Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, ottobre 10, 2024

Cesare Ferraresi (Trio di Milano)

Ottenni il trasferimento dal conserva
torio di Trieste al conservatorio di Milano nel 1962, e a Milano mi stabilii all'inizio dell'anno scolastico 1962-63. Il mio ingresso nel conservatorio coincise casualmente con il cambio del direttore: Giorgio Federico Ghedini, musicista illustre, andava in pensione, arrivava Jacopo Napoli, assai meno noto. In verità, Ghedini non era affatto contento di andare in pensione, e prima di cedere le aveva tentate tutte. Giulio Confalonieri aveva scritto, non ricordo più su quale giornale, un articolo intitolato ”L'arte non va in pensione a settant'anni”, uomini politici si erano mossi per vedere con il Ministero se si poteva fare un'eccezione, e Ghedini stesso era andato a perorare la sua causa presso il Ministro in persona, giocando una carta che gli era stata fornita da un professore espertissimo di leggi e di regolamenti. ”Maestro, purtroppo non posso far nulla", disse a Ghedini il Ministro, “perché la legge prevede che chi ha raggiunto i settant'anni, a meno che non sia stato sospeso dall'insegnamento durante il fascismo e non abbia perciò raggiunto il massimo degli anni di servizio, debba esser posto in quiescenza". Ghedini era antifascista, ma di sospensioni non ne aveva subite, e quindi... Però, però... “A dir il vero, Signor Ministro”, obbiettò, “c'è un precedente: Cesare Nordio - che aveva fatto la Marcia su Roma e che perciò... - andò in pensione a settantadue anni”. Il Signor Ministro rimase folgorato. Chiamò immediatamente il funzionario che gli aveva fornito le notizie sulla pratica e gli comunico quel che Ghedini gli aveva appena detto.
“È vero, Signor Ministro”, rispose prontamente il funzionario. “Il Maestro Nordio rimase per due anni oltre il limite d'età perché il direttore del Conservatorio di Bolzano deve parlare il tedesco. E siccome il Nordio era l'unico direttore che conoscesse il tedesco venne autorizzato a rimanere finché non fu espletato il concorso ad hoc”. ll Ministro aveva già aperto la bocca per dire “come vede, e mi dispiace, ecc. ecc.”, ma Ghedini lo bloccò fulmineamente. "Perfetto, allora non c'è problema: Nordio era l'unico direttore che sapesse il tedesco, io sono l'unico che sa la musica”. Il Ministro e il funzionario si fecero una bella risata... Ma a ottobre Ghedini dovette lasciare il conservatorio.
Io, arrivato fresco fresco, assistetti al passaggio delle consegne. Ghedini parlò, ascoltò il discorsetto di Jacopo Napoli - che non era un oratore, che balbettava leggermente quand'era emozionato, e che leggeva perciò da un foglio che aveva preparato - e poi avviò con il neodirettore, divertendosi a tenerlo sui carboni ardenti, un colloquio che divenne ben presto un interrogatorio.
Nei mesi precedenti i professori s'erano appassionati al caso-Ghedini, parteggiando pro-il-direttore o pro-il-regolamento, ed erano perciò molto eccitati durante la cerimonia del passaggio delle consegne. Io mi trovai casualmente seduto vicino a Cesare Ferraresi, che era stato un acceso pro-Ghedini e che commentò a bassa voce ogni frase del vecchio e ogni frase del nuovo direttore, spiegandomi le allusioni che io non avrei saputo cogliere.
Avevo conosciuto Ferraresi nel momento in cui m'ero seduto vicino a lui, presentandomi: “Da dove arrivi?", m'aveva detto, “Ah! da Trieste", e s'era messo a parlare di Gabriele Bianchi, direttore del conservatorio di Trieste per alcuni anni, che conosceva e di cui conosceva il Concerto per violino, e poi di altri musicisti triestini. Chiacchierammo - cioè parlò lui, mentre io interloquivo a monosillabi - per una decina di minuti, e quando i due direttori entrarono eravamo già amici.
