Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 17, 2020

Quartetto Italiano: "Qualcosa per tutta la vita: non è mica poco"

"Musica Viva" n. 3, marzo 1980
Dovreste conoscerli tutti. Il primo a sinistra è Paolo Borciani. Sembra il più severo e accigliato dei quattro ma, in confidenza, "ci fa" solamente. In "borghese" è amabile, anche se il temperamento polemicuzzo dell'emiliano purosangue ogni tanto prende il sopravvento, e gli piace ricordare le avventure artistiche passate. In concerto invece pare scolpito e duro: dà gli attacchi, dopo essersi inforcati gli occhiali, con gesto deciso, suona con il busto eretto, molto signorile.
Subito a destra, è Elisa Pegreffi, sua moglie prima ancora che secondo violino. Sembra riservata e minuta, con quel caratteristico modo di suonare tutta ripiegata sullo strumento. Ma è tutta apparenza e quando la sua "voce" entra si sente bene, con autorevolezza e bravura rare (e non dimentichiamo: non è quasi mai vero, come si crede, che nel quartetto d'archi la linea del secondo violino sia secondaria, anzi).
Poi c'è Franco Rossi. Che simpatico. Oltre al viso così dolce e gioviale, suscita simpatia immediata il suo modo di suonare, apparentemente svagato, come quegli artisti distratti delle favole, che suonando dimenticano perfino di respirare. Poi basta ci sia un "pizzicato": lo vediamo illuminarsi qualche battuta prima, si prepara, alza i tacchi delle scarpe, avvicina l'orecchio alla tastiera del violoncello e quando la nota si libra, vibra tutto, insieme a lei. E il semplice pizzicato diventa già una storia musicale, come nell'Andante, un poco Adagio del Quintetto op. 34 di Brahms eseguito alla Scala la sera del 28 gennaio.
L'ultimo a destra è Dino Asciolla, quello arrivato più di recente e anche il più giovane. E' un grande solista, e nel giro di un paio d'anni ha saputo donare alla sua cavata e al suo temperamento quella dimensione più raccolta (ma altruista) del suono che un quartetto esige. In concerto assomiglia un po' a quelle gustosissime caricature di Berlioz o di Paganini: tutto naso e ciuffo di capelli. In più rispetto a loro ha gli occhiali.
Questi quattro signori che qui abbiamo un po' preso in giro formano il Quartetto Italiano, forse la formazione cameristica più famosa nel mondo, sicuramente la più longeva, come sentiremo.
Era difficile e organizzativamente problematico parlare con tutti insieme. Siamo perciò andati a trovare Borciani che, tutto sommato, è il personaggio più rappresentativo, anche per questo suo attaccamento quasi patologico al "quartetto", visto come entità morale e musicale (gli ha dedicato anche un libro, più appassionato che rigorosamente storico). Cosa è uscito da questo incontro piuttosto lungo lo leggerete tra poco. Importa qui ricordare un paio di particolari significativi. Intanto Borciani non sbaglia mai i soggetti. E anche se le domande erano evidentemente rivolte a lui - non ho parlato con sua moglie, che era in tutt'altre faccende creative affaccendata: quando ha interrotto discretamente, senza farsi vedere, la nostra conversazione era solo per sapere dal marito in che maniera doveva preparare il baccalà - le risposte avevano sempre il "noi" come soggetto, con una naturalezza impressionante.
Altra cosa sorprendente è la commozione quasi, la riconoscenza con cui ricordano l'esperienza musicale con Furtwängler e Pollini. Soprattutto quest'ultima, così vicina e viva, sembra aver dato a questi nostri maturi compagni nella musica quella spinta per continuare a essere sempre così entusiasti e generosi che la stanchezza dei trentacinque anni di attività sembra talvolta (dalle parole almeno, ché i fatti per ora dimostrano altro) affievolire.
E dall'ultimo concerto scaligero con Pollini, partono le domande.
 
Suonare il Quintetto di Brahms al livello sentito l'altra sera e con Maurizio Pollini al pianoforte cosa rappresenta oggi per voi. Un punto di partenza o uno di arrivo?
Né l'uno, né l'altro. Punto di partenza, dopo più di trent'anni di carriera, sarebbe come dire: tutto da rifare. Nemmeno punto di arrivo perché speriamo di potere esprimere ancora molte cose. E' stata un'esperienza particolarmente importante, questo sì. Anche perché le volte in cui abbiamo suonato con altri solisti si possono contare sulle dita di una mano.
