Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, agosto 26, 2016

Vittorio Gui: "Ricordando Giacomo Puccini"

Vittorio Gui (1885-1975)
Quando incontrai Puccini, per la prima volta nella mia vita, io avevo appena ventisei anni, Lui circa cinquantadue; io all'alba della mia giornata lavorativa, Lui già al colmo della celebrità internazionale e al centro della sua attività di musicista; la distanza, però, non fu troppo grande difficoltà per avvicinarci l'uno all'altro assai rapidamente; oggi me ne domando le ragioni, e vedo che la principale fu, da parte sua, quel largo e profondo senso di simpatia umana che ne faceva un uomo amabile a chiunque (a parte l'ammirazione per l'artista) lo avvicinasse con amore. La Fanciulla del West in quel tempo era già stata eseguita al Metropolitan Theatre di New-York sotto la direzione di Toscanini, con artisti di non comune valore, scelti tra i migliori da ogni parte del mondo; venne poi immediatamente trasportata, quasi al completo (escluse le masse corali e orchestrali) al Teatro Costanzi di Roma (oggi Teatro dell'Opera) per l'Esposizione industriale del 1911. Là, io ebbi l'occasione di prendere il primo contatto con questa simpatica opera pucciniana, presentata in un'esecuzione di eccezionale bellezza. Proprio in quegli stessi giorni, io che ero a Torino direttore generale dell'orchestra sinfonica di quell'altra Esposizione industriale, fui scritturato dal vecchio impresario Pozzali (l'antico impresario di Toscanini giovane) per dirigere la successiva esecuzione italiana della Fanciulla del West, a Torino al Teatro Regio, nel prossimo autunno. La mia memoria, che a quei tempi era fuori del comune, la mia appassionata ammirazione per Toscanini che consideravo come il mio grande e amato Maestro, mi davano una certa garanzia di poter riprodurre con grande esattezza a Torino l'esecuzione romana, e già mi eccitavo all'idea di codesta impresa e nel desiderio di soddisfare le esigenze di uno dei maggiori musicisti del mio tempo. Ma avanti di incontrare Puccini, che non conoscevo, scoppiò la prima "grana". Nella scelta dei tre maggiori interpreti vocali, insieme col Pozzali si era riusciti ad assicurarci la collaborazione del soprano Eugenia Burzio, la prima interprete di quell’opera a New-York e a Roma, la quale per la drammaticità del suo accento, unita a una potenza di suoni veramente non comune, aveva molto contribuito al successo dell’opera, sopra tutto trascinando al più clamoroso entusiasmo il pubblico alla fine del secondo atto; e noi (gente di teatro) sappiamo troppo bene che il successo "centrale" in un'opera è il segno del successo duraturo di tutta l’opera e la maggiore garanzia per essa
di lunga vita.
Avevamo anche impegnato l’intelligente baritono Taurino Parvis, e tutto pareva andar bene, quando venne a mancare il tenore, niente meno che il tenore! Né il grande Caruso, né il suo sostituto di Roma Amedeo Bassi erano disponibili per l’autunno; che fare? Io avevo grande fiducia nel tenore Rinaldo Grassi, ma Puccini pare avesse dei seri dubbi su di lui. "Grassi - diceva - ha tante buone qualità, bella Voce, ma... stona!". Io avevo anche ben studiato dal punto di vista vocale la parte di Johnson e mi pareva che difficoltà gravi per lui non ci fossero; infine ero sicuro che non avrebbe stonato, e con quella sicumera che accompagna la giovine età, non esitai a dichiararmi garante, per lui, anche di fronte all’Autore. Un bel coraggio! Puccini, dietro le mie insistenze, comunicategli dal comune amico Carlo Clausetti, pare abbia detto: "E va bene! vedremo e sentiremo". Venne a Torino sin dall’inizio del periodo di prove che, a quei tempi d’oro, durava alcune settimane! non come adesso... Venne a sorvegliare, guidare, controllare; ma non posso davvero dire che la sua presenza pesasse su nessuno, anzi... Difficile è immaginare un autore così cordiale, così paterno e affettuoso, cosi amico di tutti, e sopra tutto così pronto sempre al buon umore, al motto di spirito... L’esecuzione, che insieme preparavamo, assumeva una grande importanza anche, diciamo così, commerciale sul futuro dell'opera; era facile infatti insinuare che il successone di Roma era dovuto in gran parte all'eccezionalità dell’esecuzione! Adesso si sarebbe rientrati nella normalità, e si sarebbe visto... Non dimentichiamo quel che Puccini ebbe a raccontarmi un giorno della sua Bohème; la quale, in prima esecuzione a Torino nel 1896, non conquistò il pubblico se non dopo la quarta sera!... prima, nessuno s’era accorto della sua vitalità teatrale; e s'è visto poi di quale vitalità si trattava!
