Il Terzo Libro de’ Madrigali di Carlo Gesualdo “Prencipe di Venosa” venne pubblicato dall’editore ferrarese Vittorio Baldini, nel 1595, nello stesso anno e nella stessa tipografia del Primo e del Secondo Libro. La pubblicazione è curata da Ettore Gesualdo in quanto (già lo sappiamo dalle precedenti pubblicazioni) non era adeguato che un nobile si occupasse materialmente della pubblicazione di musica: secondo la concezione dell’epoca, infatti, altri impegni sociali e mondani dovevano occupare la vita di un aristocratico dell’alta società rinascimentale. Gesualdo era prima di tutto un principe, quindi nobile, ricco e potente grazie all’antica casata di cui era l’ultimo discendente e grazie ai grandi territori e castelli di famiglia che aveva ereditato nel sud Italia, vicino a Napoli. Con uno stratagemma, l’omonimo Ettore (del quale, purtroppo, non abbiamo alcuna notizia biografica) curerà sia questo che il Quarto libro assicurando di avere la stessa cura del suo predecessore Stella in questo nuovo “grandissimo saggio d’artificio et leggiadria…imitazione et osservanza di parole”. Se il Secondo Libro proseguiva il lavoro di ricerca musicale del Primo, questo Terzo Libro, segna sicuramente una svolta nel linguaggio di Gesualdo: accesi contrasti, dissonanze sempre più innovative e non regolate dalle convenzioni compositive di quel periodo storico, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro inconciliabili, Gesualdo ricerca quella plausibile energia della parola poetica a divenire “evento sonoro”. In questo tipo di sperimentazione, Gesualdo non pretende la notorietà del poeta o la cura estetica del testo: egli cerca nella poesia quell’efficienza e quel vigore che la parola può offrire perchè divenga immagine, avvenimento, situazione acustica da apprezzare attraverso l’ascolto. Come un’opera pittorica si comprende e si ammira nel profondo attraverso l’osservazione per lungo tempo, così sempre più i suoi madrigali divengono tele musicali da comprendere solo con un ascolto che supera il primo impatto superficiale: già all’epoca i suoi madrigali furono studiati sulla notazione musicale scritta. Non è casuale che nel 1613 un’edizione completa dei suoi madrigali fu pubblicata “in partitura” perchè possa essere letta e studiata. Questo tipo di edizione è estremamente raro all’epoca (la “Rappresentazione di anima et di corpo” di Emilio de’ Cavalieri fu un altra eccezione), in quanto si preferiva stampare piccoli libri per ogni voce, che erano molto più economici, agili, pratici per l’esecuzione e molto più semplici dal punto di vista editoriale. Probabilmente edizione “in partitura” si rese anche necessaria per porre termine alle varie discussioni interpretative su molte delle note alterate che costituiscono i cromatismi tipici del linguaggio del principe.
Rimirando approfonditamente e reiterando l’ascolto di queste tele musicali, potremmo finalmente apprezzare tutto l’infinito mondo di soluzioni sorprendenti verso le quali il compositore si protende e si immerge da questo momento in poi: in quel momento storico, nessun musicista poteva avviare una ricerca musicale che non considerasse quel tipo di successo effimero che sgorga da una superficiale bellezza edonistica delle proprie opere. Stipendiato alla corte di un nobile mecenate o responsabile d’una istituzione religiosa, i compositori dovevano misurarsi in ogni momento con l’effettivo gradimento delle loro composizioni da parte dei committenti o dei fruitori del loro prodotto artistico. Gesualdo, principe potente e ricco, viceversa poteva permettersi di evitare un riscontro di pubblico, dimenticandosi della propria “sopravvivenza materiale” (e di conseguenza anche di quel rendimento in moneta e in notorietà che le opere “di successo” potevano offrire), concentrandosi viceversa sulla maturazione musicale e sulla sperimentazione di linguaggio. Forse per la prima volta nella storia della musica, egli poteva permettersi di svolgere una vera e pura “ricerca” finalizzata solo a se stessa.
