Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 03, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (13/14)

L'essere non ha mai e in nessun modo un suo uguale.
L'essere è unico rispetto a ogni ente.
Martin HEIDEGGER, Grundbegriffe, II, 8
 
MUSICA, FILOSOFIA E I DILEMMI PRESENTI
Tredicesima parte.
 
Ludwig Wittgenstein (1889-1951)
E' noto un pensiero di Ludwig Wittgenstein databile al 1941: "Per un compositore, il contrappunto potrebbe essere un problema straordinariamente difficile. E cioè questo: in quale rapporto devo pormi con il contrappunto, io, con le mie inclinazioni?
Potrebbe trovare così un rapporto convenzionale e sentire tuttavia benissimo che non è il suo, che non è chiaro quale significato il contrappunto debba avere per lui".
Domanda decisiva. Il riferimento al contrappunto è quel che in retorica si chiama sineddoche: la parte per il tutto, e il tutto è naturalmente la musica, e più in generale l'arte. Il filosofo austriaco fa leva proprio sull'aspetto del comporre musicale in cui più risalta l'inventio, l'artificio ex novo, imprevedibile e frutto di lavoro, di opus, diversamente dal momento dell'ispirazione che sembra immergersi nella realtà preesistente, catturarne il nucleo e lasciarsi trasportare dalle sue onde in sintonia. Techne, ars e scientia insieme, non enthousiasmos. I corollari alla domanda di Wittgenstein sono dunque:
(a) l'invenzione musicale è realtà?
(b) Se è realtà, fa parte del reale in senso univoco o è un'altra realtà che prima non esisteva?
(c) Se per (b) vale la seconda ipotesi, le due realtà sono di ugual natura o esiste una differenza essenziale (un tempo si sarebbe detto: "ontologica") tra esse?
Risposte, se non sufficienti, almeno molto indicative sono offerte da altre pagine delle Vermischte Bemerkungen di Wittgenstein. In particolare, da un pensiero del 1938 sulle analogie tra musica e architettura. In esso l'autore del Tractatus logico-philosophicus, dalla cui personalità prendiamo le mosse poiché egli è forse il filosofo del Novecento che più ha parlato di musica, dichiara apertamente una delle sue fonti fondamentali: Arthur Schopenhauer, il filosofo che più ha parlato di musica nell'Ottocento. L'annotazione di Wittgenstein avverte: 'Confronta l'osservazione di Schopenhauer sulla musica universale come accompagnamento a un testo particolare". Il passo schopenhaueriano è il § 52, Zur Metaphysik der Musik (come alcuni editori, se non l'autore, lo hanno intitolato) nella seconda parte dell'opera maggiore, Die Welt als Wille und Vorstellung. Ne riferiamo l'itinerario, sollecitando i lettori a un dibattito sugli argomenti trattati, sia a proposito di questo paragrafo schopenhaueriano, sia per quanto riguarda tutto ciò che diremo in questa nostra puntata.
Si tratta del discorso fondamentale di Schopenhauer sul linguaggio musicale, fra innumerevoli altri passi di questo e di altri scritti in cui egli ne parla. La grande trattazione è preceduta, in ordine, da quelle sull'architettura, sulla scultura, sulla pittura e sulla poesia (a nessuno sfugge che questa vasta sezione del libro maestro di Schopenhauer è il controcanto critico alla parallela trattazione svolta nell'Aesthetik di Hegel), e già in quelle pagine precedenti emergeva un'opinione di fondo, valevole per le arti in generale: "La materia, in quanto tale, non può essere rappresentata da un'idea" (§ 43, inizio), in quanto l'idea è svincolata dal principio di causalità cui è soggetta la materia nel suo comportarsi. La musica è esaminata da Schopenhauer dopo le altre arti poiché essa "è staccata da tutte le altre. In essa non conosciamo l'immagine, la riproduzione d'una qualsiasi idea degli esseri che sono al mondo [è vero, questo? sarebbe bello discuterne, N.d.R.]; eppure essa è una così grande e sublime arte, così potentemente agisce sull'intimo dell'uomo, così appieno e a fondo vien da questo compresa, quasi lingua universale più limpida dello stesso mondo intuitivo [ ... ] Dal nostro punto di vista, dunque, dobbiamo riconoscere alla musica un significato ben più grave e profondo, che si riferisce alla più interiore essenza del mondo e del nostro io, rispetto alla quale le relazioni di numeri in cui la musica si lascia scomporre stanno non già come la cosa significata, ma appena come il segno significante. Che la musica debba stare al mondo, in un senso qualsiasi, come la rappresentazione sta al rappresentato, come l'immagine sta all'originale, lo deduciamo per analogia dalle altre arti, alle quali tutte appartiene questo carattere, e la cui azione su di noi ha la stessa natura di quella della musica, solo che quest'ultima è più forte, più necessaria, più infallibile".