La mia giovine età, con il conseguente aspetto fisico dei ventisei anni, unita con una sincera simpatia subito concepita da Puccini verso il giovane direttore, portarono lui a chiamar me con un vezzeggiativo, strano di suono, il cui ricordo però dopo tanti anni ancora mi commuove: "Guetto"... e
Puccini me lo conservò, anche dopo molti e molti anni, quando era diventato del tutto fuori di posto, se non altro per la mia calvizie!... Ma di questo avrò modo di riparlare più tardi. Ritorniamo alle nostre prove; io ero sicuro di riprodurre fedelmente l'interpretazione toscaniniana, e dopo qualche giorno osai domandare a Puccini se era contento del mio lavoro e che cosa aveva da dirmi. Fui assai sorpreso della risposta inattesa: "Va' pure avanti, Guetto, col tuo istinto; andrà tutto bene; per ora sento delle cose diverse da quelle cui m’ero abituato... ma va’ avanti tranquillo e ne riparleremo verso la fine delle prove". Durante tutta la mia vita ho ripensato spesso alla saggezza profonda di codeste parole, saggezza che assai raramente ho poi ritrovato in altri compositori, pure di alto merito. Puccini si affidava con pieno abbandono alle facoltà "essenziali" dell’interprete, il quale deve non rinunciare mai alla sua personalità, e lo lascia muoversi (liberamente) dentro i giusti limiti; preferiva sentire magari qualcosa di diverso da quanto aveva sentito lui stesso, pur di non soffocare nell'interprete la facoltà essenziale che è il risveglio dell’emozione e la fedeltà al proprio sentimento. Verso le ultime prove io ebbi la grande soddisfazione di sentirmi dire: "Va ben tutto, non cambiar niente anche se la tua interpretazione si distacca dal1'altra, in qualche particolare". Non sto qui a descrivere che cosa furono e rimasero nel ricordo, per anni e anni, dentro di me quelle giornate di perfetta felicità; il successo di Fanciulla fu grandissimo e definitivo per l'opera; l'autunno torinese era dolce e tepido; tutta la vita mi s’apriva dinanzi come uno scenario cosparso di fiori e pieno di luce! la presenza poi di altri amici, oltre che la comunanza di sensi con Puccini, le intelligenti conversazioni, lo spirito toscanissimo del Maestro, tutto codesto "condimento" - come direbbe Goethe - della vita d’allora fanno di quel ricordo uno dei punti più luminosi nella mia memoria; proprio come diceva Goethe: "il ricordo e la speranza sono i migliori condimenti della vita".
