Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, agosto 23, 2009

Igor Stravinsky: "The Rakes' progress"

Cinico, stupefacente artigiano del comporre, Stravinskij propone una poetica della musica aliena da ogni partecipazione affettiva all’atto creativo. L’orchestra di Basilea ce ne offre un saggio, ordinando il primo e ultimo frutto del neoclassicismo d’autore: “Pulcinella” e “The Rake’s progress”.

In un certo senso The Rake’s progress è un’opera autobiografica, e il libertino altri non è che Stravinskij stesso, compositore allo specchio della storia e dell’uomo», scrisse Sergio Sablich a proposito dell’opera ‘mozartiana’ eseguita la prima volta alla Fenice di Venezia poco più di mezzo secolo fa. Nella metafora, una sintesi perfetta. Si può solo provare a indagarne i dettagli, come suggerisce il programma monografico dell’Orchestra da camera di Basilea che accosta la suite della Carriera del libertino - titolo del ciclo di incisioni parodistico/moralistico di William Hogarth (1733), spunto del libretto di Auden e Kalmann - al “ballet avec chant” Pulchinella (Musique d’aprés Pergolesi) del 1919-20. La proposta ha una prima, esplicita, ragion d’essere ordinando il primo e ultimo frutto del neoclassicismo d’autore: un’applicazione stilico-compositiva che ha punteggiato con regolarità trent’anni di attività del musicista nato russo ortodosso e morto statunitense cattolico (a modo suo, come sempre). Nello scomodo ruolo di compositore di successo e allo stesso tempo di riferimento colto (ma non progressista, chiosò lo storico, filosofo e critico musicale Theodor Ludwig Wiesengrund Adorno che lo contrappose a Schönberg), Stravinskij fu subito attratto dal camaleontismo. Anzi vi si riconobbe. E fece del trasformismo una pratica quotidiana (redditizia quando si dedicò a riscrivere le proprie partiture allo scopo di rinverdire i diritti d’autore) e uno stile musicale, prima che di vita. Con la medesima disinvoltura si convertì prima all’occidente dorato della capitale francese poi a quello lontano di Hollywood e delle prime major cine-discografiche; fu il più rapace allievo di Rimskij-Korsakov ma anche il più rapido compositore russo a sposare la causa artistica dello spettatore-tipo parigino, disposto a pagare qualsiasi cosa – anche a decretare un trionfale (in)successo – pur di avere una fastosa occasione di “scandalo”.
E fu altrettanto svelto nel rinunciare agli allori dei primi balletti fauve per acquisire quelli di fondatore (anche se non era vero: gli erano contro storia e date) e fecondo alfiere (sul campo: quest’è vero) del neoclassicismo musicale del 20° secolo. In realtà il neoclassicismo, reazione al soggettivismo romantico o contravveleno agli antiromanticismi estremisti dell’avanguardia, godeva di buona salute. Era praticato da molti musicisti - ma non solo - che l’avevano dotato d’un codice sintattico solido: mutuato dai (sedicenti) campioni storici della razionalità, Johann Sebastian Bach in prima fila, e da musiche che poggiavano su un’organizzazione geometrica impeccabile e uno strumentario espressivo privo di ambiguità; su forme inequivocabili e saldature armoniche a prova di serialità. Sfogliando qualsiasi storia della musica, al capitolo Neoclassicismo troveremo scritto a caratteri maiuscoli il nome di Paul Hindemith, ma la popolarità dell’idioma che prese piede nella Francia postdebussyana, con frange nelle capitali postschoenberghiane e occasionalmente anche in Italia, è indiscutibilmente legata alla metodica attenzione che gli dedicò Stravinskij. La stagione neoclassica prese le mosse dal Pulcinella parigino. Il balletto su musiche di Pergolesi (o presunte tali: in quei decenni la prospettiva musicologica era corta, e tutto ciò che apparteneva al settecento italiano era un corpus unico; nemmeno Vivaldi era stato ancora ‘scoperto’) nacque come impegno musicalmente semplice: il compositore doveva strumentare e collegare fra loro una serie di musiche “pergolesiane” (alla fine solo nove, dei diciotto pezzi, sono attribuibili all’autore: cavati dalle opere Flaminio e Lo frate ’nnammorato, da una Cantata e da una Sonata per violoncello), accostate per il comune estro popolaresco e mediterraneo che avrebbe acceso la fantasia di Picasso per le scene e di Massine per la coreografia partenopea (oltre che allietare le tasche di Diaghilev e i borderò dei Ballets