ricoprendo il ruolo di direttore in questo ensemble, quello a cui miro è la creatività che deve emergere da ogni artista concedendo ad ognuno lo spazio necessario. È un lavoro non semplice, ma il risultato è un valore al quale ha concorso una pluralità di punti di vista e non solamente il mio.
Mi perdoni se posso sembrare indiscreto. Nonostante siamo nel terzo millennio il monopolio maschile detiene ancora il podio orchestrale. Lei è una rarissima direttrice donna: come vive questo ruolo?
[Sorride] Il mondo della musica non è fatto solo di artisti, ma di un insieme molto più complesso e sotto questo punto di vista non è facile essere donna ed effettivamente essere a capo di un gruppo è un caso eccezionale nonostante siamo nel 2012. L’indole femminile tende a mettere da parte una certa irascibilità mettendo in campo una strategia di lavoro diversa che permette di realizzare cose diverse rispetto ad un collega uomo. Questo non vuol dire che viene a mancare la figura di un leader che sia un punto di riferimento artistico per tutti, ma tengo piuttosto ad armonizzare il tutto in un’unica forza comune senza che essa difetti di una guida. Sotto questo aspetto siamo al pari di un gruppo jazz dove c’è un leader, ma tutti gli altri componenti sono solisti di pari importanza.
Torniamo al tema della tarantella. Un’artista come lei che è di estrazione culturale nordica come si approccia con un programma che tratta aspetti propri del costume mediterraneo?
Le mie origini hanno permesso di osservare questo repertorio musicale da un punto di vista diverso e distaccato rispetto a quello degli italiani. Questo approccio mi ha dato modo di notare che il barocco italiano è sorprendentemente disseminato di elementi che si avvicinano alla tradizione della tarantella. Come descritto da Athanasius Kircher, la corrente della tarantella di quest’epoca non si avvale di una metrica in 12/8 come avviene del XIX secolo. A titolo d’esempio egli fornisce un passo di basso ostinato in 4/4 che nella tradizione italiana è rintracciabile in una variante individuabile sotto il nome di “Tarantella del Carpino”. Ci troviamo davanti a un’abbondante varietà di forme musicali non scritte e profondamente diverse da quelle composte a partire da due secoli fa delle quali invece abbiamo partiture pervenute. Oltre a quelli forniti da Kircher, altri passi di questa danza sono presenti in opere di altri trattatisti italiani, ma anche spagnoli e sudamericani del XVII secolo: questo denuncia che all’epoca era ben viva una certa musica tradizionale che, riuscendo a penetrare nelle partiture di compositori della quale ne ha fatto uso, continua a sopravvivere tutt’oggi. La mia identità austriaca non si è rivelata un limite, ma mi ha permesso di mantenere una sana distanza scientifica nei confronti di questo genere italiano.
Nel 2004 L’Arpeggiata lavora sulla “Rappresentazione di Anima e di Corpo” di Emilio Dé Cavalieri, del quale cura una versione integrale pubblicandone un album e dimostrando di non tralasciare quel genere che oggi conosciamo sotto il nome di opera, ma che all’epoca della composizione di questo capolavoro era individuato come “recitar cantando”.
Oltre a “Rappresentazione di Anima e di Corpo” abbiamo realizzato qualche mese fa “Il Paride” di Giovanni Andrea Angelini Bontempi; mentre in estate siamo andati in scena con “Il combattimento di Tancredi e di Clorinda” di Claudio Monteverdi e “Il palazzo incantato” di Luigi Rossi insieme alla Compagnia Figli d’arte di Mimmo Cuticchio, e, in un passato più remoto, ci siamo imbattuti in “L’Euridice” di Jacopo Peri. Oggi è difficile sapere con quali voci e quali risultati i compositori rinascimentali e barocchi hanno lavorato per la messinscena delle loro opere, per via dell’estinzione dei cantanti castrati. Trovo oggi non propriamente facile nemmeno la realizzazione del recitar cantando vero e proprio perché la sfera spettacolare attuale, a differenza del ‘600, scarseggia di cantanti che siano anche attori.
Progetti futuri?
A marzo 2013 l’uscita del nuovo album “Mediterraneo” che percorre la stessa strada tracciata da “La tarantella” in quanto il punto di partenza è la tarantella cantata in “griko” nel sud del Salento. Da qui la partenza per compiere un viaggio culturale in Grecia, Turchia, Spagna e Portogallo.
intervista di Massimo Festa (www.gbopera.it)
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