Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, settembre 27, 2020

Bruno Maderna: direttore, a vent’anni dalla morte...

Bruno Maderna (1920-1973)
Fa quasi male. Mette a disagio. La voce arrochita, sprofondata nel grave dalle sigarette e dalla prudenza vocabolistica - dovendo maneggiare l'inglese, lingua non fisiologicamente posseduta - il respiro pesante che fa da “pedale” all’intera conversazione. Presagi d’una morte che purtroppo non avrebbe tardato. L’ascolto di questa intervista, realizzata a Chicago il 23 gennaio 1970, non è facile. La voce di Bruno Maderna spicca come appendice emozionante al disco che testimonia il suo ultimo concerto (Londra, 5 novembre 1973) e ci ricaccia dolorosamente indietro nel tempo. Vent’anni fa, il l3 novembre, Maderna moriva improvvisamente a Darmstadt. Sulla scrivania, la partitura di Pelléas et Mélisande, futuro e inesplicato impegno teatrale. A 53 anni scompariva la natura musicale più sorprendente espressa nell’Italia del Novecento. Bambino prodigio, compositore e maestro, direttore d’orchestra e intraprendente animatore culturale. Una figura mitica, che alla fine degli anni Sessanta gli studenti del Conservatorio di Milano, come il sottoscritto, conoscevano bene. Stabile all’Orchestra Rai di Milano, assiduo alla Scala - ove aveva avviato in alternanza e complicità con Claudio Abbado, e non senza suscitare perplessità, la prima integrale italiana delle Sinfonie di Mahler (nell’ottobre 1969 aveva diretto la Sinfonia n. 9) - partecipò ufficialmente e informalmente a tutte le iniziative musicali a favore dei mitici (e mitizzati) giovani, lavoratori e studenti.
Prestò anche la propria opera come insegnante di direzione d’orchestra in alcune sedute semi improvvisatorie e avventurose (vi partecipò come “docente” anche Abbado), ma soprattutto aprì le porte di Sala Verdi per le prove con l’Orchestra Sinfonica Rai. Maderna direttore era una sorta di stregone ampio e placido. Capace di canticchiare una filastrocca per tranquillizzare e inquadrare l’Orchestra nella perigliosa Danza sacrale del Sacre du Printemps, o di sospendere la prova pratica per creare il clima esecutivo giusto - soprattutto con musiche nuove - attraverso una fascinatoria descrizione della partitura. Mai accigliato o scostante, al massimo disposto a sfuriate tempestose e fulminee: di quelle che non lasciano malintesi né malumori ma cementano i rapporti. Scoccate soltanto dalla voglia di avere tutti con sé nel lavoro di costruzione collettiva d’un’esecuzione.
Con lui sul podio, la partitura pareva non presentare mai un problema tecnico. Subito, e sempre, musica. Merito della carica personale e galvanizzante di Maderna. Della sua magistrale conoscenza della materia, della filosofia materico-direttoriale accostabile a quella di Sergiu Celibidache, per cui l’articolazione è strettamente correlata prima alla densità della pagina musicale quindi alle altre componenti. Nell’intervista sopracitata, viene richiesta una spiegazione su una scelta di tempo (più lento) nella quarta delle Variazioni op. 31 di Schönberg. “Le variazioni di tipo cameristico in generale, e quelle di Schönberg in particolare, sono così complicate (specialmente per l`intreccio contrappuntistico) che occorre avere un po’ più di tempo per apprezzarne le qualità, la tenerezza”, risponde Maderna. “Se lei ha un`ideina tipo ‘pa-pa-pa’, allora va bene eseguirla più velocemente possibile; ma se ci sono tante linee melodiche intrecciate finemente, allora 88 di metronomo mi sembra troppo. Dipende anche dall’acustica della Sala: voi qui avete una bella acustica rotonda, mentre in studio il suono è più secco e automaticamente si pretende un tempo più veloce. Un’altra variabile è data dagli strumentisti: se sono bravi