Abbiamo avuto, a suo tempo, tanti anni fa, il piacere di suonare con Furtwängler; però sempre in privato, mai in pubblica esecuzione. Eravamo a Salisburgo, nel '52 se ricordo, e facemmo una lettura di questo stesso Quintetto di Brahms; noi eravamo molto giovani, lui era il nostro dio, come lo è rimasto. Pur così improvvisato fu uno degli incontri più stimolanti della nostra carriera. Precedentemente avevamo avuta l'altra fortuna di conoscere e fare amicizia con Clara Haskil; con lei abbiamo eseguito soprattutto Mozart. Anzi, fu l'unica volta in cui suonai da solista al di fuori del Quartetto, le Sonate di Mozart con il suo sublime accompagnamento. L'altra esperienza, anche questa molti anni fa, con un bravissimo clarinettista che oggi fa prevalentemente il direttore, Anton de Bavier. Anzi esiste ancora un vecchio disco, inciso ancora per Decca nel '49, quasi ancora con le cere, del Quintetto di Mozart. Con Pollini è stato un incontro nato in vista di un disco. E dopo vari anni finalmente siamo riusciti a registrarlo. Contemporaneamente abbiamo deciso di eseguirlo anche in pubblico, quando i rispettivi impegni ce lo avessero permesso: finora l'abbiamo presentato a Torino, la prima volta, poi a Parigi, Roma, Amsterdam e un paio di volte a Milano.
Si può quindi parlare di esperienza occasionale, senza un vero seguito. Non avete mai pensato di suonare con un altro violoncellista il Quintetto di Schubert, per esempio?
Parlare di questo Quintetto è come mettere il dito sulla piaga. a varie riprese infatti eravamo stati invitati da Pierre Fournier, ma per diverse ragioni questo progetto che ci sta molto a cuore è stato accantonato.
Qual è stato il vero punto di partenza del Quartetto Italiano?
Nel '42 avevo conosciuto Rossi e mia moglie a La Spezia. C'era un concorso per solisti; Rossi e io eravamo i vincitori della nostra categoria, quella dei non diplomati. Poi ci siamo rivisti a Siena, dove ero allievo di Arrigo Serato. Con i primi apprezzamenti vennero le prime occasioni solistiche, ma Bonucci, insegnante di musica da camera, mi spinse verso quel repertorio. Con Rossi, mia moglie e Lionello Forzanti nacque la primissima formazione, quella con cui eseguimmo al saggio di fine anno il Quartetto di Debussy. Venne poi la guerra, la resistenza...
L'attività la riprendemmo nel '45 in maniera abbastanza avventurosa. Come membro del CNL di Reggio Emilia avevo ottenuto qualche aiuto per i miei amici (come andare a mangiare con i bollini) ma la vita era molto dura. Per fortuna avevo avuto la possibilità di alloggiarli in casa mia. Furono quattro mesi di studio intensissimo, da luglio in poi; a novembre pieni di slancio, di voglia di farci sentire venimmo a Milano. E in effetti riuscimmo a suonare davanti a tutti: agenti, presidenti di società, musicisti, salotti che "contavano": non guardavamo tanto per il sottile allora. E in effetti dovevamo aver fatto una certa impressione, se non altro per il fatto di essere molto giovani, una ventina d'anni per uno, e di suonare a memoria (lo abbiamo fatto per undici anni); cosa che dava una certa impressione di serietà. Avevamo preparato anche un programma un po' particolare: oltre a Beethoven, Debussy e Strawinskij. Un bel giorno alla Camerata Musicale Milanese si ammalò un cantante e l'allora presidente, che evidentemente ci aveva sentito nel nostro giro di propaganda, ci chiamò. Fu il vero debutto (avevamo sì suonato a carpi, in dicembre, ma quasi nessuno l'aveva saputo): vennero le prime critiche, il famoso articolo di Giulio Confalonieri e prese il via questa avventura.
Cosa rappresenta la scelta di fare musica da camera?
Era senza dubbio d'avanguardia. Ma c'era allora questo senso di rinnovamento che coinvolgeva un po' tutti e tutto, e dava coraggio. Infatti inizialmente la nostra denominazione fu Nuovo Quartetto Italiano, e quel "nuovo" per noi significava una posizione morale, un desiderio di fare musica soprattutto bene, insieme, in quartetto. Perché amavamo molto questo modo di viverla, pur non avendo mai avuto una specifica preparazione quartettistica.
