Fra le diverse novità editoriali presentate in questo numero di Leggìo, una si fa notare per l'inconsueta qualità di essere al tempo stesso il frutto di una profonda cultura storica e musicologica e di una lunga esperienza nel campo del concertismo internazionale. A settantanove anni, Charles Rosen è riconosciuto in tutto il mondo per lo stile brillante con cui sa raccontare le vicende della inusica e dell'arte su quotidiani e periodici, e sopratrutto nelle pagine di libri che appartengono ormai alla biblioteca di ogni appassionato: molti ricorderanno Le forme-sonata (Feltrinelli 1986), Lo stile classico (idem, terza ediz. 1989) e il monumentale La generazione romantica (Adelphi 1997). Ma si potrebbe dire che il suo "primo mestiere", sia seinpre stato quello di pianista, che esercita ai massimi livelli da più di sessant'anni, e che gli ha offerto un punto di vista privilegiato sulla vita culturale e musicale, rafforzato da amicizie e collaborazioni che spaziano da Stravinsky a Carter, da Boulez ai migliori solisti e interpreti del presente e del passato. In Piano Notes, Rosen ha scelto di descrivere per la prima volta la viva esperienza di suonare il pianoforte, offrendo al lettore una brillante riflessione su tutti i principali problemi che il rapporto con lo strumento, la musica e il contatto con il pubblico pongono: la questione del suono e dello stile, i segreti della performance dal vivo, le trappole degli studi in conservatorio e dei concorsi pianistici, le tecniche di registrazione e il futuro dello strumento. Lo abbiamo raggiunto telefonicamente nella sua casa di New York per farcene raccontare un pezzetto.
In uno dei passaggi centrali del libro, Lei descrive quanto l'esperienza di suonare il pianoforte sia un fatto fisico, quasi muscolare, e l'importanza che questo ha nella composizione, nell'interpretazione e nella comunicazione.
E' stato il punto di partenza del libro. Dovevo tenere una conferenza sul tema del rapporto fra spirito e tecnica pianistica, e pensai che fosse interessante spiegare che in realtà l'influenza degli elementi della tecnica pianistica dal punto di vista "fisico" è una fonte di ispirazione musicale altrettanto importante. Anche volendo limitarsi al punto di vista della comunicazione, si potrebbe fare un parallelo con il direttore d'orchestra. Il pubblico dipende dall'osservazione del direttore d'orchestra per la comprensione della musica: forse si tratta di un terribile errore, ma nei fatti spesso è così. Il più grande pianista che abbia ascoltato quand'ero bambino, Josef Hofmann, quando suonava era praticamente immobile; Rubinstein invece era un grande maestro nel comunicare con il pubblico, e per capirlo basta osservare nei filmati i vistosi gesti che faceva nella Danza del fuoco dall'Amor brujo di De Falla.
Quali sono i riflessi di questi gesti sul suono, e che cosa si intende quando si parla del "bel suono" di un pianista?
Il principio su cui si basa il concetto di "bel suono" nel pianoforte è lo sfruttamento degli armonici degli accordi; in ogni accordo le note sono in differente rapporto con la nota fondamentale e gli altri suoni da cui essi sono composti; se si suonano tutte le note allo stesso modo quello che si ottiene è un suono decisamente monotono, ma se si tirano fuori le note che rendono un accordo vibrante, ecco allora nascere il "bel suono". Per questo sottolineo che non è il modo in cui si premono i tasti, il cosiddetto tocco, che dà la qualità del suono; non c'è differenza se premi un tasto con un dito o con una matita: il bel suono per una singola nota non esiste. Questo vuol dire che bisogna comprendere a fondo l'armonia di ogni accordo, e i pianisti più grandi sono quelli che sanno reagire all'armonia di un passaggio modificando l'intensità di una nota o di un'altra in relazione all'armonia, mettendo in evidenza le note più importanti. Suoni una melodia con espressione se sai quali sono le sue note più importanti, dove sono dispiegate le dissonanze, dove la tensione cresce o diminuisce. Fondamentalmente, avere un bel suono in parte è un fatto di tecnica, ma soprattutto è un fatto di musicalità.
Eppure lo stesso brano può essere suonato in diversi modi...
I diversi modi di suonare sono tutti legittimi, questo ho voluto affermarlo con molta chiarezza. Ci possono essere due pianisti che suonano entrambi con un "bel suono", ma il cui modo di suonare è completamente diverso. Benedetti Michelangeli e Gieseking erano entrambi grandi pianisti, ma se si ascolta una loro registrazione si capisce immediatamente quale dei due stia suonando. Sappiamo che Beethoven considerava il suono di Mozart come pianista "troppo slegato", ma non c'è motivo di ritenere che Beethoven suonasse la musica di Mozart ,"meglio" di Mozart stesso.
Quanto sono importanti, per un'interpretazione, le ricerche sugli strumenti e le prassi esecutive del passato?