Conosco troppo bene l'ambiente dei conservatori, e lo conoscevo già benissimo nel 1962, per non sapere che il nuovo arrivato viene in genere guardato con diffidenza. Fui perciò molto stupito per l'accoglienza di Ferraresi, e gli fui grato di non avermi lasciato lì impalato. Sapevo benissimo chi fosse, naturalmente; sapevo anzi più di quanto lui avrebbe mai potuto immaginare perché me ne aveva molto parlato un contrabbassista mio amico, che era stato con lui nell'orchestra dei Pomeriggi Musicali. Sapevo quindi non solo chi era ma com'era, e sapevo che subito dopo la guerra aveva sbarcato il lunario anche suonando tanghi nelle feste degli industrialotti brianzoli, facendosi poi la fama di grande tanghista ad un punto tale che con una serata in provincia riceveva una somma pari allo stipendio di un mese in orchestra. Nel 1962 Ferraresi aveva lasciato da tempo i Pomeriggi: era la "spalla" dell'orchestra della RAI.
Però era rimasto il musicista-musicista, quello che suona qualsiasi musica - che sia il tango o che sia Brahms - con la stessa passione e con la stessa proprietà stilistica. Suo fratello Aldo, gran virtuoso - mi disse in un'altra occasione -, con i tanghi sfolgorava. Ma anche lui aveva saputo cavarsela; e non si vergognava affatto del suo passato di tanghista-principe, perché per lui la musica era una sola, se era musica. Mozart, in fondo, non la pensava diversamente...
Non vidi mai Cesare Ferraresi fuori dal conservatorio, ma in conservatorio lo vidi molto spesso: in sala professori, nei corridoi, al bar. E con lui parlai moltissimo o, meglio, stetti moltissimo ad ascoltarlo. L'umanità di Ferraresi era senza limiti, la sua gioia di vivere e di far musica era straripante. Uno dei più frequenti argomenti delle nostre conversazioni furono i direttori d'orchestra che venivano invitati nella stagione milanese della RAI, e che io valutavo dalla platea, di schiena, mentre lui li valutava dal palco, di fronte. Da lui imparai a capire la differenza fra l'orchestra che suona volentieri e 1'orchestra che suona, magari benissimo, malvolentieri. Malvolentieri perché il direttore non se l'è fatta amica durante le prove.
Ferraresi prediligeva i direttori che parlano molto con la bacchetta, e detestava quelli  che parlano molto con la lingua. “Grande direttore, grandissimo”, mi disse di uno che era effettivamente grandissimo, "ma dopo due giorni di prova non se ne può più, si comincia a pensare con fastidio al mattino dopo”. Era una grande spalla, Ferraresi, un trascinatore che teneva compatta la fila dei primi violini. Ci sono spalle che durante le prove discutono con il direttore arcate e diteggiature e poi le spiegano alla fila e si arrabbiano se la fila non ha pronta la matita per mettere sulle parti i segni, ci sono spalle che fanno anche studiare la fila, magari per pochi minuti ma portando allo scoperto i pigri e inducendoli indirettamente a guardarsi poi la parte a casa. Però, all'esecuzione, ciò che conta sono la punta dell'archetto della spalla, che tutta la fila vede, il suo gesto di preparazione degli attacchi difficili, la fulminea occhiata in tralice che scambia con il compagno di leggio, il ”concertino”. Ferraresi, sentiti i desiderata del direttore, sceglieva arcate e diteggiature, le faceva vedere alla fila e non si curava di controllare se ciò che aveva deciso veniva o no riportato sulle parti. Tuttavia la fila, al momento del concerto, era pronta ed aveva raggiunto la compattezza di una testuggine romana.
Il fatto è che le diteggiature e le arcate di Ferraresi erano connaturate ad una finalità musicale semplice, immediata, vorrei dire fisiologica. Una volta, dovendo fare delle trasmissioni radiofoniche sugli studi didattici per pianoforte, per violino e per violoncello, chiesi la disponibilità di alcuni strumentisti. Ricordo che Franco Gulli rifiutò: “Per far bene gli Studi di Kreutzer”, mi disse, “dovrei star fermo per tre mesi e dovrei richiedere perciò un onorario che la RAI non potrebbe darmi”. Un altro violinista mi comunicò che accettava con piacere, aggiungendo però che gli Studi di Dont li avrebbe eseguiti, cioè che io avrei dovuto accontentarmi di un'esecuzione più musicale che tecnica. Ferraresi accettò con entusiasmo. Poi, ogni volta che l'incontravo, mi diceva: "Sai, in quel Libon non riesco a trovare la musica. E se non la trovo non so suonarlo”. Alla fine la trovò, e la sua esecuzione non fu né “musicale” né “tecnica” ma semplicemente giusta.