Russes). Senza vincoli formali, il compositore si comportò da accorto restauratore, rispettando le forme esterne (cioè melodie e bassi d’armonia) ma sbizzarrendosi nei contenuti: intarsiando l’originale struttura con note estranee, sovrapposizioni politonali e scapestrate soluzioni ritmiche che misero a dura prova i cantanti. Pulcinella è una sorta d’irresistibile andirivieni sonoro tra suadenze settecentesche e acidità novecentesche: fondato sulla “poetica della distanza” (o di straniamento per dirla con un concetto brechtiano di quei decenni) più che motivato da atteggiamenti ‘critici’ o banalmente nostalgici nei confronti della tradizione. Stravinskij, che per la prima volta saggiava la tradizione musicale ‘antica’ e occidentale, scoprì vanità e vitalità di quelle forme-relitti d’un passato lontano: ne annullò la natura espressiva ma ne subì il fascino strutturale. Stravinskij riconobbe nella filigrana costruttiva pergolesiana un vocabolario essenziale e sterminato che bastava farcire di nuovi contenuti per rendere moderno. Il suo cinismo di stupefacente artigiano del comporre musicale gli offrì gli strumenti migliori per realizzare un proposito artistico, che tra l’altro era la più comoda e diretta conferma d’una Poetica della musica (titolo del suo saggio teorico degli anni ‘40) istintivamente schierata: contro qualsiasi idea di partecipazione affettiva all’atto creativo o di consenso a valori musicali che non fossero l’intrinseca organicità costruttiva delle partiture. Trent’anni dopo, esaurite altre pittoresche divagazioni stilistiche e coniugazioni rivolte alla tradizione, The Rake’s progress si riallacciò ai modi e al mondo pergolesiano. Ma il bersaglio fu più ambizioso. Nei tre atti, concepiti simmetricamente per numero di quadri e di tracciati drammatici, suonati da un’orchestra causticamente classica (clavicembalo compreso, ma il pianoforte è ammesso), l’ambizione neoclassica stravinskiana magnificò se stessa. A ben ascoltare, se non a leggere la sfavillante partitura che si apre con una toccata-ouverture di tinta ‘monteverdiana’ ma stranita dai ritmi asimmetrici, non c’è regola del passato musicale che non sia utilizzata, disinfettata e restituita con nitore moderno. Ancora prima di scrivere una nota Stravinskij aveva fatto sfoggio della sua onnivora e personalissima concezione neoclassica – definizione che rinnegò sempre; anche Debussy, del resto, disconobbe l’etichetta impressionista e simbolista – ridiscutendo nella realizzazione del testo la tradizione librettistica. Imponendo lo schema formale e letterario del dapontiano Così fan tutte, e la narrazione per arie, recitativi e pezzi d’assieme dell’operismo comico postpergolesiano, ma continuando a derogare dal modello: accogliendo suggestioni teatrali di segno lontano (e più vicine a noi, quelle hoffmaniane/offenbachiane e ciaikovskiane) mentre in musica gli evidenti rimandi all’operismo romantico italiano controbilanciarono gli ‘hogarthiani’ omaggi al barocco inglese e i richiami gluckiani. Tutto è citabile in The Rake’s progress ma non è citazione (a parte la canzonaccia da strada nel 3° atto). Tutto è falso eppure veritiero, e alla fine perfino drammatico e commovente. Perché anche se in palcoscenico il diavolo-Leporello-Shadow non vince – o meglio, vince solo in parte: ma contro un uomo modernamente “senza qualità” – mentre giganteggia l’eroico affetto di Anne trattata come una star del belcanto straussiano-settecentesco (alla prima cantava Elizabeth Schwarzkopf), in ogni pagina della partitura spadroneggia l’ennesima maschera del diavolo-libertin Stravinskij. Con un finale sberleffo alla storia. Capolavoro e epilogo della proficua stagione neoclassica europea, associata per troppo tempo alla retroguardia della musica moderna, The Rake’s progress andò in scena glorificando l’autore (anche in veste di direttore d’orchestra) l’11 settembre 1951. Arnold Schönberg, padre-mentore proclamato (ma con scarsa apertura di credito pubblico) dell’avanguardia era morto otto settimane prima, venerdì 13 luglio.

Angelo Foletto (Musicalmente, anno V, n.1, gennaio 2009)

3 commenti:

Anonimo ha detto...

Qual è l'editore della rivista "Musicalmente"?
Grazie

Heinrich von Trotta ha detto...

"Musicalmente" è una rivista edita a cura dell'Orchestra da Camera di Mantova: www.ocmantova.com
HvT

Anonimo ha detto...

Grazie molte!