Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, luglio 11, 2024

Georges Cziffra: un voto indissolubile

Georges Cziffra (1921-1994)
In omaggio al Maestro ungherese scompar
so il 15 gennaio di quest'anno riproduciamo qui quella che è stata probabilmente l'ultima intervista rilasciata alla stampa, originariamente pubblicata assieme ad altri due articoli in un ampio servizio giornalistico di Erik Pigani dal mensile francese Le Monde de la Musique n.151 di gennaio 1992.

Nel corso della Sua carriera la stampa ha spesso fatto circolare l'immagine di uno Cziffra insieme prodigiosamente dotato e forsennato lavoratore. Quale peso relativo Lei attribuisce ai due fattori: talento e lavoro?
Non saprei precisarlo. È difficile dare una valutazione. Diciamo che il talento non può svilupparsi senza il lavoro. Contrariamente a ciò che alcuni hanno potuto immaginare, io non passo le mie giornate a far correre le dita sulla tastiera senz'altro scopo che la ricerca del virtuosismo. Non è così. Tutto dipende dall'etichetta che mi hanno appiccicato fin dal mio arrivo in Francia, con espressioni iperboliche come "mago del pianoforte", "reincarnazione di Liszt”, "prodigio diabolico"  e lasciamo stare il resto. Invece di onorarmi, questo eccesso di complimenti mi sconcertava molto. Mi feriva, a volte. Sono soltanto un essere umano! Per un pianista normale il vero lavoro consiste in un giusto equilibrio tra lo spirito e la fisicità, una perfetta coordinazione tra il gesto e il pensiero.
Può raccontare qualcosa del Suo lavoro tecnico?
Gli esercizi muscolari, la tecnica, il rilassamento, il controllo stanno alla base della pratica di uno strumento. Ci si dimentica troppo spesso che far musica è un lavoro fisico. Potrei spiegarLe che è necessario possedere delle dita estremamente solide per sostenere il peso delle braccia e delle spalle, le quali devono essere completamente libere e decontratte. Ma questo non Le servirebbe molto... Per parte mia, il mio vero interesse lo riservo unicamente ai problemi di interpretazione.
In che modo allora Lei si avvicina ad un'opera?
Con un'opera nuova comincio a studiare la partitura senza nemmeno toccare il piano, magari per la durata di due o tre settimane, perché ho paura di non comprendere il messaggio dell'autore....
Di non rispettare lo stile?
Sì; per ciò che mi riguarda lo studio dello stile è un problema che oltrepassa di gran lunga il puro dato tecnico. Per ogni compositore cambiano lo spirito e il linguaggio... Che si tratti di Chopin, di Debussy, di Schumann o di altri, ognuna delle loro composizioni è un messaggio di estrema importanza. E questo messaggio non è destinato soltanto al presente, ma anche a tutte le generazioni future. E non unicamente a beneficio di pochi privilegiati o raffinati melomani, ma di tutti gli uomini... Questo messaggio bisogna saperlo rendere, interpretare...
Con la Sua propria personalità...
Sì, certo, appunto perché sono un essere umano! Posso tuttavia aggiungere qualche cosa che forse non è generalizzabile per tutti i pianisti: quando io lavoro su di un'opera dimentico lo strumento, Completamente. I problemi materiali, la tecnica e il pianoforte scompaiono. Lavoro unicamente con lo spirito.
Per comprendere ciò che il compositore ha voluto dire?
No, non per "comprendere". La cosa avviene ad un altro livello. Prendiamo ad esempio il Valzer in mi minore (opera postuma) di Chopin. Spesso ho sentito dire che questo lavoro si fonderebbe più sul virtuosismo che non sul sentimento musicale o artistico. Secondo me è sbagliato. Ogni volta che studio, che interpreto questo piccolo gioiello, ho l'impressione di venire trasportato nel paese fatato della mia infanzia. Questo tipo di visioni non sta certo scritto "fra le note", ma emerge invece dal più profondo di me stesso.
Allora lei fa riferimento a dei ricordi personali che non è detto debbano evocare le medesime immagini per un ascoltatore...