Ferraresi lavorava in un'orchestra italiana ma era come se lavorasse in un'orchestra tedesca, perché aveva formato un complesso d'archi con cui teneva dei concerti extra, aggiungendo a volte dei fiati per fare l'operina.  Era un po', in piccolo, come Renato Fasano, che con i suoi Virtuosi di Roma alternava i concerti e il teatro da camera, e si divertiva ad avere occupata tutta la giornata con la musica. Un giorno - inusitatamente, perché ci incontravamo sempre per caso - venne a cercarmi in classe, per dirmi che aveva formato un trio con Bruno Canino e Rocco Filippini.
E mi chiese - ero allora direttore artistico dell'Istituzione Universitaria dei Concerti di Roma - se il complesso avrebbe potuto interessarmi. Gli dissi di sì, ma gli obbiettai che forse un trio nuovo non avrebbe trovato molte aperture, visto che c'erano il Trio di Trieste e il Trio di Bolzano. Mi rispose dicendo di averci pensato, ma di esser convinto di  poter coprire i periodi che l'orchestra gli lasciava liberi, e di voler comunque tentare.  Ed ebbe ragione.
Era sorprendente, per me, che si formasse un nuovo trio non con giovani ma con professionisti affermati. Ed era sorprendente che i tre non appartenessero alla stessa generazione. Però Ferraresi doveva aver preferito due che gli somigliavano e sui quali poteva - come dire? - esercitare artisticamente la patria potestà. Fatto sta che il Trio di Milano partì molto bene e che si affermò rapidamente. Cesare Ferraresi scomparve prematuramente: nel 198l, a sessantatré anni non ancora compiuti. E la sua, mi fu detto, fu una morte serenamente accettata. Il Trio  di Milano continuò ad esistere dopo di lui, ed esiste ancora, ormai con quasi trent'anni di attività alle spalle. Fa piacere a me, e credo farà piacere ai miei lettori, ascoltarlo nella prima formazione. E fa piacere a me poter ricordare, e fare conoscere a chi non lo conobbe, Cesare Ferraresi: un uomo verso cui non si poteva non provare simpatia, un musicista a trecentosessanta gradi.
Piero Rattalino
("Symphonia" N° 63 Anno VII, Giugno 1996)

martedì, ottobre 01, 2024

"Das Lied von der Erde": il mondo in un granello di sabbia

La musica usa il tempo per dilatare le frontiere del visibile. Alterandone la curvatura, costringe la 
memoria a collegamenti che il principio di realtà le inibisce. Nel romanzo, una stessa strategia viene ottenuta utilizzando il narratore “onnisciente”. Il lettore, avendo accesso alla sua memoria quasi fosse un museo vivente, riassume le vicende di un'intera vita in libero gioco di simboli. In musica, questi simboli sono i temi: le loro modificazioni, metamorfosi, ricombinazioni, non sono stati d'animo, ma portali, statue enigmatiche, labirinti e abissi nascosti. La musica é un giardino segreto. La sua interpretazione è una mappa, il vissuto del compositore. Esistono tre tipi di simboli, in musica: strutturale, allegorico e anagogico. I primi servono a costruire strutture complesse, sono gli architravi della Forma. I secondi esprimono contenuti astratti: eternità, silenzio, morte, rinascita... Gli ultimi, sollevano fuori dalla rete dei significati. Riportano l'anima alla fusione con il Nous universale, la mente che stava prima di ogni intelligenza. Il Canto della terra è, in se stesso, un simbolo anagogico. È un museo della memoria le cui sale sono altrettanti paesaggi del vissuto. Il gioco dei simboli, in musica, richiede che i suoi tre diversi livelli agiscano in funzione oppositiva. Quando l'anagogico è sostanza stessa del comporre, lo strutturale si riduce a materiali elastici, schegge di materia primordiale. Il Canto della terra e tenuto insieme dalla scala pentatonica esposta per intero dall'oboe in “Der Einsame in Herbst"e dall'intervallo di “quarta” ascendente e discendente con cui i corni aprono  “Das Trinklied vom Jammer der Erde”. Il disseccamento progressivo di simili linee elastiche sotto le monumentali orografie sinfoniche mahleriane potrebbe venire osservato con scrupolo da geologo. Ne troviamo premonizioni nel Quarto Movimento della Sinfonia n. 3, il Lied nietzschiano; nella fanfara iniziale che