Ascoltare oggi Brendel che suona Beethoven, dal vivo o in una registrazione come quella dei Concerti per pianoforte e orchestra con Simon Rattle e i Wiener Philharmoniker, è un'esperienza che fa riflettere. Il pianista ha quasi settant'anni, e sta invecchiando bene. Ha ampliato la gamma dei suoi colori, arricchendola di sfumature sottilissime, ha perso in buona parte una qualità metallica del suono della mano destra che talvolta ne limitava la risonanza, e sembra entrato in una fase di «sintesi dinamica» delle esperienze precedenti. E' dunque il momento ideale per abbozzare qualche considerazione generale sul suo approccio alla musica del maestro di Bonn.
La forza straordinaria delle interpretazioni beethoveniane di Brendel sta, prima di tutto, in ciò che non fa. Ascoltarlo dal vivo in ottobre è stata per molti versi una rivelazione sulla musica di un autore che, se da un lato sta senza discussione nell'Olimpo dei compositori, dall'altro non ha mai cessato di suscitare in chi scrive riserve e perplessità. L'esecuzione del resto, almeno in teoria, questo dovrebbe essere: un riflettore che getta luce sull'opera, la inquadra e la illumina con un taglio discutibile ma preciso e riconoscibile. Ebbene, le luci usate da Brendel sono molto più dissimili da quelle che di solito illuminano Beethoven, di quanto appaia a prima vista. L'immagine diffusa di questo compositore soffre dello stesso problema da cui è afflitta in un altro ambito, in Italia, l'immagine del Risorgimento. In entrambi i casi, l'aura mitica che ha storicamente circondato e avvolto i due fenomeni ha lasciato tracce consistenti sulla percezione delle generazioni successive, condizionandone la comprensione storica a tutto vantaggio dell'entusiasmo e della retorica. Retorica: ecco una parola chiave per capire cosa fa Brendel suonando Beethoven. La parola, in riferimento alla musica del compositore, è ancora intesa, per lo più, come se fosse scritta con la maiuscola. Nell'immaginario collettivo la musica di Beethoven paga un tributo alla magniloquenza, all'enfasi, alla seriosità. L'idea che ogni nota del maestro sia una sublime rivelazione permea moltissime esecuzioni. Ebbene, Brendel non prescinde dalla retorica, ma sembra intenderla, correttamente, in minuscolo, come arte di condurre a buon fine un discorso, incluso quel genere paradossale di discorso che è la musica occidentale. «Retorica» non è più un aggettivo, ma un sostantivo che indica un insieme complesso e differenziato di modi di dire, di tecniche usate dal compositore per farsi capire meglio, di sfumature linguistiche. E, ultima trasformazione, è come se fosse usato al plurale. Le retoriche sono varie, numerose e diverse fra loro: c'è la retorica barocca, immaginifica e ricca di pathos, quella del Classicismo, funzionale prima di tutto alla chiarezza del discorso, quella Romantica, che frammenta, ostacola e devia il corso «naturale» della frase, e cosi via. E' un vero e proprio universo che si apre, purché si cessi di pensare in termini «retorici» nel significato usuale della parola, associandola all'enfasi, alla magniloquenza e alla prolissità. E' proprio ciò che Brendel fa con Beethoven: la sensazione è quella di ascoltare la sua musica al netto di una serie di pesanti ipoteche che ne hanno a lungo ostacolato la comprensione. Questo discorso è ovviamente, a sua volta, un'interpretazione, o, nel caso migliore, una buona descrizione delle sue esecuzioni: i mezzi a disposizione di un interprete per trasmetterci la sua visione delle cose sono puramente musicali. Ecco allora che il processo di eliminazione della retorica nel senso deteriore, diventa un modo di intendere e realizzare concretamente i segni sulla partitura. I segni dinamici, per esempio. Il forte di Brendel è contenuto, non deflagra mai, e non sembra essere considerato a priori il livello dinamico in cui Beethoven si esprime al meglio, come verrebbe da credere talvolta ascoltando interpretazioni con più forza d'urto. Il crescendo non ha per forza il carattere di un movimento tellurico, gli sforzando non sono sempre violenti, e cosi via. In particolare, il ritmo non è utilizzato per creare tensione, ma come ossatura architettonica della composizione, e lo stacco dei tempi è in genere lontano da velocità virtuosistiche e trascinanti. Qual'è il vantaggio di tutto questo? La flessibilità, la duttilità dell'approccio e la ricchezza dei risultati. Vediamo di spiegarci. La rinuncia di Brendel non è soltanto all'enfasi magniloquente, ma anche a una visione radicalmente orientata della musica di Beethoven. Può essere utile fare un confronto con Maurizio Pollini, altro grande interprete del cosmo beethoveniano, che affronta in chiave del tutto diversa. Anche Pollini ha fatto piazza pulita della retorica deteriore; ma il taglio con cui inquadra Beethoven è radicalmente orientato - ed è questa la sua forza - verso il futuro, in due sensi. Da un lato, la sua musica diventa una porta spalancata sull'utopia, su un futuro che è tensione e progettualità, ma non ha una collocazione storica determinata; è il futuro come tensione permanente, come dimensione non abolibile dell'essere umano. Dall'altro, è un futuro storico, che rimanda agli esiti della musica del Novecento.