Le prime difficoltà?
Difficoltà di luogo, oltre che di persone (poiché la viola se ne andò nel 1947 e subentrò Farulli): due abitavano a Venezia, uno a Genova e io a Reggio Emilia; poi con Farulli c'era anche Firenze. Altra difficoltà fu la mancanza di aiuti agli inizi: e erano difficoltà realmente economiche. La prima volta che venimmo a Milano fummo fortunatamente foraggiati da un conoscente con una forma di formaggio e una mortadella; poi quando trovammo un paio di stanze presso un'amica di famiglia e i letti erano solo due, abbiamo dovuto adattarci in tutti i modi. Anche perché quando ci mettemmo insieme, unanimamente decidemmo di provare a "fare quartetto" in modo indipendente, senza essere legati al lavoro fisso dell'orchestra.
Quale molla vi ha stimolato, invece, in questi trentacinque anni?
Non vorremmo sembrare retorici. Ma pensiamo sia stato l'amore per la musica, la musica più bella in assoluto, scritta in questa forma: che se non è la più bella... e l'impegno di base, il successo che abbiamo avuto, che ci ha spinto a "fare" con sempre maggiore coscienza, ci ha permesso di vivere. La stima che ci ha sempre unito, nonostante le diversità di carattere di ognuno, i singoli casi personali e famigliari; e la coscienza immediata di lavorare a una cosa molto bella e che non valeva la pena di lasciare perdere, di troncare per un qualche capriccio, per qualche debolezza.
Eppure una grossa defezione c'è stata.
Quella di Piero Farulli, nostra viola per trent'anni. Tutto è iniziato un paio d'anni fa quando Farulli per ragioni di salute ci fece rinunciare a un'importante serie di concerti a Parigi. Dopo qualche mese, visto che non si ristabiliva, pensammo di chiedere provvisoriamente a Dino Asciolla di suonare con noi. accettò, assicurandoci che avrebbe spontaneamente lasciato il posto non appena Farulli fosse stato di nuovo in grado di riprendere l'attività. Ma Farulli si oppose subito e impedì il concerto previsto alla Scala, concerto che avrebbe dovuto essere annunciato non come "del" ma "per" il Quartetto Italiano. A questo punto ci siamo preoccupati, attraverso il suo medico di fiducia, di verificare l'effettivo stato di salute e le possibilità di ripresa. Avuta assicurazione che la convalescenza sarebbe stata più lunga del previsto, abbiamo nuovamente chiamato Asciolla (che s'era già discretamente ritirato dalla scena per non rendere ancor più difficile la delicata situazione; la mossa seguente fu una pesante azione legale di Farulli. E i nostri rapporti si chiusero così, in modo inaspettatamente duro.
Questo dissidio cosa ha significato per voi?
Soprattutto un episodio molto doloroso, al quale hanno aggiunto molta amarezza le polemiche passate e quelle presenti. Ancora un paio di mesi fa il critico di un quotidiano romano, parlando di una nostra esecuzione beethoveniana, ha scritto che, vista la cattiveria mostrata nei confronti di Farulli, non avremmo mai potuto essere dei buoni interpreti della musica di Beethoven.
Comunque quell'episodio è servito a farci conoscere a fondo Asciolla. Prima come uomo disponibile e onesto, poi come musicista.
L'inserzione di questa nuova cellula ci ha dato un vigore enorme. Tutto ciò che era stato dispiacere e delusione, si è tramutato in stimolo. Tra l'altro dal punto di vista esecutivo siamo stati costretti a rivedere molti pezzi oramai di repertorio, con il vantaggio di poterli studiare sotto una luce diversa, più matura e moderna.
Com'è la vita di un Quartetto così attivo?
Molto faticosa, perché si tratta di suonare parecchio. Oggi non facciamo più di 90-95 concerti all'anno, ma una volta arrivavamo fino a 140, e per guadagnare andavano bene anche tournée molto stancanti. Ora abbiamo rallentato: siamo esseri umani, non crociati. Suonare va bene, ma è giusto pensare anche un po' a se stessi.
Cosa significa per voi essere "impegnati"?