annuncia, stessa partitura, il risveglio del dio Pan; in un passaggio del Rondò-Finale della Settima; nell'assolo di ottavino e poi clarinetto che, nell'Ottava, “plana” verso il “Chorus Mystichus”. In tutti quei episodi il ricorso a relitti sonori, tracce di memoria, serve a risolvere l'interrotta continuità della vicenda autobiografica; nel Canto della terra, invece, tutto si cristallizza in un emiciclo di figure sacre come gli oracoli antichi. Il tempo è trasceso, dunque la specularità tra paesaggio ed eterno partorisce sempre nuove varianti. Ai simboli sonori corrispondono, lungo la partitura, altrettanti “idoli”, archetipi visuali: la scimmia sulle tombe. la piccola lampada, il padiglione che si specchia nello stagno, il bellissimo giovane a cavallo che irrompe come un'onda di forza e luce... Sono questi, a dare coerenza strutturale all'opera. La loro progressione fino agli orizzonti che eternamente s'illuminano, lontano, d'azzurro, produce anche il passaggio dei motivi derivati dalle due idee tematiche di base - la “quarta” e la scala pentatonica - attraverso i riflessi ciclici di un mondo tanto più gigantesco perché, paradossalmente, rinchiuso in una sfera di cristallo, un ecosistema biologico. Gli esiti saranno potenti. Dopo Il canto della terra, non è più il lavorio astratto della Forma a creare il significato; piuttosto, la gloriosa tecnica dello Sviluppo e della Variazione diventa, da ora in poi, l'espressione emozionale, il “gesto” drammatico di ciò che la musica racconta per immagini. Siamo alle soglie del movimento fiorito intorno alla rivista “Der blaue Reiter”, “Il cavaliere azzurro”. I suoni come colori, e i colori come linee musicali che si ricombinano in sempre nuove varianti dello stesso sogno. Il cristallo non scalfibile, testimonianza di pogrom elevati a simbolo di ogni umana alienazione. è quel Naturlaut dell'oboe che apre “Der Abschied". Conosciamo già un simile “gruppetto” con la sua relativa risoluzione: è quel versetto musicale della Törah che apre “Wenn mein Schatz Hoehzeit macht”, stele di ogni esclusione, oracolo che parla con le foglie degli alberi e il volo degli uccelli, e richiama i devoti a quello stesso cammino dal quale credevano di essersi allontanati.
“Das Trinklied vom Iammer der Erde". “Il brindisi del dolore della terra”, fissa da subito una dismorfia percettiva che rende questa “sinfonia di Lieder” quasi una ritrattazione dei Wunderhorn. L'esultanza nasce dalla concitazione con cui gli invitati al festino erigono schermi al metodico lavoro di erosione del tempo che i “mordenti” dei legni, l'assolo ossessivo del Fiddler e il richiamo del corno sotto un cielo di piombo perpetrano con sinistro cigolio. Non c'è festa, ma la macabra illusione che fa scambiare per vitalità l'energia dissolutiva, indifferenziata, dell'agire umano. Questo Lied ha una radice metafisica, e paga il suo riposare sul logos, la falsa sicurezza della civiltà umana, con l'impossibile sottrarsi alla discesa di ogni cosa verso il nulla. Alla fine, le urla della scimmia, tra le tombe, divengono immagine di un'umana presunzione di senso che non osa andare alla radice della propria follia. Lo scivolamento tra loro dei due piani percettivi - la sfavillante sala dei banchetti, con il suo frenetico slancio in avanti, e il plumbeo, stigio mormorio dei legni dal malevolo sarcasmo, come anime guardiane contro chi valica il limite - porta alla curiosa sensazione di sentirsi osservati da creature nel buio, che ci conoscono, ma noi non sappiamo chi siano. Nessun abbraccio panico, nessun respiro nella natura liberata. Il Lied è bipolare, e non può muoversi fuori dalle sue due prospettive entrambe irridenti. Il ritorno del verso “Dunkel ist das Leben, ist der Tod!”, “Oscura è la vita, c la morte!”, refrain nella forma del Wiegenlied, da Mahler prediletta, esprime questa natura satanica dell'esistere. Vuotare i bicchieri, suonare il liuto. è un rituale di fantasmi cui basterebbe indicare la scimmia, là fuori, sotto la luna, per veder andare in pezzi il loro salone delle feste. Questa illusione di vita, è la nostra natura di uomini.