Ebbene, l'approccio di Brendel è del tutto diverso. Non c'è una singola ipotesi interpretativa che orienti l'interpretazione in senso radicale, ma un insieme di tendenze che convivono e si sovrappongono. Beethoven appare come uno straordinario crocevia di linee, un fascio di elementi tanto diversi da risultare a tratti eterogeneo - eppure musicalmente amalgamati. Rimossa la maschera schematica dell'eroismo titanico a ogni costo, dell'ottimismo militaresco e della chiassosità un po' rozza, si spalanca un universo straordinariamente composito, differenziato, pieno di sfumature. In primo luogo, la gamma espressiva di Beethoven appare molto più ampia di quanto si sospetterebbe. Il sublime e il tragico cessano di essere onnipresenti a scapito di tutto il resto, e diventano due possibilità fra le altre. Il dramma non è la categoria interpretativa soverchiante, non è il cemento che tiene insieme le parti dell'edificio. La forma dei pezzi di Beethoven perde la granitica compattezza per risultare espansa, differenziata, meno lineare. E' un territorio che conosce oasi e momenti di sosta non incalzati dal parossismo della tensione drammatica, un percorso che ammette deviazioni, una narrazione che contempla digressioni e storie secondarie, gettando luce su una linea che porterà a Brahms. Suonato così, si capisce bene perché i Romantici in genere stravedessero per Beethoven. E' un genio che mostra come si possono costruire edifici con frammenti edilizi (basterà togliere il cemento e avremo l'esplosione pulviscolare di Schumann); come usare il contrappunto barocco mutandone il senso espressivo (nessuno dei Romantici saprà fame davvero a meno); addirittura, come ricreare lo spirito profondo di un'epoca senza impiegarne i mezzi come nell'Andante con moto del Quarto Concerto, che suonato da Brendel assume la cosmica ineluttabilità di una passacaglia barocca - e così via. Un approccio del genere rimescola salutarmente le carte anche sull'abusata tripartizione della produzione beethoveniana in prima, seconda, e terza maniera. Schema che, utilissimo se preso cum granu salis, può essere il peggior nemico della comprensione se viene inteso in senso letterale. Ciò che Brendel rende percepibile è che il percorso evolutivo di Beethoven non è linearmente diacronico, ma duplice. Da un lato si va verso soluzioni inedite, inaspettate, innovative. Dall'altro, questo è possibile proprio perché il tragitto torna continuamente su se stesso, sale a spirale, ruota intorno a uno stesso asse. Le più ardite novità linguistiche di Beethoven, nelle ultime sonate, non vengono dall'aver fatto tabula rasa del passato, ma da una nuova, prodigiosa consapevolezza. Si ascolti l'interpretazione dell'op. 106, realizzata più di vent'anni fa per la Philips. E' evidente che qui più che mai Beethoven riesce a guardare e a fare emergere, in una musica nuova, il tessuto inestricabile delle proprie radici. Tecniche barocche, fraseggio classico, sensibilità presaga di una nuova temperie, convivono e si sovrappongono generando una tensione continua. Non è la tensione drammatica, creata dal conflitto degli opposti, ma la tensione dell'eterogeneo, l'«interazione forte» che tiene insieme elementi di natura diversa.