Certo che no! L'arte dell'interprete dovrà consistere appunto nel comunicare i suoi sentimenti più profondi, anche senza una riproduzione delle immagini esteriori. Prendiamo un altro esempio: nello studio "La Rivoluzione" di Chopin si possono suonare le doppie crome del tema esattamente come stanno scritte, nel rispetto assoluto del tempo metronomico. Sarà sempre musica, ma non certo un'interpretazione. Per esprimere la rivolta, la passione di questo studio, io lascio che le note esistano ciascuna per se stessa, senza mettere in campo le doppie crome, così come fa un gran numero di pianisti... col pretesto che in fondo sono soltanto delle doppie crome! Non è una visione unicamente "personale". Essa mi sembra piuttosto universale e umana!
È ciò che si chiama "la visione dell'artista"?
Sì, se Lei vuole... Ma, per spingerci più in là, io ho l'impressione che attraverso la carta si diffonda una specie di fluido, un messaggio che io posso "captare". È possibile che gli artisti, gli interpreti, siano collegati in maniera intuitiva ai compositori, o quanto meno al loro pensiero. La partitura non è se non un supporto materiale che consente all'essenza dell'opera di attraversare i secoli. Questa è sempre là, nella sua realtà vivente. Basta saperla decifrare, non solo con le note, ma col  cuore. Credo che sia tutta una questione di cuore.
Lei è credente?
Assolutamente si. Senza spiritualità una filosofia musicale diventa una forma di ateismo arido, assai prossimo al nichilismo... Io credo in Dio, alle forze universali della Natura, ed è questo che guida la mia vita e mi protegge.
E come decide lo stile che adotterà?
Io non decido nulla: è una cosa che accade o non accade. Non si tratta di lavoro, di analisi o di riflessione, ma di un sentimento interiore assai profondo. Vede, della musica si può dare una certa definizione; ad esempio: "L'arte di combinare i suoni secondo date regole." È una formula banale, che ha l'unico effetto di tranquillizzare lo spirito, poiché nasconde l'essenziale. In tal modo si dimentica la causa invisibile, quella specie di sesto  senso dal quale nasce l'ispirazione.
Ci sono dei lavori che un tempo Lei amava ascoltare, ma per i quali quella "cosa" non è mai accaduta, e che Lei in seguito ha  scartati?
Certamente. Alcune partiture le ho abbandonate del tutto. Nutrivo su di esse delle illusioni che sono cadute quando ho cominciato a studiarle. È normale...
E dopo di questo Lei comincia a suonare?
Vorrei anzitutto precisare che io non suono mai: io interpreto. Quando affronto l'interpretazione di un'opera, lavoro molto lentamente, con la massima concentrazione possibile, per dominare i riflessi, controllare i minimi movimenti di ogni dito, memorizzarli. Due o tre giorni più tardi metto via la partitura e continuo a lavorare con la massima intensità possibile, per esercitare la memoria.
Lei ha un metodo particolare per memorizzare?
Non so se si tratta di un "metodo". Io possiedo una buona memoria auditiva e anche una buona memoria visiva: riesco a "vedere" la partitura. Così - giusto per verificare se ho assimilato a dovere l'opera - suono di seguito tutte le pagine dispari, e poi tutte quelle pari...
Dunque l'essenziale è lavorare lentamente?
Ciò potrebbe valere allo stesso modo per il violino o per gli altri strumenti. Quindi accelero progressivamente il tempo realizzando movimenti sempre più veloci fino a quelli definitivi che rimarranno gli stessi sia che io li esegua in concerto o a casa mia.
Lei compie un grosso volume di lavoro tecnico preparatorio?
No. Niente scale, né arpeggi o esercizi senza fine. Questo potrà magari sconcertare gli insegnanti di pianoforte tradizionali: a condizione di aver già risolto e assimilato l'insieme dei problemi di base del pianismo, tutta la tecnica si trova all'interno delle opere. A me interessano molto di più le difficoltà create dalla forma della scrittura. Una volta lessi una frase analoga di Alfred Cortot, che mi colpì molto... Naturalmente è una teoria, e come tutte le teorie non ha valore assoluto!
Quando si lavora "sul campo" si impara il mestiere, cioè ad interpretare, e non a far correre le dita sulla tastiera costi quello che costi, a tutta velocità e in modo privo di senso.
E quando Lei lavora, Le torna in mente qualche insegnamento dei suoi maestri di un tempo?
No. Ho abbandonato tutte le vecchie teorie...
Nessun ricordo?