La materia musicale del secondo Lied, “Der Einsame im Herbst”, “Il solitario in autunno”, è il tempo stesso. Sul movimento regolare di crome fiorisce un tema pastorale dell'oboe che il rintocco accordale dei corni in “sfp” fa sembrare scandito da un naobo, uno strumento a percussione cinese dal rintocco lento e lungamente risonante. La figura delle crome si sposta su una zona mediana del cielo, a suggerire la bruma, mentre Mahler ricorre nei bassi ad un lento movimento di “terzine”, evocazione di una figura che prima camminava davanti a noi, e poi si è dissolta. Questa campitura pittorica del testo musicale gioca sul senso di indefinito, di instabile, che attraversa l'intero brano, rinchiuso dentro un falso movimento dove pochi passi danno la sensazione di distanze oceaniche. Infine, su “Sonne der Liebe”, “sole dell'amore”, la luce sfolgora abbattendo le grisaglie nebbiose. E scopriamo che quell'irradiarsi era sempre stato lì, a noi ignoto solo perché guardavamo in basso. Dopo l'estasi ottenuta per ultimo guizzo del morente spirito vitale, la solita scala pentatonica tra archi divisi e, per moto contrario, legni, riporta il tempo al tapis roulant di crome in ossessivo moto dell'incipit. Ogni orizzonte aperto ai riflessi del mondo era un breve spiraglio dentro questo minuscolo ticchettio di automi.
“Von der Jugend”, “Della giovinezza", è un trattato sugli specchi. È Lao-Tze che sogna di essere una farfalla, mentre la farfalla sogna di essere Lao-Tze. Le stille d'acqua che trattengono per sempre, come riflesso, la serena festa degli affetti, confidenza nel corpo che sboccia alla vita, sono imperiture proprio perché impossibili da fissare. Il tema di danza, ispirato ad una semplice aria di corteggiamento, a un certo punto scivola in una zona oscura dove tutto si rivela il riflesso di qualcosa ormai scomparso. Nelle mani del tempo, la consunzione di corpi e ricchezze appare come un reticolo di rughe scavate profondamente nella carne; invisibili, finché dura il sole. La forma “ad arco” del Lied crea una strategia di dissolvenza, quasi fosse metafora dei due mondi che si riflettono l'uno nell'altro. senza che si possa definire in quale di essi si nasconda il principio di realtà. "Come una mezzaluna appare il ponte, l'arco è rovesciato": la scena conviviale tra amici trattenuti per sempre nella serena intimità quotidiana genera quell'attimo sospeso, quel tempo ciclico che rende la musica un presentimento di mortalità. I veri protagonisti del Lied sono non già quei giovani ben vestiti che  bevono, chiacchierano, “alcuni scrivono versi”, ma le loro larve riflesse nell'altrove del “piccolo stagno”, cosi prossimo, familiare, e per questo soglia segreta di universi paralleli. Nel Canto della Terra Mahler sperimenta l'arte del “minimo passaggio”, la visione di scorcio che irradia di luce ultraterrena le piccole cose, rendendole un'epica del vissuto. Nietzsche è, ormai, lontanissimo, e al suo posto si profila - ospite segreto in tutta l'opera di Mahler, e da noi già più volte evocato - il Freud di Das Unheimliche, “Il perturbante”, dove si teorizza un'arte capace di far emergere “ciò che doveva rimanere nascosto”, portare alla luce l'inquietante mistero dei confini tra i mondi di psiche e epos. I silenzi, i frammenti di scale, le cineserie da padiglione di EXPO del Canto della Terra sono un'intenzionale riduzione al “grado zero” dell'invenzione. Ridurre la complessità, se si vuole renderne “perturbante” il fantasma. E tra due anni Mahler chiederà a Freud salvezza, nella sua dissociativa relazione con Alma.