Vecchio e nuovo sono dunque polarità di un unico campo magnetico. Il singolare percorso di Beethoven, l'innovatore per eccellenza, è attraversato da ritorni, permanenze, latenze. In particolare, dall'attaccamento a un Settecento grazioso, elegante e sentimentale che egli si guarda bene dal rinnegare. Da questo punto di vista, Brendel è sorprendente. Specialmente nei concerti per piano e orchestra, mette in rilievo una sottigliezza, un ésprit de finesse, una capacità di eleganza e un senso delle sfumature che si ascrivono generalmente a Mozart, proprio per differenziarlo da Beethoven, percepito invece come virtuoso della forza d'urto e della suspense, a prezzo di qualche inevitabile caduta di bon ton. L'incisione del 1998 con Rattle mostra con chiarezza che il senso delle mezze tinte non è appannaggio di qualche sonata minore, ma è una delle armi più potenti dell'espressività di Beethoven. Un Beethoven a tratti quasi prosciugato nella baldanza fisica, a tutto vantaggio della sottigliezza e della duttilità di spirito, che si rivela sorprendentemente insinuante, allusivo, sofisticato, come nel primo movimento del terzo concerto.
L'idea stessa del «sinfonismo» beethoveniano, con tutte le tentazioni di ipertrofia e vacua pomposità, ne esce ridimensionata. I concerti per piano e orchestra mostrano così una concezione timbrica e volumetrica dell'orchestra non come armata musicale, ma come gruppo da camera allargato. Persino nel quinto la dimensione prevalente è l'intreccio, il rimando, il gioco dei pieni e dei vuoti, piuttosto che la massa della sonorità complessiva. In questo equilibrio risalta, come le vene sotto una pelle diafana, la trama dell'orchestrazione pianistica di Beethoven, in un continuo dialogo fra l'orchestra reale degli strumenti e quella illusionistica della tastiera. Altra sorpresa: non sempre Beethoven ha i piedi per terra. La tradizione esecutiva colloca la sua musica in un'area semantica associata alla virilità, alla forza, alla presenza vigile e costante, alla tensione trasformativa verso cose, e cosi via. La sonorità è di conseguenza «realistica», deve mantenere - lo si ripete spesso a scuola - una corposità e uno spessore adeguato. Non così per Brendel, che come anche Radu Lupu - si permette di assottigliarla al limite dell'udibile, di alleggerirla fino a smaterializzarla, di sospenderla in un'eterea mancanza di peso. E' un Beethoven che sa sognare quello che ci propone un altro aspetto che non dispiacerà alla generazione successiva.
Naturalmente, tutto questo non significa che a Brendel manchino delle linee-guida. La disponibilità polimorfa che abbiamo cercato di analizzare si arresta di fronte a limiti ben precisi, a presupposti e scelte che in parte affondano nel temperamento e in parte sono frutto di consapevole elaborazione.
La linea di frontiera è il Dionisiaco. La sua ricchissima navigazione si arresta di fronte alle colonne d'Ercole che delimitano l'universo geografico della struttura e della forma. Al fondo del suo modo di suonare si percepisce un'incrollabile fiducia nella saldezza della forma, non come struttura rigida ma come nesso e relazione fra il dettaglio e l'insieme. Per quanto ampio, il suo universo rimane consapevolmente al di qua della rottura dell'equilibrio, delle potenze oscure e disgregatrici che abitano il sottosuolo del discorso. La sua interpretazione della follia beethoveniana in chiave di paradosso umoristico, espressa nell'intervista su questo stesso numero di MUSICA, è del tutto coerente con questi presupposti. La civiltà musicale di Brendel è quella di un raffinato umanesimo dell'intelligenza e del gusto, intessuto di valori estetici ma anche etici - responsabilità dell'interprete verso il compositore, integrità dell'opera, coerenza del percorso personale - lontani da ogni sperimentazione iconoclasta: il paradosso di questo musicista è che può cambiare radicalmente la nostra percezione di Beethoven, senza mai aver preteso di rivoluzionarla.
