Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
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domenica, dicembre 01, 2024

Giovanni Salviucci

Naxos 8.574049 (p) 2019
Giovanni Salviucci (1907–1937)
- Serenata per 9 strumenti
- Salmo di David
- Quartetto per archi in do maggiore
- Pezzi per violino e pianoforte
- Pensiero nostalgico
- Sinfonia da camera per 17 strumenti

Nel periodo fra le due guerre, tre compositori italiani furono unanimemente riconosciuti dalla critica come i più dotati: Luigi Dallapiccola e Goffredo Petrassi, entrambi nati nel 1904, e Giovanni Salviucci, nato a Roma nel 1907. La sorte riservò loro un ruolo scomodissimo: divenire adulti e protagonisti della nuova musica italiana proprio quando le idee di “nuovo” e di “avanguardia” venivano ipotecate dalla dittatura fascista, per cui era impossibile affermarsi stabilmente sulla scena musicale senza godere dell’appoggio del regime.
Dallapiccola e Petrassi ebbero modo di superare e “rielaborare” nella loro maturità i drammatici anni della dittatura e della guerra, imponendosi come figure eminenti del Novecento italiano. Questa opportunità fu negata a Giovanni Salviucci che nel 1937, neppure trentenne, fu stroncato da una meningite tubercolare. Sebbene agli occhi dei tradizionalisti il suo uso della tonalità e del contrappunto apparisse fin troppo modernista, Salviucci non poteva certo definirsi un compositore d’avanguardia. La sua scomparsa lo condannò, quindi, allo stesso destino dei numerosi compositori che nel secondo dopoguerra scomparvero per lunghi anni dalla memoria. Si trattava di quegli autori, in genere progressisti, ma rimasti legati alla tonalità, i quali, dopo la persecuzione da parte del regime per ragioni razziali, politiche o estetiche, furono archiviati frettolosamente dalla successiva narrazione, interessata quasi esclusivamente agli sviluppi e alle implicazioni dell’atonalismo e della serialità.
La famiglia Salviucci non aveva tradizioni musicali, ma era fortemente legata agli ambienti clericali della capitale. Fu così che il piccolo Giovanni studiò musica privatamente con Ernesto Boezi, direttore della Cappella Giulia in San Pietro e grande studioso di Palestrina, che gli trasmise un’eccezionale padronanza e sensibilità contrappuntistica, rimasta poi la sua cifra stilistica distintiva. Fu un periodo di formazione che, inizialmente, tenne il giovane Salviucci distante dai rivolgimenti musicali del nuovo secolo. Conseguito il diploma di composizione nel 1931, Salviucci si iscrisse al corso di perfezionamento tenuto da Respighi all’Accademia di Santa Cecilia. Altrettanto decisivo fu però l’incontro con Iditta Parpagliolo, anch’essa compositrice e allieva di Respighi, che divenne poi sua moglie e lo introdusse nell’ambiente della nuova musica, facendogli conoscere, fra gli altri, Alfredo Casella e Goffredo Petrassi.
La carriera di Salviucci decolla a partire dal 1932, con alcune pagine orchestrali accolte in Italia e all’estero da un successo crescente* , al cui vertice si può collocare forse Introduzione, Passacaglia e Finale (1934). La scomparsa improvvisa gli impedì purtroppo di ascoltare le sue ultime due composizioni, considerate da critici quali fedele D’Amico e altri, i suoi capolavori: Alcesti. Episodio per coro e orchestra e Serenata per 9 strumenti. Alla sua morte, Salviucci lasciò anche tre figli, fra cui una bimba di nove mesi, Giovanna che, col nome di Giovanna Marini è oggi famosa in Italia e all’estero come folksinger e compositrice, e grazie alla quale è stato possibile realizzare queste registrazioni.
Questo disco raccoglie tutte le pagine cameristiche pubblicate da Salviucci a partire dal 1930, più un sorprendente Quartetto per archi, composto nel 1932 e rimasto inedito. In buona parte si tratta di prime registrazioni discografiche.
I Pezzi per violino e pianoforte, pubblicati nel 1930, appartengono ancora al periodo giovanile del compositore. Sono sei brevi pagine di destinazione liturgica nelle quali la religiosità cattolico-romana dell’ambiente famigliare e il severo insegnamento di Ernesto Boezi, si coniugano in una scrittura sobria ed espressivamente misurata, ma padrona di un contrappunto che già sgorga con suadente naturalezza. Il clima è prevalentemente elegiaco, con significativi momenti di tenerezza e di abbandono melodico (n. 2 Elegia; n. 3 Preghiera; n. 5 Meditatione), nei quali sembra già di intravedere il tratto distintivo di Salviucci precocemente intuito da Gianfrancesco Malipiero e sottolineato poi da Fedele D’Amico: una nativa attitudine espressiva, tenuta a freno inizialmente da una disciplina contrappuntistica e formale che, via via, si trasforma e, da freno, si emancipa in potente veicolo di quell’innata vocazione espressiva.
Dal medesimo clima emotivo dei sei Pezzi scaturisce anche Pensiero nostalgico. Adagio per violoncello (o violino) e pianoforte, pubblicato nel 1931: un breve Charakterstück dagli echi tardo ottocenteschi, animato da una generosa e vibrante melodia.