si diventa golosi, si prende piacere al suono e ci si lascia andare al ricordo della Serenata viennese, che a momenti sembra quasi un’operetta”. Si diventa golosi. La battuta suona epigrafica. Com’era goloso Bruno Maderna. Di musica, di emozioni, di vita. Di amici, di discussioni. di piaceri. E quella stessa voce, sofferente e roca, ci rimanda il profilo d’un musicista anzi d’un uomo che farebbe tanto bene alla vita musicale d'oggi. Un uomo fuori dai giochi, generoso nell’arte come nella vita. Perfino irritante nell’altruismo totale - che nei confronti degli amici o dei giovani da aiutare si trasformava in dedizione assoluta - nella dilapidazione continua e allegra della propria salute, nelle regalie continue del proprio talento. Un artista disincantato e sdrammatizzante. Senza preconcetti. Un musicista senza casacche né dogmi. Compositore e direttore d’orchestra, strumentatore e inventore di nuovi suoni tecnologici, esploratore dell’avanguardia e custode del repertorio Classico. Pensate, un interprete nato nella musica contemporanea che sosteneva: “bisogna essere molto severi, quasi crudeli, non tutta la musica d’oggi è bella”. E che nel 1970 si lagnava per la scarsa considerazione dei colleghi e del pubblico nei confronti di esecuzioni basate sugli apparati critici (la Bärenreiter aveva avviato l’opera omnia di Mozart), che mostrava preoccupazione per la difficoltà a sottrarre Beethoven e Wagner ai routinier tedeschi, Debussy ai francesi e Verdi a quelli di casa nostra. Un compositore-direttore biologicamente radicato nell’avanguardia ma che non aveva remore corporative: “una cattiva esecuzione di musica contemporanea lascia tracce più profonde che quattro belle esecuzioni” e che a proposito dell’introversione talvolta dimostrativa degli autori viventi confessava serenamente, con metafora netta: “la musica non deve essere troppo a buon mercato ma nemmeno troppo cara, deve rimanere un fatto sociale”. Nell’intervista registrata spicca poi un’immagine romantica e un po’ ingenua: “quando non ci sono più parole per esprimere ciò che si sente, li comincia la musica”. Accostiamola a quella tratta da un’altra conversazione (7 maggio 1973): “non sono un metafisico. Per l’amor di Dio, un principio così altamente spirituale! Per la verità io sono un innamorato della musica”.
Di tutta la musica. Anche come interprete, ch’è il versante qui direttamente trattato. Il repertorio di Maderna, per quanto costantemente tenuto nell’orbita dell’avanguardia (storica o contemporanea), non rivela discrepanze rispetto alla sua voracità di uomo e alla versatilità di autore. E il doppio ruolo non viene sentito come facilmente conciliabile. Anzi. “Per me queste due attività vanno benissimo d’accordo”, disse; “a volte e molto faticoso perché richiedono due atteggiamenti diversi: la composizione propria deve essere conservata dentro, mentre quelle che si dirigono hanno bisogno di molta energia volta all’esterno. Tuttavia questo contatto diretto e continuo con la musica, non solo come pensiero astratto, come formulazione teorica, ma come pratica esecutiva, come materiale sonoro vivo, è molto importante”.
Ravvivare il ricordo, e accenderlo in chi non ha avuto la fortuna di ascoltare Maderna, è un compito gratificante della discografia. Purtroppo l'anticonformismo dei suoi impaginati concertistici non ha favorito un rapporto significativo né regolare con l’industria fonografica, allora all’inseguimento semiesclusivo del pubblico commerciale. La conoscenza sul patrimonio esecutivo di Maderna s’è allargata soltanto in questi ultimi anni, per l'intraprendenza di alcune piccole case editrici che hanno messo mano sulle registrazioni dal vivo conservate negli archivi radiofonici, soprattutto inglesi e tedeschi.