di Emanuele Ferrari ("Musica", n.123, febbraio 2001)
La forza straordinaria delle interpretazioni beethoveniane di Brendel sta, prima di tutto, in ciò che non fa. Ascoltarlo dal vivo in ottobre è stata per molti versi una rivelazione sulla musica di un autore che, se da un lato sta senza discussione nell'Olimpo dei compositori, dall'altro non ha mai cessato di suscitare in chi scrive riserve e perplessità. L'esecuzione del resto, almeno in teoria, questo dovrebbe essere: un riflettore che getta luce sull'opera, la inquadra e la illumina con un taglio discutibile ma preciso e riconoscibile. Ebbene, le luci usate da Brendel sono molto più dissimili da quelle che di solito illuminano Beethoven, di quanto appaia a prima vista. L'immagine diffusa di questo compositore soffre dello stesso problema da cui è afflitta in un altro ambito, in Italia, l'immagine del Risorgimento. In entrambi i casi, l'aura mitica che ha storicamente circondato e avvolto i due fenomeni ha lasciato tracce consistenti sulla percezione delle generazioni successive, condizionandone la comprensione storica a tutto vantaggio dell'entusiasmo e della retorica. Retorica: ecco una parola chiave per capire cosa fa Brendel suonando Beethoven. La parola, in riferimento alla musica del compositore, è ancora intesa, per lo più, come se fosse scritta con la maiuscola. Nell'immaginario collettivo la musica di Beethoven paga un tributo alla magniloquenza, all'enfasi, alla seriosità. L'idea che ogni nota del maestro sia una sublime rivelazione permea moltissime esecuzioni. Ebbene, Brendel non prescinde dalla retorica, ma sembra intenderla, correttamente, in minuscolo, come arte di condurre a buon fine un discorso, incluso quel genere paradossale di discorso che è la musica occidentale. «Retorica» non è più un aggettivo, ma un sostantivo che indica un insieme complesso e differenziato di modi di dire, di tecniche usate dal compositore per farsi capire meglio, di sfumature linguistiche. E, ultima trasformazione, è come se fosse usato al plurale. Le retoriche sono varie, numerose e diverse fra loro: c'è la retorica barocca, immaginifica e ricca di pathos, quella del Classicismo, funzionale prima di tutto alla chiarezza del discorso, quella Romantica, che frammenta, ostacola e devia il corso «naturale» della frase, e cosi via. E' un vero e proprio universo che si apre, purché si cessi di pensare in termini «retorici» nel significato usuale della parola, associandola all'enfasi, alla magniloquenza e alla prolissità. E' proprio ciò che Brendel fa con Beethoven: la sensazione è quella di ascoltare la sua musica al netto di una serie di pesanti ipoteche che ne hanno a lungo ostacolato la comprensione. Questo discorso è ovviamente, a sua volta, un'interpretazione, o, nel caso migliore, una buona descrizione delle sue esecuzioni: i mezzi a disposizione di un interprete per trasmetterci la sua visione delle cose sono puramente musicali. Ecco allora che il processo di eliminazione della retorica nel senso deteriore, diventa un modo di intendere e realizzare concretamente i segni sulla partitura. I segni dinamici, per esempio. Il forte di Brendel è contenuto, non deflagra mai, e non sembra essere considerato a priori il livello dinamico in cui Beethoven si esprime al meglio, come verrebbe da credere talvolta ascoltando interpretazioni con più forza d'urto. Il crescendo non ha per forza il carattere di un movimento tellurico, gli sforzando non sono sempre violenti, e cosi via. In particolare, il ritmo non è utilizzato per creare tensione, ma come ossatura architettonica della composizione, e lo stacco dei tempi è in genere lontano da velocità virtuosistiche e trascinanti. Qual'è il vantaggio di tutto questo? La flessibilità, la duttilità dell'approccio e la ricchezza dei risultati. Vediamo di spiegarci. La rinuncia di Brendel non è soltanto all'enfasi magniloquente, ma anche a una visione radicalmente orientata della musica di Beethoven. Può essere utile fare un confronto con Maurizio Pollini, altro grande interprete del cosmo beethoveniano, che affronta in chiave del tutto diversa. Anche Pollini ha fatto piazza pulita della retorica deteriore; ma il taglio con cui inquadra Beethoven è radicalmente orientato - ed è questa la sua forza - verso il futuro, in due sensi. Da un lato, la sua musica diventa una porta spalancata sull'utopia, su un futuro che è tensione e progettualità, ma non ha una collocazione storica determinata; è il futuro come tensione permanente, come dimensione non abolibile dell'essere umano. Dall'altro, è un futuro storico, che rimanda agli esiti della musica del Novecento.