In quest’ottica di assoluta autonomia artistica, anche i testi non venivano proposti o imposti dal mecenate, ma scelti accuratamente da Gesualdo stesso per la loro efficacia di infondere nella musica nuove sensazioni sonore: egli spesso commissiona dei madrigali a poeti e letterati (nessun musicista se lo poteva permettere), chiedendo loro delle immagini e delle parole che potessero mettere in mostra tutta la sperimentazione che solo lui era in grado di svolgere, libero da ogni tipo di vincolo materiale. Vediamo, ad esempio, il rapporto unidirezionale fra Gesualdo e Torquato Tasso: il sommo poeta inviava costantemente (e umilmente) i propri lavori, ma questi non erano assolutamente apprezzati dal principe che preferisce testi più anonimi (e di poeti meno blasonati) ma più soddisfacentemente efficaci a sublimare e le sue idee. Il 19 novembre 1592 il sommo Tasso scriveva: “le mando ancora dieci madrigali (…) per compiacere Vostra Eccellenza, mi sforzerò di trasmutarmi in nuove forme”. Altri madrigali furono inviati in seguito dopo un gelido silenzio, ma non ricevendo risposta il 10 dicembre con coraggio scriveva ancora “le mando altri dieci madrigali (…) in tutto deono esser stati sino a questa ora più di quaranta”. Non ricevendo ancora riscontro, il 16 dicembre si scusava con il principe perchè “l’esperienza mi ha fatto vergognare di me stesso e del mio ingegno (…) ma Vostra Eccellenza non può dubitare ch’io non l’onori ed ami quanto si conviene a l’alta sua fortuna e a la mia depressa condizione, bench’io non abbia saputo soddisfarla ne componimenti dei cinque madrigali che io le mando”. Neanche uno di ben quarantacinque documentati madrigali commissionati (e probabilmente pagati) al Tasso furono mai utilizzati da Gesualdo che dal Terzo Libro si avvale sempre più opere di letterati a noi sconosciuti ma che appagano il suo crescente desiderio di nuova creatività.
Tranne il madrigale d’apertura di Giovanni Battista Guarini (“Voi volete ch’io mora”), il Terzo Libro non si avvale di poeti noti ma piuttosto di testi anonimi in cui parole, immagini e situazioni possano mettere in luce la capacità del musicista ad offrire atmosfere ricche di pathos. Accesi contrasti, espressioni che accostano elementi e immagini fra loro razionalmente inconciliabili, Gesualdo si compiace di trasfigurare musicalmente dei madrigali che siano efficaci a divenire “eventi sonori”.
Nella seconda parte del libro l’atmosfera diventa poi particolarmente cupa e violenta segnando il passaggio alla successiva poetica: il madrigale “Non t’amo, o voce ingrata” segna questo passaggio. Da questo momento la parola “morte” e tutti i suoi sinonimi saranno quasi onnipresenti nei testi musicali, a segnalare una ferita sanguinante nel proprio cuore. Il tradimento dell’amata moglie, consumato in casa propria, e il terribile e violento epilogo a cui fu indotto, segnò sicuramente un punto fermo nella sua produzione creativa e nella assidua ricerca di testi che mostrassero a tutti quelle immagini. Probabilmente anche il ruolo di violento uxoricida vendicativo, che è costretto ad indossare, lo porta ad indagare una realtà musicale rabbiosa, irascibile, furiosa e turbinosa. Oramai era noto in tutto il mondo per quest’episodio violento: ora la sua musica, quella che da sempre lo aveva reso un uomo affascinante e felice allo stesso tempo, dovrà mostrare e narrare questi suoi stati d’animo, questa sua reale sofferenza, questi sentimenti repressi che erano esplosi in quell’episodio estremo. La musica di Gesualdo da questo momento in poi deve far riflettere il pubblico sulla sua sorte d’essere umano sofferente e tradito: a quest’uomo non resta altra amara sorte che ritirarsi nella musica, tentando di riscattare con questi affreschi sonori quella triste vicenda a cui era stato involontariamente sottoposto. Visto che tutti vedevano in lui solo l’effigie di violento assassino, la sua musica doveva mostrare il perchè di quel gesto estremo, il perchè pur amando la propria moglie fin da bambino, è costretto dalla società a pugnalare quell’amore. Vedremo nelle note del Quarto Libro che nonostante il processo per l’assassinio della moglie e del suo amante scagionava totalmente Gesualdo da Venosa in quanto “delitto d’onore” (giustificato pienamente dalla collettività e dalla giustizia dell’epoca), la società prenderà in seguito posizioni molto contrastanti riguardo questa vicenda. Molti infatti schiereranno a favore dell’amore di Maria d’Avalos con Fabrizio Carafa, valorizzando non l’onore come valore morale, ma il potere dell’amore che vince ogni consuetudine sociale fino alla conseguenza estrema di morire per esso.
