Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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lunedì, ottobre 26, 2020

Glenn Gould: L'ala del turbine intelligente

Con un titolo inutilmente ampolloso (quanto più severo e giusto quello originale: The Glenn Gould Reader), Adelphi ha pubblicato - corredata da una pirotecnica Presentazione di Mario Bortolotto e da una dimessa Introduzione del curatore, Tim Page - un’ampia raccolta di scritti sulla musica del pianista canadese Glenn Gould: articoli di riviste, presentazioni di (suoi) dischi, recensioni, testi di conferenze, saggetti musicologici. L’ala del turbine intelligente (citazione colta al volo da Baudelaire; ma lo si capisce solo a pagina 63: eil riferimento è stranamente omesso nell’Indice dei nomi) è un supporto essenziale per la comprensione di uno dei casi (ma sì, leggenda: come da risvolto di copertina) più curiosi (emblematici?) dei nostri tempi, che dei nostri tempi ha appunto tutti i caratteri distintivi: l’eccentricità, l’eclettismo, lo snobismo, il fanatismo, il mistero, il paradosso, la disperazione, l’umorismo, la presunzione, la schizofrenia. Curioso è anzitutto il fatto che Glenn Gould, di professione pianista, sia diventato un riconosciuto e venerato protagonista della musica solo dopo la morte (nel 1982, a cinquant’anni giusti); giacché se episodi del genere si danno (o si davano) talvolta per i compositori, è piu raro che ciò avvenga per un’arte legata all’immediatezza del presente e della presenza, qual è quella dell’interpretazione. Ma Gould aveva posto per tempo i presupposti di una celebrazione a futura memoria: nel 1964, dopo nove anni di trionfi d’élite, aveva smesso di suonare in pubblico (con motivazioni accattivanti: "Durante i concerti mi sento umiliato, mi sembra di essere un artista del varietà") e si era rinchiuso in un eremo superprotetto e supertecnologizzato, per dedicarsi esclusivamente alle incisioni discografiche. Facendo, più che di se stesso, la fortuna della sua casa discografica, la CBS, depositaria di una “Legacy” milionaria.
E' stato Glenn Gould un grande pianista? Piero Rattalino, che se n’intende, lo giudica "trai maggiori del nostro tempo". A me la risposta suggerisce ampi margini di dubbio. Lo è stato certamente per la musica del Novecento, di cui ha lasciato testimonianze ragguardevoli; rivelando che nell’ansia di un’espressione repressa, nevrotica e lancinante, sensibile ad aperture di fulminea rivelazione e protesa verso la perfezione della tecnica, egli era un artista illuminato del nostro secolo: un angelo di fuoco di lucida e implacabile intelligenza, ma impermeabile alla tenerezza e al calore umano. E anche nelle numerose pagine dei suoi scritti dedicati ad autori e a musiche del Novecento (Schönberg in prima linea; Sibelius, Hindemith, Skrjabin, Ives, Krenek, Berg; i canadesi contemporanei, e poi Boulez e l’oggi) Gould ha impresso il marchio di una sensibilità acuminata, di un’acutezza che avvince e incide con squarci netti, fin nel terreno minato della profondità analitica. Par quasi che qui Gould pensi e scriva nel linguaggio di quella musica, e ne contempli per così dire il rispecchiamento.
Ma per quanto Gould fosse un caso limite dell’angosciosa sete di verità che in alcuni eletti ha animato il nostro secolo proprio per la sua inappagabilità, i suoi punti di riferimento - e dunque la sua visione dell’evoluzione della musica, nemica del progresso, nemica della storia in nome delle “finalità più vaste della creatività”, pagina 181 - trascendevano quei limiti e si confrontavano con altri ideali. Non solo gli antenati della musica moderna (Byrd, Gibbons, Scarlatti: gli albori del pianoforte e del linguaggio orientato verso la tonalità e la forma libera), ma soprattutto il sole Bach, astro maggiore e centrale di quel sistema planetario. E proprio a Bach Gould riservò attenzione speciale, riflettendola puntualmente negli scritti; dove, però, l'approccio - e ciò vale, a quanto pare, anche per le esecuzioni, fatte di tanti bei momenti continuamente contraddetti nella visione d’insieme - si dimostra sovente, più che impari al compito, stranamente convenzionale ed estrinseco, per non dire naif.
Alla fine dello scritto sulle Variazioni Goldberg, che fu per anni il suo cavallo di battaglia e un vero oggetto di culto dei maniaci del disco più raffinati, Gould conclude un’analisi alquanto scolastica con queste parole: "Non ritengo arbitrario soffermarmi su considerazioni che vanno oltre il fatto musicale, anche se ci troviamo davanti a quella che è forse la più splendida elaborazione mai realizzata su un tema di basso: penso infatti che la fondamentale ambizione di quest’opera per ciò che riguarda la variazione non vada cercata in una costruzione organica ma in una comunità di sentimento. In essa il tema non è terminale ma radiale, le variazioni percorrono non una retta ma una circonferenza, un’orbita di cui la passacaglia ricorrente costituisce il punto focale. (...) Essa ha quindi un’unità che le viene dalla percezione intuitiva, un’unita che nasce dal mestiere e dalla rigorosità, che è ammorbidita dalla sicurezza di una maestria consumata e che qui si rivela a noi, come avviene tanto raramente in arte, nella visione di un disegno inconscio che esulta su una vetta di potenza creatrice". Il sospetto di un che di intrinsecamente e forse inevitabilmente dilettantesco, sotto la formulazione colta e "impegnata", sorge legittimo di fronte a simili concetti, tanto contraddittori quanto oscuri: ma oscura è qui anzitutto la traduzione. Forse ciò si può spiegare con l’intenzione di fornire anche concettualmente un sostegno a una visione interpretativa di Bach che non ha mai, neppure nei momenti più ispirati e inventivi, il respiro calmo e solenne, la nobile grandezza e profondità di un arco compiuto, di un problema interamente risolto.