Ebbene, l'approccio di Brendel è del tutto diverso. Non c'è una singola ipotesi interpretativa che orienti l'interpretazione in senso radicale, ma un insieme di tendenze che convivono e si sovrappongono. Beethoven appare come uno straordinario crocevia di linee, un fascio di elementi tanto diversi da risultare a tratti eterogeneo - eppure musicalmente amalgamati. Rimossa la maschera schematica dell'eroismo titanico a ogni costo, dell'ottimismo militaresco e della chiassosità un po' rozza, si spalanca un universo straordinariamente composito, differenziato, pieno di sfumature. In primo luogo, la gamma espressiva di Beethoven appare molto più ampia di quanto si sospetterebbe. Il sublime e il tragico cessano di essere onnipresenti a scapito di tutto il resto, e diventano due possibilità fra le altre. Il dramma non è la categoria interpretativa soverchiante, non è il cemento che tiene insieme le parti dell'edificio. La forma dei pezzi di Beethoven perde la granitica compattezza per risultare espansa, differenziata, meno lineare. E' un territorio che conosce oasi e momenti di sosta non incalzati dal parossismo della tensione drammatica, un percorso che ammette deviazioni, una narrazione che contempla digressioni e storie secondarie, gettando luce su una linea che porterà a Brahms. Suonato così, si capisce bene perché i Romantici in genere stravedessero per Beethoven. E' un genio che mostra come si possono costruire edifici con frammenti edilizi (basterà togliere il cemento e avremo l'esplosione pulviscolare di Schumann); come usare il contrappunto barocco mutandone il senso espressivo (nessuno dei Romantici saprà fame davvero a meno); addirittura, come ricreare lo spirito profondo di un'epoca senza impiegarne i mezzi come nell'Andante con moto del Quarto Concerto, che suonato da Brendel assume la cosmica ineluttabilità di una passacaglia barocca - e così via. Un approccio del genere rimescola salutarmente le carte anche sull'abusata tripartizione della produzione beethoveniana in prima, seconda, e terza maniera. Schema che, utilissimo se preso cum granu salis, può essere il peggior nemico della comprensione se viene inteso in senso letterale. Ciò che Brendel rende percepibile è che il percorso evolutivo di Beethoven non è linearmente diacronico, ma duplice. Da un lato si va verso soluzioni inedite, inaspettate, innovative. Dall'altro, questo è possibile proprio perché il tragitto torna continuamente su se stesso, sale a spirale, ruota intorno a uno stesso asse. Le più ardite novità linguistiche di Beethoven, nelle ultime sonate, non vengono dall'aver fatto tabula rasa del passato, ma da una nuova, prodigiosa consapevolezza. Si ascolti l'interpretazione dell'op. 106, realizzata più di vent'anni fa per la Philips. E' evidente che qui più che mai Beethoven riesce a guardare e a fare emergere, in una musica nuova, il tessuto inestricabile delle proprie radici. Tecniche barocche, fraseggio classico, sensibilità presaga di una nuova temperie, convivono e si sovrappongono generando una tensione continua. Non è la tensione drammatica, creata dal conflitto degli opposti, ma la tensione dell'eterogeneo, l'«interazione forte» che tiene insieme elementi di natura diversa.