Il principio su cui si basa il concetto di "bel suono" nel pianoforte è lo sfruttamento degli armonici degli accordi; in ogni accordo le note sono in differente rapporto con la nota fondamentale e gli altri suoni da cui essi sono composti; se si suonano tutte le note allo stesso modo quello che si ottiene è un suono decisamente monotono, ma se si tirano fuori le note che rendono un accordo vibrante, ecco allora nascere il "bel suono". Per questo sottolineo che non è il modo in cui si premono i tasti, il cosiddetto tocco, che dà la qualità del suono; non c'è differenza se premi un tasto con un dito o con una matita: il bel suono per una singola nota non esiste. Questo vuol dire che bisogna comprendere a fondo l'armonia di ogni accordo, e i pianisti più grandi sono quelli che sanno reagire all'armonia di un passaggio modificando l'intensità di una nota o di un'altra in relazione all'armonia, mettendo in evidenza le note più importanti. Suoni una melodia con espressione se sai quali sono le sue note più importanti, dove sono dispiegate le dissonanze, dove la tensione cresce o diminuisce. Fondamentalmente, avere un bel suono in parte è un fatto di tecnica, ma soprattutto è un fatto di musicalità.
Eppure lo stesso brano può essere suonato in diversi modi...
I diversi modi di suonare sono tutti legittimi, questo ho voluto affermarlo con molta chiarezza. Ci possono essere due pianisti che suonano entrambi con un "bel suono", ma il cui modo di suonare è completamente diverso. Benedetti Michelangeli e Gieseking erano entrambi grandi pianisti, ma se si ascolta una loro registrazione si capisce immediatamente quale dei due stia suonando. Sappiamo che Beethoven considerava il suono di Mozart come pianista "troppo slegato", ma non c'è motivo di ritenere che Beethoven suonasse la musica di Mozart ,"meglio" di Mozart stesso.
Quanto sono importanti, per un'interpretazione, le ricerche sugli strumenti e le prassi esecutive del passato?
Sappiamo che delle trentadue sonate di Beethoven solo due furono eseguite in un concerto pubblico a Vienna quando il compositore era in vita; questo vuol dire che le altre trenta furono eseguite unicamente davanti a dieci, venti persone al massimo. E' chiaro che suonare per un pubblico così ristretto è una situazione completamente diversa da quella di esibirsi in
una sala da duemila persone, e che non si potrà assolutamente farlo nello stesso modo. E' importante conoscere il passato, e in questo senso io ritengo importantissimi gli studi sulle prassi esecutive d'epoca, ma poi il problema da porsi sarà quello di riversare queste conoscenze nella situazione del concerto moderno o, in altre parole, di cercare una sorta di "approssimazione" che renda quelle informazioni utili nelle moderne condizioni d'esecuzione.
una sala da duemila persone, e che non si potrà assolutamente farlo nello stesso modo. E' importante conoscere il passato, e in questo senso io ritengo importantissimi gli studi sulle prassi esecutive d'epoca, ma poi il problema da porsi sarà quello di riversare queste conoscenze nella situazione del concerto moderno o, in altre parole, di cercare una sorta di "approssimazione" che renda quelle informazioni utili nelle moderne condizioni d'esecuzione.
Un altro punto importante del suo libro riguarda il problema dell'istruzione e del repertorio del pianista.
Gran parte degli studenti di pianoforte, nei conservatori, si concentrano su un ristretto numero di brani, quelli utili per affrontare i concorsi. Oggi, quando un allievo finisce gli studi è in grado di eseguire al massimo duo o tre programmi concertistici. Hofmann a venticinque anni diede venti recital a Mosca senza mai ripetere un brano; un amico di Odessa mi ha raccontato di aver visto una pubblicità della fine del XIX secolo in cui si parlava di 42 sonate per pianoforte eseguite da Hofmann, e che quando ha controllato la data si è accorto che il pianista aveva dodici anni. Il problema del sistema odierno è che quanto più si è giovani, tanto più è facile imparare nuove composizioni. Ci sono brani che ho imparato da piccolo, e che vorrei davvero dimenticare, ma non ci riesco: per esempio non suono la Terza sonata di Hindemith perché la trovo noiosa, ma se mi siedo al pianoforte so che potrei eseguirla tutta a memoria, anche se non lo faccio da trentacinque anni. Pochi mesi fa ho suonato a Torino la prima esecuzione di Dialogues per pianoforte e orchestra di Elliott Carter; fra due anni dovrò suonarlo di nuovo, e so che dovrò studiarlo per almeno due settimane. Ma mi bastano cinque minuti di studio per il Quarto concerto di Beethoven, che ho imparato a sedici anni.
Quale futuro prevede per il pianoforte e per la musica pianistica?
Alla fine dell'Ottocento in ogni casa della classe media, anche della piccola borghesia, c'era un pianoforte; se una donna voleva sposarsi, si supponeva che sapesse cucinare, cucire e suonare il pianoforte. Cinquant'anni fa, quasi la metà del pubblico che ascoltava un recital pianistico aveva provato a suonare qualcuno dei brani in programma, e questo naturalmente comportava un'attitudine completamente diversa nei confronti dell'interpretazione e del repertorio. Non sono capace né intendo predire il futuro: posso però dire che non credo affatto che il pianoforte sparirà; tuttavia è certo che le condizioni in cui la nostra tradizione musicale si è formata si stanno modificando in maniera profonda.
intervista di Sergio Bestente (Leggìo, ed.EDT, autunno-inverno 2008)
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