L’affermazione più provocatoria del volume si trova in fondo a pagina 77, nello scritto Mozart e dintorni (una conversazione con il documentarista francese Bruno Monsaingeon): "Come sai, io ho una zona buia che copre un secolo, all’incirca dall’Arte della fuga al Tristano: tutto quello che c'è fra questi due estremi riesco al massimo ad ammirarlo, non ad amarlo". Dichiarando di preferire il Paulus di Mendelssohn alla Missa solemnis (e di amare ancor più le opere giovanili di Glinka, subito dopo), Gould espone chiaramente una presa di posizione estetica e ideologica: l’avversione per la musica classica (per “le convenzioni esteriori della sonata classica e del suo schema strutturale in gran arte stereotipato”) e per quella romantica (i cui atteggiamenti "implicano in ultima analisi l’amp1iamento delle risorse mediante l’ambiguità e l’idea che ogni fenomeno osservabile abbia una sua occulta ombra psicologica"). Tale avversione ha per conseguenza la critica di Mozart (le cui opere sarebbero “testimonianze di un’esistenza edonistica”) e il rifiuto di Beethoven, categoricamente espresso nel divertente e un po’ goliardico Glenn Gould parla di Beethoven con Glenn Gould; accade così di leggere nel dialogo immaginario passi come questi: “... quelle che la disturbano di più sono proprio le opere centrali della cronologia beethoveniana. Sono le opere in cui un’espressione complessa, affrontabile solo da un professionista, si riferisce a un materiale che è accessibile a chiunque. E questo la disturba, signor Gould, perché costituisce anzitutto una riflessione su quello che è il ruolo ufficiale del musicista, sul professionismo così come si è stratificato nella tradizione musicale dell'Occidente e che lei mette in discussione non senza motivo. (...)”. Al che l’alter ego risponde: “Ma quando quella posizione non è stata ancora raggiunta o è già stata abbandonata, come dice lei, si incontra un’arte di tipo molto più professionistico - il professionismo di Wagner o quello di Bach, secondo la direzione che si sceglie - e per trovare una tradizione puramente dilettantistica occorre andare molto più indietro oppure molto più avanti”. Magari fino a Gould? Se così fosse, avremmo svelato il mistero.
Parole di ammirazione incondizionata sono invece rivolte alla figura e all'opera di Richard Strauss: per di più in anni nei quali non andava ancora di moda e poteva apparire controcorrente. In un articolo del 1962, Perorazione per Richard Strauss, dopo aver definito Strauss “il più grande musicista contemporaneo” (quasi d’accordo) Gould appassionatamente afferma: "Ciò che è soprattutto esemplare nella musica di Strauss è il fatto che essa rappresenti concretamente la trascendenza di ogni dogmatismo artistico, di ogni problema di gusto, di stile e di linguaggio, di ogni frivolo e sterile cavillo cronologico. E' l'opera di un uomo che arricchisce la propria epoca perché non le appartiene, e che parla per ogni generazione perché non s’identifica con nessuna. E' una suprema dichiarazione d'individualità: la dimostrazione che l’uomo può creare una propria sintesi del tempo senza essere vincolato dai modelli che il tempo gli impone". Ma a questo punto saremmo già un po’ meno d'accordo. Giacché Strauss, come del resto ogni artista, non solo appartiene alla sua epoca, ma s’identifica con essa rivivendone l’intera parabola della civiltà artistica e culturale della giovinezza (quella Vita d'eroe che nella sua “esuberante estroversione” tanto turbava il giovane Gould) fino alle soglie del crepuscolo, e oltre; e muore in dolce agonia - cullato dalle melodie infinite, struggenti, dei suoi Finali d’opera - dopo averne prolungato sino al limite estremo la longevità. Ma evidentemente a Gould, di Strauss, interessava l’aspetto della sfida, nella quale potersi di lontano identificare.
Se ci siamo soffermati soprattutto su alcune delle sintesi più irrisolte fra quelle tentate da Gould anziché sulle molte, illuminanti analisi parziali, non è per sminuirne il valore; ma anzi per cercare di indicare in che cosa esso consiste. Gould era un outsider, un dilettante nel senso antico e un genio in quello moderno. In fondo, gran parte del suo fascino risiede nel fatto che egli, rifiutando il culto romantico del virtuoso e scegliendo un’esistenza claustrale, ha incarnato da artista ciò che ognuno di noi vorrebbe essere almeno in certi momenti e stati d'animo della vita. Chi non ha mai sognato di rinchiudersi in un eremo a coltivare le proprie passioni e a rettificare le proprie tendenze schizofreniche? Chi non ha avuto almeno una volta la tentazione di riscoprire un Gibbons, di sprofondarsi in Bach, di negare Beethoven? (Ma Mozart proprio no, quello rimane nostro fratello, sempre). Gould tutte queste cose le ha fatte per davvero e ce ne ha parlato a un livello superiore, dall’alto della sua individualità; è stato capace di essere assoluto e intransigente, senza scendere a compromessi, neppure con le sue nevrosi. Per questo lo ascoltiamo e lo leggiamo con rispetto, anche quando nella sua concitazione o ingenuità o ironia ci lascia interdetti. E lo sentiamo a noi vicino, anche se la compagnia è imprevedibilmente scomoda e sfuggente: vicino, con sincerità, ai nostri dubbi e alle nostre inquietudini, pronto a farci emozionare e sorridere.
Sergio Sablich
("Musica Viva", n. 4, Anno XIII, aprile 1989)

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