In “Von der Schönheit”, “Della Bellezza”, l'incipit imita l'accordare lentamente un liuto. Per il compositore di questo strano Lied che risuona, inizialmente, come uno strumento meccanico, la bellezza è la funzione di un tempo sospeso, fatto di attimi che possono venire sfilati l'uno dall'altro. La gioia, invece, ricordate? era il tempo ciclico, “ad arco”, di "Von der Jugend". mentre il tempo come dannazione alle consequenziali derive dell'essere pervade “Das Trinklied vom Jammer der Erde”. Il Canto della Terra è un portolano per i viaggiatori nel tempo. La dissociazione tra i tempi della narrazione e quelli della musica rendono “Von der Schönheit" un Lied straniante. La voce si appoggia prima ai legni, poi agli archi, richiamandoli ad un ascolto che colora di effimero la rivelazione estetica di cui si vuol fare latrice. Al passaggio “Ruhiger”, “Più calmo", iviolini primi iniziano un “moto perpetuo” che sa di ghironda a manovella. Il canto non modifica la propria curvatura, evocando il sole e il tranquillo perdersi di ogni splendore nei suoi riflessi radianti. La catastrofe avviene con l'arrivo dei solari ragazzi che irrompono in questo tempo divenuto spazio della bellezza sovraumana, l'unica capace di non incutere terrore. I cavalli che incitano si fanno divinità olimpie, simboli della fecondità. Il lungo sguardo della più bella “delle vergini" accompagna l'allontanarsi del magnifico cavaliere sul suo destriero dalle froge fumanti. L'orchestra sfuma il “moto perpetuo” riducendolo a un inciso ripetuto, come la ghironda avesse il disco che si inceppa. La profanazione della bellezza solare avviene nel segno dell'umana debolezza. Lo sguardo di rammarico della ragazza verso colui che ne ha svegliato i sensi solo per poi, subito, andarsene, fa svanire l'incantesimo di quell'“orologio a rote", movimento del tempo al di fuori delle passioni, che attraversa la prima parte del Lied. Mahler parla di illusioni che sono l'unica verità, quella resa gioco di tensioni ed equilibri perennemente ricostruiti nella sua tecnica operativa di compositore.
“Der Trunkene im Frühling”, “L'ubriaco in primavera”, gioca su una variante sghemba dell'incipit del primo Lied. Il canto entra nella scena sonora assecondandone, per non cadere, la curvatura deforme. Questo ubriaco in primavera è il Fahrende Geselle tornato dai suoi pellegrinaggi solo per scoprire che i Naturlauten erano voci interiori, emanazioni del suo Io. Le torsioni continue del tempo, il cadenzare quando la frase non si è ancora sviluppata, l'estensione della linea vocale per salti e continui passaggi: tutto contrasta con la piacevole ingenuità di un tema, che, se lo “stendessimo in bella copia”, farebbe invidia ad Hans und Grethe. L'interludio dell'uccello canoro, al centro del Lied, risale allo Schumann delle Waldszenen op. 82: “Vogel als Prophet”, “L'uccello profeta”. Nel Sigfrido, Wagner elabora il “Mormorio della foresta” su di una variante dello stesso inciso. Non si tratta di citazioni. ma di voci fantasma. Gli uccelli, nelle leggende del Taoismo, sono le anime dei morti che tornano a guidare i passi dei loro cari nei momenti di pericolo. Il Fiddler, rendendo languido richiamo d'amore ciò che prima era voce dai deserti interiori, ci lascia intendere che nell'uccello parli l'anima di una donna amatissima e precocemente scomparsa, il cui culto e reso rituale dall'alcolismo denegatorio la realtà cui soggiace il protagonista. Ecco perché, dopo l'idillio rivissuto in un teatrino mentale, il ritorno alla primavera sfolgorante dà vita, nel Finale, ad un impeto di rabbia e di rancore. La caotica scrittura di figure irregolari, fino a undici note portate a cozzare contro dieci, all'ascolto lascia sorpresi per la sua quadratura ritmica. È uno dei misteri di Mahler. In molti casi, più l'esecuzione è scrupolosa al dettaglio, meno l'effetto, durante l'esecuzione, coincide con l'immagine sonora che si è avuta della musica alla lettura. È il simbolo dei simboli, la chiave segreta: così ci appare il mondo, per illusione d'ordine, se nessuna creatura dalla soglia giunga a svelarcene l'impostura.