Passarono tre anni, eravamo tutti insieme nell’estate 1914 a Viareggio; Puccini, Toscanini e io, e fino a che non scoppio la tragica bomba della guerra passammo giorni divinamente sereni; Toscanini poi in quel tempo era eccezionalmente sereno come non l’ho forse visto mai più dopo; fu allora che un giorno incontrai Puccini, il quale tornava da Parigi dove pare fosse andato apposta per ascoltare Le sacre du printemps di Strawinsky. Mi mostrò anzi una sua riduzione per pianoforte, tutta annotata marginalmente a lapis da lui stesso; chissà dove sarà andata a finite? sarebbe assai interessante averla sott’occhio. E questo ho ricordato perché mi pare opportuno toccare a quel lato di Puccini-uomo, che riguarda la sua bella e costante curiosità rivolta verso tutti gli esperimenti i tentativi musicali e le nuove forme a lui contemporanee, da Debussy a Strawinsky e a Schoenberg. Sin dai primi giorni del nostro incontro a Torino s’era spesso parlato con Lui del Pelléas di cui era già ammiratore convinto; ricordiamo che a quel tempo eravamo ancora piuttosto vicini all’avvento memorabile del Pelléas et Mélisande a Parigi, che è del 1902; ricordiamo il fiasco clamoroso di Roma nel 1908, e le ancora accese polemiche sull’impressionismo musicale francese e via dicendo; altrimenti sembrerebbe una sciocchezza parlare oggi di tali cose, a proposito di Puccini, nella cui musica le influenze più o meno dirette della esafonia debussiana sono, da mezzo secolo, più che evidenti. Ancora nel 1914 o giù di lì la situazione italiana (anzi europea) per quel che tocca il melodramma è anche troppo chiara; due sono i melodrammisti che si contendono il campo (naturalmente tra i viventi e dopo Verdi): Massenet e Puccini, ambedue parlano un linguaggio che tende a essere internazionale, mentre d’altro lato l'invadente wagnerismo, in Italia specialmente, tiene le giovani generazioni lontane da quel culto di Verdi che doveva infine prevalere per sempre su tutto e tutti.
Ma Puccini rimase tutta la vita convinto ammiratore di Claudio Debussy, e mi ricordo che nel 1917 (se non sbaglio), durante un breve periodo di licenza, io, venendo a Roma dal fronte, lo incontrai nella vecchia Via dei Pontefici che era l'entratura del nostro caro e antico Augusteo; stava appoggiato allo stipite della porta, la sigaretta pendente dalle labbra... "Ohè, Guetto, tu qui? come stai? da dove vieni? che fai? è vero che stai guerreggiando al fronte?". Un po’ di ironia mista a tenerezza, come era sua abitudine.
Era decisamente contrario a qualunque forma di violenza, né poteva apprezzare le ragioni ideali della guerra, di nessuna guerra; Lui era a un punto della vita da dove si vedono cose che prima non si capiscono; io avevo meno di trent'anni... Evitammo ogni discussione, ma quando mi disse che veniva ancora da Parigi dove aveva risentito Pelléas, e aggiunse: "Quello è proprio un capolavoro" ci ritrovammo subito all’unisono. Davano in quei giorni al Costanzi le tre opere in un atto, Tabarro, Suor Angelica e Gianni Schicchi, che Ricordi (non Puccini) aveva (discutibilmente) battezzato "Il trittico". "Vieni a sentirle?" mi domandò. E io la sera stessa ero al teatro; il caro e compianto Marinuzzi dirigeva (e come bene!). Il Tabarro, sin dal prima contatto, mi fece l'impressione d’un Puccini che andasse veramente a fondo delle cose, non così la Suor Angelica, e neppure lo Schicchi verso il quale però mi sentii subito attirato da un'ondata di forte simpatia che nasceva certo dalla stretta parentela che lo lega a uno dei capolavori da me più amati, il verdiano Falstaff... Nell'Angelica sentivo passare accenti super-drammatici, ma intenzionali più che raggiunti, e una certa quale retorica che in Puccini sopra tutto mi disturbava, come mi disturbava in Tosca...
Nel Tabarro apparivano già le  simpatie strawinskyane, l'organetto stonato dello scaricatore Tinca, progenitura diretta di quello petruskiano... ma come bene rivissuto, e con quale gusto! Ma a un certo momento si arrivava a un vertice dell'effetto drammatico, e con una semplicità di mezzi espressivi con una tale coraggiosa rinuncia a ogni orpello, a ogni lusinga, a ogni seduzione sonora, che mozzava il fiato. Qui veramente si ripensava alla grandezza di Debussy, che primo fra tutti (se si eccettua quel tale presentimento boitiano sul quale ho più volte insistito, la morte di Margherita nel Mefistofele... geniale intuizione rimasta isolata...)_ era arrivato a tanto; due sole note, l'orchestra sembra ritirarsi nella più misteriosa zona del silenzio, la voce umana "parla" più che cantare, eppure tutto "canta" mirabilmente, nel più profondo e definitivo senso della parola! "Penso che hai fatto bene a trattenerlo...". "Chi mai?". "Luigi...".