Che cosa significa "la musica rappresenta il mondo"? Rilanciamo la domanda ai lettori bene intenzionati a discuterne, già prima di procedere con le risposte di Schopenhauer. "Nei suoni più gravi dell'armonia, del basso fondamentale, io riconosco i gradi infimi della volontà che si sta interamente oggettivando, la natura inorganica, la massa del pianeta. Tutti i suoni acuti, agili e rapidi, notoriamente sono da considerare nati dalle vibrazioni concomitanti del suono fondamentale profondo, e al risuonare di questo suonano subito anch'essi, lievemente. E' legge dell'armonia accordare con una nota bassa soltanto quei suoni acuti che insieme con essa già effettivamente risuonano nelle vibrazioni concomitanti (i suoi sons harmoniques). E' un fatto analogo a quello per cui tutti i corpi e organismi della natura devono essere considerati come sviluppati gradatamente dalla massa del pianeta". La volontà oggettivata e rappresentata dalla musica si esprime, continua Schopenhauer, nel "peregrinar lontano dal tono fondamentale, per mille vie, non solo verso i gradi armonici, la terza e la dominante, ma verso ogni tono, fino alla dissonante settima e ai gradi eccedenti". Il rapporto della musica con la realtà si traduce, secondo Schopenhauer, in una formula perfetta nell'enunciato: "i concetti sono gli universalia post rem, mentre la musica dà gli universalia ante rem, e la realtà gli universalia in re".
Da questo fondamento di pensiero sono formulabili tre questioni centrali, già adombrate dal citato pensiero di Wittgenstein:
1) Il compositore di musica aggiunge realtà alla realtà?
2) Se è così, da dove egli trae questa nuova realtà?
3) Se è così, la nuova realtà aggiunta come si intreccia, si organizza e si fonde con la realtà preesistente?
In riferimento ai dilemmi che il compositore contemporaneo incontra, le tre questioni possono tradursi in questi termini:
(a) Qual è il rapporto del compositore con i mezzi compositivi tradizionali? Va inteso come perenne ripensamento o come invenzione di nuovi linguaggi?
(b) Risorge l'antico problema: dov'è l'essenza della musica, il suo nucleo ontologico? Nel mondo o fuori del mondo? E di conseguenza, il mondo è una realtà unitaria o duplice?
(c) La musica ha una fisionomia oggettiva o il suo codice di significati è relativo? Alla discussione potrebbero giovare due enunciati filosofici, che scegliamo da due versanti culturali diversi: ancora Wittgenstein, ovvero il neopositivismo logico, e il pensiero di un filosofo cattolico del Novecento, Jean Guitton. Li sottoponiamo all'attenzione dei lettori.
Ludwig Wittgenstein, ancora da Vermischte Bemerkungen, 1931: "Le composizioni musicali devono avere carattere del tutto diverso e produrre un'impressione di genere del tutto diverso a seconda che siano composte al pianoforte, suonando il pianoforte, oppure pensate con la penna, oppure ancora composte solamente con l'orecchio interno. Io credo proprio che Bruckner abbia composto con l'orecchio interno e immaginando l'orchestra che suona, Brahms con la penna".
Jean Guitton, Un siècle, une vie, 1988. A proposito di Henri Bergson e di alcune sue considerazioni su una sonata di Beethoven: "Quando egli [Bergson] conosceva a fondo una sonata, affermava che chi è in grado di possederne una nella mente, nota per nota, la può godere tutta intera da cima a fondo. Si ha allora un'intuizione d'insieme che può essere istantanea, eppure il pezzo impiega quasi un'ora d'orologio a svilupparsi. Certe frasi musicali di Beethoven sarebbero potute essere diverse. Erano affidate alla libertà. Vi propongo questa immagine per illustrare quale sia il rapporto che si ha sempre tra l'eternità e la libertà. E' un problema che non so risolvere, e che sarà risolto interamente soltanto in Dio".
Così si aggiunge, ai dilemmi già esposti, un quarto, che nella valutazione della musica in fieri, e quindi nell'apprezzamento della musica che per ciascun uomo è, di volta in volta, "contemporanea", assume forza e urgenza particolarmente tormentose. La musica che è ed è stata, doveva essere? Dato il mondo, poteva Mozart non essere? Anche noi, come Bergson (e come Guitton che lo cita), non sappiamo rispondere, e saremmo felici se qualcuno lo facesse per noi.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 2, Febbraio 1991, Anno XV)

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