Non c'è niente da ricordare... Nel 1956-57, al mio arrivo a Parigi, avevo appena 35 anni, emi fu richiesto brutalmente di essere un pianista completo, capace di suonare di tutto, in tutti gli stili, e ciò senza tener conto del  mio passato, della mia infanzia, dei lunghi periodi durante i quali non avevo potuto lavorare. Mi sono reso conto di fino a qual punto io fossi un emarginato nell'ambiente musicale. Allora ho cercato di incontrare dei maestri, degli insegnanti che mi potessero guidare sulla strada del pensiero musicale prêt-à-porter. Fatica sprecata! Non avevo problemi tecnici... Si trattava piuttosto di integrare la mia sensibilità individuale con quella maestria tecnica che era la fonte dei  miei problemi - e questo non si impara, non si può analizzare...
È possibile che i Suoi periodi di prigionia durante la seconda guerra mondiale, gli anni nei quali Lei non ha toccato uno strumento, La abbiano obbligata a fuggire dal passato per trovare quello che c'era in Lei di fondamentale: un'intuizione fuori del comune?
È possibile.
Ad un certo punto il direttore del Conservatorio di Parigi Le aveva chiesto di venire ad insegnare, e Lei ha sempre rifiutato.
È vero. io non sono un professore. Insegnare il pianoforte è un mestiere, e comporta una responsabilità enorme. Ma quando vedo un giovane artista in difficoltà mi viene voglia di aiutarlo, in ricordo dei miei anni di pane nero e di silenzio forzato. Ecco perché ho creato la Fondazione Cziffra. Allora organizzo -ma sempre più raramente - delle master classes. Di fatto io non tengo dei corsi, ma do dei consigli. In primo luogo per trasmettere le mie concezioni. In secondo luogo, e soprattutto, per consentire ai giovani di evitare le sconfitte che ho dovuto subire io. Spiego loro ciò che non bisogna fare, poiché so per esperienza che è inutile.
Lei consiglia anche ai genitori di lasciare che i bambini possano suonare e improvvisare prima ancora di imparare a leggere le note...
Sì. Non credo che ad un principiante questo possa nuocere. Preoccuparsi degli aspetti pratici e sonori piuttosto che della teoria favorisce lo sviluppo dei riflessi manuali sulla tastiera. Questo significa vivere la musica, provarla in se stessi prima di analizzarla. Io ho cominciato in questo modo.
Lei aveva appena tre anni quando una malattia La costrinse a rimanere a letto per un certo tempo. Lei osservava Sua sorella Yolanta che lavorava al pianoforte, riproducendo sotto le coperte i movimenti delle sue dita. Prima ancora di sedersi per la prima volta davanti al pianoforte, un anno più tardi, Lei aveva visualizzato quei gesti. Dunque aveva un modello!
Certamente! Ma non stavo copiando. Anche le scalette, i piccoli esercizi che ascoltavo, li interpretavo già a modo mio.
Mi domando se l'aver cominciato con la visualizzazione non abbia innescato in Lei quel tipo di virtuosismo naturale.
Probabilmente è così. Tanta gente; professionisti, giovani, dilettanti, non hanno mai smesso di domandarmi il mio "segreto". È il lavoro..
Eppure Lei ha scritto: "La mia evoluzione musicale ha seguito un percorso insieme occulto e irrazionale".
Sì, è esatto. E continuo a pensarlo. Certi aspetti dello spirito umano non possono essere spiegati razionalmente. Il talento è uno di questi. E io credo che l'improvvisazione sia l'atto musicale fondamentale, poiché la creazione istantanea permette di innescare un processo di auto-superamento. Allora ho l'impressione di entrare in fusione con me stesso, come se il mio corpo divenisse incandescente. Ogni volta un po' di più. Qui non si tratta di un "sistema", ma piuttosto di uno stato esistenziale.
E la personalità... Qual è la Sua definizione di un artista?
È difficile. Davanti al suo pubblico un vero interprete diviene l'amplificatore di un campo magnetico. Ha "carisma", come si suol dire. Tuttavia io non so come spiegare questo fenomeno, che sembra far parte della personalità. Sfortunatamente, se uno non ha personalità non può né trovarla né fabbricarsela! È un'opinione personale, ma nell'ultima generazione di musicisti io sento dei pianisti e dei violinisti meravigliosi; tutti dotati di una tecnica pressoché irreprensibile, eppure la loro interpretazione è anonima. Suonano perfettamente, ma non interpretano. Ho sempre l'impressione che manchi qualche cosa. Dov'è l'Arte? Dov'è l'ispirazione? Sono un po' pessimista a questo riguardo.