Passano altri anni, abbiamo di tanto in tanto qualche breve contatto, quasi sempre per ragioni professionali o di lavoro; io dirigo al "Massimo" di Palermo la seconda versione di quella Rondine nata sotto poca benigna stella; il successo non è esplosivo; Puccini se ne adonta un po', e mi scrive che abbiamo tutti torto di non considerate quella come forse la migliore opera da lui scritta... Io penso che a Lui accade come a certe madri che, tra tanti figli sani, ne hanno uno un po' gracile e malaticcio, e allora rivolgono su questo tutta la loro attenzione amorosa. Si arriva finalmente alla tragedia della Turandot e della malattia mortale... Puccini non è mai stato uno speculatore nel senso basso della parola; se lo fosse stato avrebbe scritto un’opera ogni due anni, invece tra un’opera e l’altra aspettò sempre parecchio, curandosi sopra tutto di trovare il soggetto adatto alla sua sensibilità; avrebbe potuto triplicate le sue rendite già considerevoli, e non lo fece; questo non si dice mai di Lui, ma è la verità; la sua onestà artistica non ebbe limiti.
L’unica scelta, secondo me, meno felice di soggetto fu la Tosca, il drammone del francese Sardou, dove al musicista furono offerte tutte le buone occasioni per scivolare nel grossolano e nel banale, in una atmosfera di falsa drammaticità, dove la poesia potè salvarsi appena per un momento in quell’alba d’una Roma piranesiana, nel canto del pastorello romanesco stornellante, e infine in quel delicato accento nell'ultimo dialogo tra i due amanti "Amaro sol per te m’era il morire", che è poi una melodia del giovanile Edgar trasportata là dentro di sana pianta. Ma quel "Te Deum" e quella cattiva parodia dei garzoni dei Maestri Cantori con David tramutato in sagrestano per l’occasione, e quegli urli di Cavaradossi, e quella scena di Scarpia col "parlato", e tutto il resto...! Venne poi l'"Oriente immaginario" col Giappone di fantasia, ma per la verità meno falso di quello illichiano di Iris; tanto è vero che Butterfly fu bene accolta a Tokio dove ancor oggi è opera popolare; era allora nell'aria ancora il sapore esotico dei libri di Pierre Loti, e Puccini sentì forse anche - con quell'istinto che non lo aveva tradito che una sola volta - l’odore del successo universale nel piccolo dramma. Dopo il Giappone, l'Oriente continuò a sedurre la sua fantasia e si arrivò alla Cina arcaica di Turandot. Ma qui avvenne quello che io chiamo "il tradimento". Puccini che aveva rifiutato innumerevoli offerte di libretti d’opera, seguendo sempre il suo fiuto che non errava, come mai potè lasciarsi trascinare in una via senza uscita come quella del terzo atto di Turandot? Quello che era il senso fiabesco e l'"humour" nella fiaba di Gozzi, fu deformato senza scampo nella trasposizione delle tre maschere italiane, nei tre bambocci di cartapesta Ping Pong Pang, stupidamente sentimentali, privi d’ogni spirito, canzonettisti "ante litteram" del Blu dipinto di blu... e mal travestiti... Ma il peggio non fu questo; si mise un Puccini già oramai indebolito dalla malattia e forse anche dal terrore della fine, avanti a uno scioglimento del dramma che più lontano dalla sua sensibilità poetica non poteva essere; una specie di retorico e magniloquente Inno al Sole e all’Amore. A Puccini, al dolce cantore della piccola "scuffiara" parigina, stretta le spalle dentro il suo scialletto di lana, e il petto scosso dalla tosse, a Puccini che per bocca della trasparente Cio-Cio-San aveva cantato al mondo la vera essenza della sua anima gentile e delicata: "Noi siamo gente avvezza alle piccole cose umili e silenziose" e poi: "Vogliatemi bene, un bene piccolino: un bene da bambino". Sembrano quasi parole di Lui rivolte a tutti noi; un bene piccolino... ma lungo lungo che non finisca mai. E aveva punteggiato la frase con quel delizioso fiore isolato che è la