Ha significato a suo tempo rifiutare sovvenzioni statali per strumentisti, ottenibili solo in seguito a dichiarazioni non oneste, per esempio. Oggi significa "anche" non accettare, nonostante le pressanti richieste di veri amici, le offerte per suonare alla Società del Quartetto di Milano. Fu una decisione presa dopo l'oramai famosa gazzarra suscitata intorno alla lettura del documento pro-Vietnam di Pollini, che avevamo firmato coscientemente e che quindi abbiamo sentito nostro anche dopo. Ma in generale pensiamo (al di là delle singole posizioni ideologiche) che una persona che "serve" l'arte non può non sentire determinate esigenze, non può ritirarsi quando è il momento di appoggiare certe iniziative o di protestare per altre.
La nostra sensibilità deve significare anche coerenza e moralità: dobbiamo assolvere al dovere di interpreti, ma anche e soprattutto, a quello di persone serie.
Il vostro esempio che influenza ha avuto su altre formazioni strumentali?
Beh, è un'accusa che ci viene rivolta spesso: il fatto di non aver creato degli allievi. Ciò è vero, ma solo in parte. Non abbiamo mai dedicato molto tempo all'insegnamento del quartetto in sé, ma io insegno violino, Rossi invece musica d'assieme. Comunque abbiamo fatto qualche corso di perfezionamento per quartetto negli anni sessanta a Venezia: tra gli allievi c'erano Luigi Alberto Bianchi, Wilhelm Melcher (attuale primo violino del Quartetto Melos). Quest'estate abbiamo accettato l'invito di Città di Castello e lì insegneremo per un paio di settimane.
Il vostro rapporto con la musica moderna data dagli inizi, perché?
Come persone che vivono il loto tempo ci sembrava doveroso e coerente esser disponibili a quelle esperienze. Crediamo di aver tenuto fede a quell'impegno. Se oggi la eseguiamo meno è colpa del repertorio limitato. Abbiamo richiesto a molti compositori contemporanei, come a suo tempo avevamo fatto con Milhaud e altri, di scrivere qualcosa per noi, ma non tutti hanno risposto. Luigi nono ha terminato da poco un Quartetto, ma purtroppo lo ha dato in prima al Quartetto LaSalle, peccato. Stiamo però aspettando con curiosità il pezzo promessoci da Franco Donatoni.
E' cambiato qualcosa nel vostro modo di interpretare i classici, da trent'anni a questa parte?
Senza dubbio; sarebbe triste dover ammettere il contrario. Non solo perché - come dice qualcuno - abbiamo approfondito molto il repertorio moderno: questo fatto ha avuto la sua influenza, ma non così determinante. Direi che ci portiamo dietro ancora la lezione sempre valida di Furtwängler nell'esecuzione dei classici. Cioè l'interpretazione non come apollineità estetica e formale fine a se stessa, ma come vera rivelazione poetica e creativa della pagina scritta.
L'esempio del Quartetto Italiano rimarrà isolato?
Temiamo lo possa rimanere per un po' di tempo. Ma da parte nostra faremo tutto il possibile perché ciò non avvenga. Altrimenti la nostra esperienza rimarrà come un fiore spuntato chissà dove.
Eppure i giovani oggi amano la musica in modo particolare.
Sì, senz'altro, ma è la vera educazione musicale che manca. Quella scolastica soprattutto. anche se questo fenomeno del maggiore interesse dei giovani per la musica classica ha dimensioni veramente inaspettate; ed è evidente in modo enorme in Italia, come in nessun altro paese. Forse solo nelle università americane abbiamo trovato questo desiderio di musica tra i giovani. Questo è di per sé consolante e sarebbe doppiamente colpevole non indirizzarlo nella direzione migliore.
Insomma il Quartetto Italiano è una bella favola della musica di questa seconda metà del secolo?
Non so, non spetta a noi dirlo, ci siamo troppo dentro.
Ma fino a quando continuerà?
Biologicamente un quartetto finisce intorno ai 65-70 anni. E' una questione fisica, di cedimento strumentale e tecnico. Ma noi ci siamo logorati prima, già oggi siamo stanchi.
Cosa vi augurate quindi?
Di finire nel miglior modo possibile questa avventura.
E dopo?
Chi può dirlo. Quando si è dato per quasi tutta la vita, qualcosa si è dato. Non è mica poco.
Angelo Foletto
("Musica Viva", n. 3, marzo 1980, Anno IV)

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