“Der Abschied”, “L'addio”, interrompe il carattere “autoriale” delle poesie. Infine, in questo congedo esteso sulla struttura fino a farla implodere, Mahler prende la versione tedesca di due diverse poesie, di Mong-Kao-Jen e Wang-Wei, che Betghe nella sua antologia ha strutturato come un'epica del commiato virile tra guerrieri, e su questa base lavora per trasposizioni, omissioni eaggiunte, certune tratte da sue poesie di ventenne. Da “Still ist mein Herz, und harret seine Stunde”, “muto silenzio è il mio cuore, e aspetta la sua ora”, tutto il testo è di Mahler. Sua anche la frase “Ich wandle nach der Heimat, meiner Statte”, “vago incontro alla patria, il posto che ò mio”. Dopo “Der Trunkene im Frühling" nessuno avrà più dubbi su quale. questa Heimat - parola connotata, in Tedesco, da risonanze di accoglimento parentale e conforto di anime - possa maiessere. Eppure. una lettura in chiave autobiografica sarebbe sviante. Il compositore racconta, qui, il meriggio di una vita compiuta, quella vita dalla quale, secondo Nietzsche, bisognerebbe uscire benedicendola. La luce crepuscolare vibra di raggi a frequenza bassa, irradiata dal passaggio dentro un intero arco di umane esperienze. Mahler non vuole affatto morire; anzi, si augura di giungere al momento dell'“Abschied” così carico di vissuti da vederne le tracce nel cielo che i  suoi occhi crepuscolari attraverseranno. Betghe e il compositore lavorano sulla sapienza orientale seguendo l'esempio di Schopenhauer, che ne fa una religione laica dell'infinito, affratellato dalla “compassione”, la “Einfühlung”, parola tedesca che connota il “sentire dentro”, percepire coi sensi del pianeta vivente. Nel Taoismo non esiste una drammaturgia dell'Io. ma solo delle cose minime che l'Io sfiora: petali. foglie del te, pantofole di seta lavorate da mani minuscole.... Nel culmine della crisi coniugale con Alma, quando Mahler lascerà vicino al letto della sua amata i biglietti degli amorosi mantra, accanto a proclami infuocati troviamo un “respiro della mia vita, ho baciato mille volte le tue pantofoline” che sarebbe feticistico, non piovesse diritto dalla mistica del Taoismo. Il rilievo è importante. L'estate del 1908, lavorando al Canto della Terra, Mahlersi impone la rinuncia all'amore di Alma. È il congedo dal mondo di prima. Al momento della crisi, poi, avrà un tracollo catastrofico proprio per l'intensità della libido ingorgata per puro intelletto nelle regioni del simbolismo più etereo. Il Canto della terra è un breviario per la trascendenza dai sentimenti, come dimostra la scrittura dissipativa, tentacolare, della sua orchestra, cosi facile da distruggere con un minimo accentuare un attacco, dare enfasi ad un climax.