Ruolo decisivo, quello svolto in tal senso da Stradivarius (distribuzione esclusiva Milano Dischi - via Costa 7 - 20131 Milano) che ha restaurato il suono di alcuni nastri di notevole interesse interpretativo. Il catalogo di registrazioni maderniane, fino a qualche mese fa limitato a una dozzina di titoli (musiche dello stesso Maderna, e di Berg, Boulez, Schönberg, Webern, Nono, Stravinsky e Malipiero), s’è arricchito in concomitanza col ventennio della sua morte di tre uscite di straordinario valore documentario e musicale. Cinque inediti per la discografia ufficiale, oltre alla incisione della lunga intervista di cui s’è detto, frutto della conversazione realizzata alla Radio Wefm di Chicago tra Maderna, George Stone e il compositore Alan Stout. Il nastro, toccante per chi Maderna conobbe, è una testimonianza seducente comunque; impossibile non cogliere anche al primo ascolto la carica umana ineffabile di quella voce vetrosa e cantilenante.
Quanto alla modernissima arte interpretativa, all’invadente ed estroversa fantasia compositiva del musicista veneziano, abbiamo un saggio estrosamente eloquente. Si può scegliere quale cammino percorrere per primo. Noi abbiamo preferito iniziare con Ages, l’iridescente e inquieta “invenzione radiofonica per voci, coro e orchestra di Bruno Maderna e Giorgio Pressburger da As You Like It di Shakespeare”. Il lavoro, che vinse nel 1972 il Premio Italia, fu realizzato allo studio di Fonologia di Milano della Rai (altra creatura cui Maderna fece da provvidenziale levatrice, e che qualcuno dopo di lui lasciò in abbandono), è fondato su una serie di prismatici mutamenti di prospettiva sonora (naturale e sintetica: mescolate) che “descrivono” allusivamente il percorso biologico delle età dell'uomo, secondando il clima di vago e elettronico espressionismo richiesto da un radiodramma che si rispetti. La naturalezza, la sensibilità emotiva, la cordialità teatrale, con cui Maderna ordisce il suo ipertesto sonoro, creando una serie di preziosi panneggi narrativi per le recitazioni reiterate e innestate l’una sull'altra, danno subito una sensazione di vertigine acustica e di formidabile motivazione espressiva. Oltre a far capire con quale familiarità l’autore sapesse combinare tecnologia e artigianato compositivo, suoni di sintesi e antifone orchestrali suadenti.
La figura bifronte di Maderna, e del suo estroso mondo creativo, si completa gustosamente col paradossale Satyricon da Petronio. Un collage, una sorta di scatenato e orgiastico cabaret polistilistico per il quale l’autore coniò il profetico termine di “neo-musical”, spiegando poco oltre come la partitura avesse “cercato di rendere in musica quello che oggi si pensa della pop-art”. Quella registrata a Hilversum nel marzo 1973 è la più agile versione da concerto (una decina di minuti più breve di quella teatrale), che rende maggiormente esplosivo il cocktail citazionistico e la sovreccitazione parodistica del lavoro, pensato in tale veste kitsch e falsificata proprio per corrispondere all’originale altrettanto eccessivo e provocatorio di Petronio. Qui, certo, è impossibile non captare l’umore acre e sornione del direttore-compositore: le tessere d’altro autore vengono incasellate con vivacità in un percorso musicale coloratissimo e spumeggiante, e col testo davanti i sottili (e/o grassi) sberleffi sonori acquistano un’affilatura da rasoio, senza rinunciare alla propria natura di oggetti straniati e caricaturali. Una partitura autenticamente fumettistica, allo stesso tempo di perentoria funzionalità “drammatica”, che cancella con anticipo di un ventennio tutti i rifacimenti citazionisti e (nelle intenzioni, soltanto) ironici - con più flebili motivazioni espressive, ideologiche e stilistiche - prodotti e autopromossi da alcuni giovani autori viventi. L’esecuzione è incalzante e umoristica, la scelta dei cantanti è felicissima, la registrazione fedele.