Per tutta la vita Gesualdo deve difendersi: lo farà con la sua arte, con queste tele sonore. Il testo del madrigale “Dolcissimo sospiro” offre parole esplicite di quanto vissuto:
Deh, vieni a raddolcire
l’amaro mio dolore:
ecco ch’io t’apro il core.
Ma, folle, a chi ridico il mio martire?
Ad un sospir errante
che forse vola in seno ad altro amante?
Così anche il madrigale anonimo “Non t’amo” descrive l’insopportabile risposta dell’amata che categoricamente rifiuta l’amore tanto faticosamente cercato e trovato:
“Non t’amo”, o voce ingrata,
la mia donna mi disse;
e con pungente strale
di duol e di martir, l’alma trafisse.
Grazie al lavoro di Elio Durante e Anna Martellotti (1987) possiamo attribuire questo testo a Ridolfo Arlotti, segretario del cardinale Alessandro d’Este e cognato di Gesualdo che probabilmente fu l’artefice di alcuni “rimaneggiamenti” nello stile del Principe di alcuni testi anonimi molto più vecchi, come ad esempio “Se vi miro pietosa” e il madrigale più famoso di questo libro: “Ancidetemi pur, grievi martiri”.
Come era avvenuto nel Secondo Libro per il madrigale scritto da Alfonso d’Avalos “Sento che nel partire” anche in questo Libro noi troviamo un omaggio del Principe al celebre Jacques Arcadelt: infatti come “Sento che nel partire” anche “Ancidetemi pur” (nel 1539) era stato usato dal musicista fiammingo (che evidentemente Gesualdo ammirava). Il testo doveva essere adeguato in modo tale che potessero emergere l’inedita e personale poetica. Interessante confrontare i due testi, come affascinante confrontare le due realizzazioni musicali. Ecco l’originale usato da Arcadelt:
Ancidetemi pur, grievi martiri
ch’l viver m’è sì a noia
che’l morir mi fia gioia,
ma lassat’ir gli estremi miei sospiri
a trovar quella ch’è cagion ch’io muoia
e dir’a l’empia fera
ch’onor non gli è che per amarl’io pera.
Cinquant’anni separano questi due madrigali ma, nonostante le assonanze, la modernizzazione della poetica operata da Arlotti evidenzia lo stesso mutamento che Gesualdo opererà come trasfigurazione musicale: non più la statica perfezione armonica e contrappuntistica di Arcadelt, ma una tela sonora colma di chiaroscuri, contrasti, contrapposizioni, contraddizioni musicali che esplicano gli ossimori poetici evidenziati in madrigalismi che coinvolgono tessiture e armonie: “gli estremi miei sospiri” divengono estensioni estreme, dissonanze, cambi repentini di modi e quindi di atmosfere sonore.
Non possiamo infine tralasciare di citare l’intima espressività di “Se piange, oimè, la donna del mio core”. Gesualdo non dovrà subire una condanna in tribunale per quel gesto estremo che gli segnò la vita, ma dovrà difendersi da quanti ritennero l’amore un valore superiore ad ogni legge e convenzione sociale: egli si difese con l’arte della musica, con una vita dedicata a rivalutare la propria immagine consumata ogni giorno dal rimorso di avere ucciso l’unico sogno in cui credeva.
Con quel gesto feroce Gesualdo riceverà dalla società un ruolo che dovrà subìre pesantemente fino alla fine della vita: i suoi madrigali e la loro estrema realizzazione sonora fisseranno quel personaggio secondo il personale punto di vista. La sua musica sarà l’unica colonna sonora possibile.
Marco Longhini
1 commento:
testo ripreso dal cd della naxos, musiche terribili e modernissime.
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