Procedendo cronologicamente, si arriva all’anno cruciale, il 1932 nel quale viene alla luce il Quartetto per archi in Do maggiore: composizione enigmatica in quanto la sua ricchezza e la sua forza lasciano senza risposta l’interrogativo del perché non sia mai stato pubblicato. L’Allegro moderato di apertura, così come il terzo e ultimo movimento, Allegro vivace, sfoderano uno slancio ritmico che risente indubbiamente di quell’andatura martellante tanto enfatizzata nella produzione musicale italiana del ventennio fascista. Ma Salviucci se ne appropria in modo personalissimo, con quel suo contrappunto che si sottrae a ogni stereotipo e si piega ad articolazioni estremamente mobili e ricche di suggestioni imprevedibili. A volte, negli unisoni potenti o in certe timbriche acute del violino, traspare qualche traccia di Respighi, estranea però a qualsiasi suggestione di arcaismo, a conferma di come il tirocinio palestriniano si fosse totalmente emancipato in liberissimo strumento creativo. Il cuore del quartetto è l’Adagio molto, pagina di straordinaria carica emotiva, aperta da una luminosa infiorescenza contrappuntistica il cui respiro la distacca dalla coeva produzione quartettistica dei connazionali. In un appassionato susseguirsi di densità cromatiche, accensioni brucianti, abbandoni estatici, questo Adagio si impone come un autentico gioiello della musica italiana di quegli anni.
Nella produzione giovanile di Salviucci i brani di ispirazione religiosa o liturgica, non solo vocali, come si è visto, hanno una parte rilevante. Il congedo da questo genere di musica è una pagina del 1933, il Salmo di David per canto e pianoforte, trascritto anche in versione per voce e orchestra da camera. La scrittura è di estremo interesse, poiché il suggestivo involucro modale e arcaicizzante racchiude una chiara polarizzazione melodico-armonica attorno alle note Mib, Fa#, La, Do. È un tratto che rivela qualche familiarità con certe esperienze europee di quegli anni, incentrate sull’organizzazione ottatonica (ad es. Ravel) e che forse risente del vivace dibattito sul linguaggio musicale che proprio in quel periodo si era sviluppato anche in Italia.
Sinfonia da camera per 17 strumenti (1933) e Serenata per 9 strumenti (1937) sono certamente fra le pagine più riuscite del compositore. Per architettura e stilemi si possono entrambe ricondurre all’orizzonte del neoclassicismo, ma la personalità e la fantasia di Salviucci evitano i luoghi comuni di genere o di tendenza, con uno stile che ha qualcosa di narrativo nel susseguirsi sapiente di idee e di contrasti spiazzanti. In entrambi i casi, l’organico intermedio fra camera e orchestra consente al compositore di sviluppare pienamente la dialettica, o competizione se si vuole, fra i due poli della sua ispirazione; la passione per l’intreccio polifonico da un lato e la vocazione melodica dall’altro. Sinfonia da Camera, creata a Roma nel 1934, sotto la direzione di Casella, si articola in quattro movimenti ed è scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba, corno, 6 violini, 2 viole, 2 violoncelli e contrabbasso. Già nel brano di apertura, Allegro, memore forse del Concerto per archi op. 40 di Casella, certa pulsazione omoritmica neobarocca, tipica del compositore torinese, si ramifica in una trama ritmica e coloristica assai più agile e raffinata, ricca di episodi solistici e, soprattutto, di una luminosità che pervade l’intera composizione, dalla tenera eufonia dell’Adagio, alla vivacità dialogante dei legni nell’Allegretto vivace, fino all’elettrizzante contrappunto ritmico dell’Allegro conclusivo.
Serenata, scritta per flauto, oboe, clarinetto, fagotto, tromba e quartetto d’archi, è dedicata al direttore d’orchestra Nino Sanzogno. Rispetto alla serenità di Sinfonia, qui, l’intreccio dei contrappunti, i cromatismi, le entrate motiviche a sorpresa disegnano un tessuto più audace e inquieto. È l’ultimo Salviucci. I contemporanei che ascoltarono la prima esecuzione, diretta dallo stesso Sanzogno, al Festival di Venezia l’8 settembre 1937, quattro giorni dopo la morte del compositore, furono concordi nel percepire la sovrana originalità raggiunta dal compositore. Una sorta, per così dire, di “nuovo Malipiero”, irriducibile a qualsiasi etichetta, proiettato verso un futuro che purtroppo non ci fu. I movimenti sono tre. L’Allegro molto ha qualcosa di febbrile (D’Amico), dominato da una scrittura contrappuntistica torrenziale e costellato da contrasti improvvisi. Nel secondo movimento, Canzone (Andantino), intessuto delle sognanti filigrane solistiche di oboe, violino, fagotto, violoncello, ritroviamo la magia del Salviucci più lirico. L’Allegro conclusivo suona come il paradigma anticonformista di un contrappunto divenuto sismografo della sensibilità individuale, libero di aggirarsi disinvoltamente fra tonalità e cromatismi, ora ritmicamente scalpitante, ora teneramente cantabile.
Non sapremo mai quanto l’italianissimo Salviucci conoscesse della musica europea del proprio tempo, ma nell’aria che qui si respira ci sono aromi che vengono sicuramente da oltralpe.
Giordano Montecchi
* Tutti i lavori orchestrali di Salviucci furono eseguiti per la prima volta al Teatro Augusteo di Roma, che fu demolito nel 1936 per ordine di Mussolini.