piccola e toccante melodia rimasta lì senza sviluppo... Mentre il dramma di Turandot cominciava in un’atmosfera perfettamente aderente alla sua sensibilità, e così rispondente a quel momento della sua esistenza; dove i cori della marcia funebre del Principe di Persia e l’invocazione alla luna sono un capolavoro di malinconia leopardiana che rispecchiano la storia interiore di un’anima che non sa più sorridere; lo scioglimento non era trovabile. Toscanini che nel suo istinto infallibile non sbagliava mai, un giorno mentre Puccini gli mostrava il quinto (dico il "quinto") tentativo di rifacimento dell’ultimo finale, irruppe con la sua abituale irruenza: "Ma questo finale non lo scriverai mai, tu!" e aveva perfettamente ragione. La Turandot non fu compiuta da Puccini perché la Parca tagliò il filo di quella vita, ma fu solo apparentemente; in realtà la Turandot non poteva essere compiuta da un Puccini che era stato sempre nella sua opera di creazione il più sincero dei musicisti nostri. La stessa Liù non mi pare, sentimentalmente e neppure musicalmente, all’altezza delle altre figure femminili create da Puccini e da lui tanto amate, come Mimì, Manon, Butterfly e nemmeno Minnie... D’Annunzio mi disse che a lui sembrava una "figura di cartapesta"; giudizio crudele ma forse non del tutto ingiusto; sentimento e sentimentalismo in Puccini molte volte si sono toccati di gomito, ma nella Liù il sentimentalismo mi sembra abbia prevalso.
Si sarebbe tentati di parlare ancora e a lungo di Puccini uomo; del buon borghesotto toscano amante di caccia, ma anche buon dilettante di letteratura e di pittura; semplice sempre sino all'estremo; scrittore di deliziose lettere agli amici, spesso infiorate da umoristiche improvvisazioni poetiche; si potrebbe ancora rievocare una quantità di episodi che toccarono le nostre due vite, la sua, finita, la mia, in declino; ma che vale? Un’ultima parola: era un uomo a cui si poteva voler bene così facilmente! è detto tutto di Lui in queste due parole; e a pensarci bene, di quanti altri si potrebbe dire lo stesso? Era di un’ingenuità a volte quasi infantile; perdeva così il senso delle proporzioni come farebbe un fanciullo; soffrì tutta la vita per quelle basse e sciocche ingiurie lanciategli contro nel libello di Fausto Torrefranca G. Puccini e l'opera internazionale dando loro un’importanza che non meritavano neppure. Quando nel lontano 1921 (o '22, non ricordo bene) io, invitato da Guido M. Gatti, scrissi sulla rivista musicale Il Pianoforte un articolo che tentava mettere a fuoco la sua figura di musicista, sebbene lo scritto non fosse assolutamente laudativo al cento per cento, fu talmente contento che scrisse a me, e poi subito al suo amico Giuseppe Adami: "è la prima volta che una voce autorevole si leva..." con quel che segue, e che non è il caso qui di ripetere.
L'ultimo saluto al suo "Guetto" lo diede poco meno di un mese prima del tragico viaggio a Bruxelles, nell’autunno del 1924. Eravamo nei corridoi della Scala, ci incontrammo dopo una prova e mentre io uscivo avendolo già salutato (aveva sul viso i segni inequivocabili della distruzione fisica) mi sentii raggiungere per di dietro da Lui, sentii le sue braccia che mi circondavano le spalle, e un bacio sulla mia guancia sinistra: "Addio, Guetto, addio, addio!": la sua voce che non ho più sentito; e dentro quel vezzeggiativo, in quel momento così fuori di posto, suonava la nostalgia accorata d’un ricordo del tempo che fu, tremava la lagrima nascosta che non vuol farsi vedere... Sì,... un uomo al quale era tanto facile voler bene...! Che non sia forse questo quel che l'anima delle folle in tutto il mondo ha sentito e ancora sente a traverso il suo dolce canto?
 
Vittorio Gui ("L'Approdo Musicale", n.6, Anno II, Aprile-Giugno 1959)

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