(...)
Ancora una volta guardai nello specchio. Ero stato pazzo. Non c'era il lupo nell'alto cristallo e non agitava la lingua nelle fauci. Nello specchio c'ero io, Harry, col viso grigio, abbandonato da tutti i giuochi, stanco di tutti i vizi, orribilmente pallido ma ancora uomo, ancora uno con cui si poteva parlare.
«Harry», domandai « che fai costì? »
«Harry», domandai « che fai costì? »
«Niente», rispose quello dello specchio «aspetto. Aspetto la morte.»
«E dov'è la morte?» chiesi.
«E dov'è la morte?» chiesi.
«Sta arrivando» replicò l'altro. E dal vuoto del teatro udii sonare una musica, una musica bella e terribile, la musica del Don Giovanni che accompagna la comparsa del convitato di pietra. Le note gelide squillavano paurosamente nell'ambiente spettrale come venissero dall'al di là, dagl'immortali.
"Mozart!" pensai evocando le visioni piú care e piú elevate della mia vita interiore.
In quella scoppiò dietro a me una risata, una risata limpida e gelida, da un mondo di dolori sofferti, un mondo inaudito, sorto dall'allegria degli dei. Mi voltai beato e gelato da quella risata ed ecco passare Mozart sorridendo e avvicinarsi tranquillamente alla porta di un palco, aprirla ed entrare. Per parte mia lo seguii avidamente, quel dio della mia gioventú, quella meta perpetua del mio affetto e della mia venerazione. La musica continuava. Mozart si affacciò al parapetto del palco: il teatro invisibile era avvolto in una tenebra senza limiti.
«Vede?» fece Mozart. «Si può fare anche a meno del saxofono; per quanto non vorrei aver detto male di questo magnifico strumento.»
«Vede?» fece Mozart. «Si può fare anche a meno del saxofono; per quanto non vorrei aver detto male di questo magnifico strumento.»
«Dove siamo?» domandai.
«Siamo all'ultimo atto del Don Giovanni. Leporello è già in ginocchio. Una scena splendida, e anche la musica, non faccio per dire, è discreta. Anche se contiene ancora molti lati umani, vi si sente già l'al di là, la risata... non è vero?»
«E' l'ultima musica grande che sia stata scritta» proclamai solennemente come un maestro di scuola. «Certo, ci fu poi anche Schubert, anche Hugo Wolf, e non bisogna dimenticare il povero stupendo Chopin. Maestro, lei aggrotta le fronte... Si, si, c'è stato anche Beethoven, meraviglioso anche lui. Tutto questo però, per quanto sia bello, ha del frammento, vi è qualche cosa che si dissolve: ma un'opera di getto, un'opera perfetta gli uomini non l'hanno piú fatta dopo il Don Giovanni.»
«Non si prenda tanta premura», disse Mozart ridendo con terribile ironia. «E' musicista anche lei? Vede, io ho abbandonato il mestiere, mi sono messo a riposo. Solo per divertimento vengo ogni tanto a dare un'occhiata.»
Alzò le mani come per dirigere e una luna o un altro astro pallido sorse non so dove, e oltre il parapetto guardai dentro profondità immense, dove passavano nebbie e nuvole, e montagne si profilavano sulle rive del mare e sotto di noi si estendeva una pianura infinita simile a un deserto. Su quella pianura scorgemmo un vecchio dall'aspetto venerando, con tanto di barba lunga, che guidava malinconicamente un enorme corteo di forse diecimila uomini vestiti di nero. Aveva l'aria triste e, sconsolata e Mozart disse:
«Vede? Quello là è Brahms. Va in cerca della redenzione, ma c'è ancora tempo.»
Appresi che quelle migliaia di nerovestiti erano gli esecutori delle voci e delle note che, secondo il giudizio divino, sarebbero inutili nelle sue partiture.
«Troppo spreco di materiale, strumentazione troppo pesante» fece Mozart.
E poco dopo vedemmo alla testa di un esercito ugualmente numeroso Riccardo Wagner e sentimmo come quelle migliaia lo tiravano e trascinavano; anche lui si trascinava a fatica e con rassegnazione.
«Quando ero giovane», osservati tristemente «questi due musicisti erano considerati la maggiore antitesi possibile.»
Mozart rise.
«Già, è sempre così. Vista da una certa distanza questi contrasti si appianano sempre più. La strumentazione pesante non era, del resto, un errore personale né di Wagner né di Brahms, era un errore del loro tempo».
«Davvero? E per questo devono pagare così amaramente?» dissi in tono di accusa.
«Si capisce. E' la via delle istanze. Solo quando avranno scontato la colpa del loro tempo, si vedrà se rimane ancora quel tanto di personale che meriti di essere preso in considerazione.»
«Ma di questo non hanno colpa né l'uno né l'altro!»
«Ma di questo non hanno colpa né l'uno né l'altro!»
«S'intende. Non hanno colpa neanche che Adamo abbia ingoiato la mela. eppure devono espiare.»
«Ma è spaventevole!»
«Certo, la vita è sempre spaventevole. Noi non abbiamo colpa e siamo tuttavia responsabili. Si nasce e già si è colpevoli. Se lei non lo sa, deve aver ricevuto ben magre lezioni di religione.»
Mi sentivo molto male. Vedevo me stesso, pellegrino esausto, attraversare il deserto dell'al di là carico di tutti i libri superflui che avevo scritto, di tutti gli articoli, di tutte le appendici, seguito dalla legione dei tipografi che vi avevano dovuto lavorare, dalla legione dei lettori che avevano dovuto inghiottire tutta quella roba. Dio mio! e oltre a ciò vi era anche Adamo con la mela e il peccato originale. Tutto dunque doveva essere scontato, in un purgatorio senza fine, e soltanto dopo si sarebbe visto se in fondo rimaneva qualche cosa di proprio, di personale, o se tutto il mio lavoro e le sue conseguenze erano soltanto vana schiuma sopra il mare, giuoco insensato nel fiume del divenire!
Vedendo il mio sbalordimento Mozart si mise a ridere forte. Dal ridere fece una capriola e si mise a far trii con le gambe. E m'investiva: «Ehi, giovanotto, ti brucia di sotto? sei crudo, sei cotto? Pensi ai lettori, i biondi e i mori, i divoratori? Pensi al tuo proto, ai redattori, sempre in moto, tra mille furori, aizzanti alla guerra di dentro e di fuori? Oh com'è buffa, la zuffa, baruffa, una truffa! Che ridere! da smascellarsi, da scompisciarsi! Va là, credulone, sporco d'inchiostro, ti accendo un moccolo, ti batto il groppone, per spasso, per chiasso. E il diavolo ti porti, nel regno dei morti, pei tuoi rapporti storti; contorti, plagiati ed estorti!».
Era troppo grossa. La collera m'impedì di abbandonarmi alla malinconia. Afferrai Mozart per il ciuffo, ma egli volò via mentre il ciuffo si allungava, si allungava come la coda di una cometa, a un capo della quale ero attaccato e turbinato nel mondo. Diavolo, com'era freddo quel mondo! Quei benedetti immortali resistevano a un'aria terribilmente gelata. Ma dava piacere, quell'aria gelida, me ne accorsi nei brevi istanti prima di perdere la conoscenza. Mi sentii compenetrare da una serenità amara e tagliente, gelida e ferrigna, da una voglia di ridere di un riso squillante e sovrumano come quello di Mozart. Ma in quel momento rimasi senza respiro e perdetti i sensi.
(...)
da "Il lupo della steppa" ("Der Steppenwolf") di Hermann Hesse - Arnoldo Mondadori Editore, 1979
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