Perché?
Forse ne ha colpa la nostra epoca. Regna la tecnologia; l'uomo va sulla Luna, parte per la conquista delle stelle. Io preferisco restare qui, sulla Terra, dove sono nato. Amo la mia condizione di essere umano, limitato, ma capace nel contempo di abbracciare l'infinito.
Lo strumento pianoforte rappresenta forse un limite a quello che Lei vuole esprimere?
Lo ignoro, del tutto. Lo suono, naturalmente; eppure sto in ascolto dentro di me, percepisco le mie reazioni. Il piano è per forza di cose limitato, perché di natura materiale. Il mio linguaggio è fatto di suoni, non di legno! Quando interpreto sono assolutamente libero. E quando tocco il legno io ascolto e percepisco il compositore,
Qualche volta Le è stata rimproverata la scelta dei Suoi strumenti. Perché ha scelto la Yamaha, piuttosto che un'altra marca?
lo non l'ho scelta, mi si è imposta naturalmente. Ero andato in Giappone per una  tournée: alla fine del concerto, subito prima di lasciare quel paese, due responsabili della Yamaha sono venuti a farmi visita al mio albergo per domandarmi se potevo andare a visitare la loro fabbrica. Questo accadeva agli inizi della loro attività. Sono andato, e  ho visto un immenso laboratorio, superbo, con 70 pianoforti gran coda. Davanti ad ogni strumento un ingegnere in tuta blu stava ritto sull'attenti come un soldatino... Dietro loro richiesta mi sono seduto davanti a qualche strumento, e sono rimasto colpito dalla loro qualità. E tuttavia mancavano ancora di un timbro, di una individualità tutta loro. Ho fatto qualche osservazione e dato dei consigli. Due anni più tardi questi pianoforti sono stati importati in Francia. Mi hanno chiesto di provarli ancora. Sorpresa! Non solo avevano ascoltato i miei consigli, ma ne avevano anche tenuto conto. E sul piano avevano inciso: "Modello Cziffra"! Ho formulato delle altre osservazioni. La versione definitiva è quel superbo strumento col quale ho dato i miei concerti e che ora occupa trionfalmente il palcoscenico dell'Auditorium Franz Liszt.
Lei si occupa sempre personalmente del Suo pianoforte?
Per l'accordatura e per qualche piccola messa a punto, sì. Sono abbastanza maniaco... ma non troppo.
E quando entra in scena, Le viene il panico?
No; secondo me il panico è sinonimo di dubbio e rivela una carenza tecnica o spirituale. Prima di un concerto sono molto nervoso perché so di dover dare il meglio di me stesso. Il panico si dissolve nel momento stesso in cui entro in scena; lo metto sotto controllo. E non solo col cervello, ma con tutto il mio essere, e soprattutto col cuore. Vedete, anche per me entrare in scena è un atto di coraggio. È in questo istante che risiede la fragilità  dell'interprete. Quando si porta un messaggio, consegnarlo ad un'ora stabilita, a volte fissata con degli anni d'anticipo, è un paradosso che oscilla tra il rito religioso e il supplizio di Tantalo... Per fortuna un concerto è un atto d'amore. Allora dimentico tutto: il pianoforte, lo smoking, la sala. Creo la pace dentro di me, e arriva l'essenziale: la gioia di sentire il pubblico che entra in comunione con me nello stesso amore per la musica. Un momento unico, ma estremamente faticoso. È per questo che ho limitato il numero delle mie esibizioni. In ogni caso sono contro la fabbrica del pianismo...
È sempre Lei a scegliere i suoi programmi?
Sì! Mettere insieme un programma è come costruire una casa, un atto di per se creativo. Ma oggi ho cessato qualunque attività. Ho passato sulla scena cinquant' anni della mia vita. È molto. E io non lavoro praticamente più. Sì, interpreto, improvviso per i miei amici, in famiglia. Ma non più in pubblico.
È semplicemente una questione di lavoro?
No. Non ci sono problemi tecnici, è una questione di decisione interiore, profonda. Essere musicista è più di una religione: è una disciplina, un voto indissolubile.
Erik Pigani (traduzione: Carlo Vitali)
("Symphonia" N°  37 Anno V, Aprile 1994)

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