Nella struttura di “Der Abschied” è evidente un bitematismo di Forma-Sonata innestato su una  Forma strofica. La vicenda temporale, prima che musicale, viene inscritta dentro una narrazione in prima persona svolta nelle convenzioni dello Sprechgesang, la versione tedesca del “recitar cantando” monteverdiano. I mondi dell'esperienza e dell'evocazione onirica non potrebbero venire permeati in modo più sottile. Il reale che, con le forbici di Atropo, spezza il filo della vita, e il lunghissimo perdurare, nella mente che immagina scenari di fuga, dei pochi istanti residui, intera epica di immortalità, permettono a Mahler un Contrappunto ancora diverso da quello  delle sinfonie centrali. Qui, il Contrappunto è il tempo sospeso, l'estinzione di ogni continuità risolutiva. Come il Wagner del Parsifal, Mahler crea un epilogo alla sinfonia di Lieder dall'estensione sbilanciata, inappropriata, per evitare ogni consequenzialità drammaturgica. Questo  Contrappunto fa si che nessuna prospettiva suggerisca l'idea del viaggio. L'itinerarium mentis in  Deum avviene quando il protagonista è già morto. L`amico in visita di saluto è un altro di quegli uccelli che, nel mondo dei vivi, ospitano l'anima dei trapassati. La musica è regressiva, parla di  cose che sono avvenute eoni fa, e che ora racconta il vento, protagonista del movimento interno, insieme al ruscello. Il tema del vento si sviluppa in quello degli orizzonti lontani, il tema del  ruscello nell'esplosione della Sensucht, l'impossibile compimento dell'agognata meta. Al centro di questo globo che, se aperto, rivela due paesaggi terreni avvolti in una nebula stagnante, sorta  di cippo funerario inciso a caratteri runici dove si narra la vicenda del Geselle ora diventato una farfalla, c'è un episodio strumentale tutto giocato sulla sincope ritmica iniziale del primo Lied. È la sezione di Sviluppo della Forma-Sonata raggricciata sulla pietra come un reperto fossile, ma è anche l'immagine del Demiurgo, il suo occhio circolare che tutto osserva, il suo respiro mortifero, perché pulsa in extra-sistole. È il terzo strato del globo, la sua polpa profonda e corrotta. Nelle  ultime composizioni, Mahler utilizza lo Sviluppo per liberarsi della logica strutturale mediante la sua esasperazione. Alla fine di questo ritratto musicale della “forza operosa che tutto affatica”, la narrazione epica riprende in un clima di attesa senza tempo. Dallo Sprechgesang si passa ad un  Recitativo “accompagnato” modellato sulle Passioni di Bach, la Johannes in particolare. Il momento più geniale, una svolta che renderà la musica, da allora, qualcosa di assai diverso,  avviene sulla Ripresa, a “Sehr mäßig”, “Molto moderato”. L'intuizione è sconcertante: Mahler  recupera il gioco di “terzine” su cui Beethoven ha costruito la “Marcia funebre” dell'“Eroica” invertendolo di segno; laddove, nella Terza beethoveniana, era il tempo della Storia, qui, nelle sue asimmetriche valenze, indica l'estinzione progressiva di ogni pulsazione ritmica. L'episodio  inizia con la redenzione della extra-sistole demiurgica, e procede con quella esattezza di scrittura che, lo abbiamo visto, serve a Mahler per far implodere dall'interno ogni ordine. Il climax, sulle parole “Die liebe Erde allüberall blüht”, “la cara terra ovunque fiorisce”, è raggiunto inserendo in questo mostruoso meccanismo della sublimità apocalittica il salto di “quarta” del primo Lied, qui  sviluppato non più in quanto immagine di una forza oscura esterna. ma di un'energia salvifica che traiamo dal male. Perché yin e yang sono le due metà di ogni creatura, e nella loro polarità si estingue ogni etica. Il finale di “Der Abschied” libera per sempre la musica dal concetto romantico di bene in quanto bello. Ora, essa resta un luogo dove gli eventi ramificano figure che possono essere magnifiche, per quanto sono mostruose, o aeree, ireniche, perchè sfuggite al logos dei loro autistici creatori. Stravinskij assiste al concerto che Mahler diresse a Pietroburgo nell'ottobre del 1907. Fu molto colpito non tanto dal direttore, ma dalla sua personalità artistica. Se c'è una partitura che, per un gioco di paradossali straniamenti, giochi estetici di specchi in un linguaggio già redento dall'ansia di coinvolgere, non è pensabile senza il Canto della terra, quella è Petruška.
Alessandro Zignani
(note al programma di sala: Sabbioneta, 21 settembre 2024)