Vecchio e nuovo sono dunque polarità di un unico campo magnetico. Il singolare percorso di Beethoven, l'innovatore per eccellenza, è attraversato da ritorni, permanenze, latenze. In particolare, dall'attaccamento a un Settecento grazioso, elegante e sentimentale che egli si guarda bene dal rinnegare. Da questo punto di vista, Brendel è sorprendente. Specialmente nei concerti per piano e orchestra, mette in rilievo una sottigliezza, un ésprit de finesse, una capacità di eleganza e un senso delle sfumature che si ascrivono generalmente a Mozart, proprio per differenziarlo da Beethoven, percepito invece come virtuoso della forza d'urto e della suspense, a prezzo di qualche inevitabile caduta di bon ton. L'incisione del 1998 con Rattle mostra con chiarezza che il senso delle mezze tinte non è appannaggio di qualche sonata minore, ma è una delle armi più potenti dell'espressività di Beethoven. Un Beethoven a tratti quasi prosciugato nella baldanza fisica, a tutto vantaggio della sottigliezza e della duttilità di spirito, che si rivela sorprendentemente insinuante, allusivo, sofisticato, come nel primo movimento del terzo concerto.
L'idea stessa del «sinfonismo» beethoveniano, con tutte le tentazioni di ipertrofia e vacua pomposità, ne esce ridimensionata. I concerti per piano e orchestra mostrano così una concezione timbrica e volumetrica dell'orchestra non come armata musicale, ma come gruppo da camera allargato. Persino nel quinto la dimensione prevalente è l'intreccio, il rimando, il gioco dei pieni e dei vuoti, piuttosto che la massa della sonorità complessiva. In questo equilibrio risalta, come le vene sotto una pelle diafana, la trama dell'orchestrazione pianistica di Beethoven, in un continuo dialogo fra l'orchestra reale degli strumenti e quella illusionistica della tastiera. Altra sorpresa: non sempre Beethoven ha i piedi per terra. La tradizione esecutiva colloca la sua musica in un'area semantica associata alla virilità, alla forza, alla presenza vigile e costante, alla tensione trasformativa verso cose, e cosi via. La sonorità è di conseguenza «realistica», deve mantenere - lo si ripete spesso a scuola - una corposità e uno spessore adeguato. Non così per Brendel, che come anche Radu Lupu - si permette di assottigliarla al limite dell'udibile, di alleggerirla fino a smaterializzarla, di sospenderla in un'eterea mancanza di peso. E' un Beethoven che sa sognare quello che ci propone un altro aspetto che non dispiacerà alla generazione successiva.
Naturalmente, tutto questo non significa che a Brendel manchino delle linee-guida. La disponibilità polimorfa che abbiamo cercato di analizzare si arresta di fronte a limiti ben precisi, a presupposti e scelte che in parte affondano nel temperamento e in parte sono frutto di consapevole elaborazione.
La linea di frontiera è il Dionisiaco. La sua ricchissima navigazione si arresta di fronte alle colonne d'Ercole che delimitano l'universo geografico della struttura e della forma. Al fondo del suo modo di suonare si percepisce un'incrollabile fiducia nella saldezza della forma, non come struttura rigida ma come nesso e relazione fra il dettaglio e l'insieme. Per quanto ampio, il suo universo rimane consapevolmente al di qua della rottura dell'equilibrio, delle potenze oscure e disgregatrici che abitano il sottosuolo del discorso. La sua interpretazione della follia beethoveniana in chiave di paradosso umoristico, espressa nell'intervista su questo stesso numero di MUSICA, è del tutto coerente con questi presupposti. La civiltà musicale di Brendel è quella di un raffinato umanesimo dell'intelligenza e del gusto, intessuto di valori estetici ma anche etici - responsabilità dell'interprete verso il compositore, integrità dell'opera, coerenza del percorso personale - lontani da ogni sperimentazione iconoclasta: il paradosso di questo musicista è che può cambiare radicalmente la nostra percezione di Beethoven, senza mai aver preteso di rivoluzionarla.
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