Più che soddisfacente, nonostante si tratti di nastro ultratrentenne, risulta anche l’ascolto dell’Heure espagnole, che ci porta in un mondo sonoro molto amato da Maderna. Del resto, non occorre molto per rendersene conto: poche battute di musica e siamo avvolti nel clima indolente e pruriginoso spalmato tramite una concertazione in cui ogni disegno, ogni suono, ogni allusività temantica paiono decantare con magica delicatezza e intridente rapidità. Maderna prende terribilmente sul serio la scrittura di Ravel ma si cautela da un eccesso di rigidezza intingendo il tutto (anche la docilissima orchestra) in una respirazione narrativa, a mezzo tra fiaba e pochade, che pare sempre ammiccare altrove e volare con levità incantata. Sul versante opposto, com'è immaginabile, l’effetto dei due novecenteschi concerti per pianoforte, nucleo dell’ultimo concerto diretto da Maderna (il programma completo comprendeva anche due Sonate di Scarlatti officiate da Brendel in avvio di serata). Non vorremmo però che sorgessero equivoci: in questa emozionante registrazione, il valore artistico e interpretativo sopravanza quello squisitamente documentaristico ed emozionale: comunque penetrante. In Schönberg, il segno musicale forte impresso da Brendel e Maderna possiede un’intelligenza musicale da brivido. L'esecuzione chiarisce il luminoso impianto interpretativo, condiviso a fondo dai due musicisti, nelle improvvise schiarite cantabili, nelle sospensioni liriche, nella ricostruzione d’una logica timbrica vivida ma esplorata in funzione della corrispondente indagine sulle suadenti trame contrappuntistiche. Il suono traslucido di Brendel è una sorta di antenna parabolica in grado di captare e anticipare (o sintetizzare) i doviziosi segnali musicali isolati dall’articolazione orchestrale. L'eleganza mai raggelante ricreata da Maderna ricostruisce un tracciato sonoro tutt’altro che monocromo, che riconverte il solista a un ruolo concertante sofisticato: i colori degli episodi orchestrali sono di per sé la miglior dimostrazione dell’inventiva direttoriale e dalla fantasia espressiva di Maderna. Sempre caldi, insinuanti e facili da decifrare nelle loro componenti strumentali: bruschi quando occorre, ma non violenti. Animati da un vibrante soffio sinfonico-concertante, radicato nel superbo (postimpressionista?) eloquio espressivo da cui il Concerto nasce, che informa il seducente impianto musicale. Uniti nell'amore per la partitura, galvanizzati reciprocamente dall'occasione concertistica, Maderna e Brendel - già sensazionali nel precedente Primo Concerto bartokiano - con Schönberg vanno oltre. Ci insegnano a conoscere e amare un profilo d’autore sovente (soprattutto in quegli anni) sottovalutato. Per micragnosità o dogmatismo dei concertatori. Per impotenza strumentale e pigrizia mentale dei pianisti. E' il disco che può illuminare chi ha qualche dubbio residuo sull’assoluta musicalità e sulla poesia bellissima di questo Concerto, per questi interpreti lavoro - anzi capolavoro - autenticamente riassuntivo dell’originalità e del modernismo radicale ma pur sempre postromantico dell’autore.
Mette un po’ l'angoscia, piombare nella registrazione dell’intervista. Fa proprio male. Per fortuna l'innamorato della musica, attraverso queste diverse testimonianze discografiche, lo ritroviamo per intero. E qualche ascoltatore disincantato e meno sentimentale troverà soltanto le tracce indelebili dell’unico compositore-direttore del secolo in grado - prima di Boulez - di tenere unite in un sol gesto di alta fusione musicale chiarezza e innovazione critica, personalità e originalità interpretativa.
Angelo Foletto
("Musica Viva", n.12, dicembre 1993)

Nessun commento: