Trent'anni con il mitico Quartetto Italiano e tanti grandi incontri nella musica da camera coronano la splendida carriera di Franco Rossi. A colloquio col Maestro.
Abbiamo ascoltato in pubblico Franco Rossi, per l'ultima volta, nel Sestetto di Brahms; testimonianza - insieme al Quintetto di Schubert - dell'instancabile attività di un musicista che è stato (ma non solo) il violoncellista di quell'irripetibile incontro che si è chiamato Quartetto Italiano. L'incanto di un'esperienza che ha marcato ogni aspetto della vita musicale italiana, è passato nei suoi insegnamenti, nei giovani che gli sono vicini in queste registrazioni. Burbero, di primo acchito, poi ironico e gioviale; veneto e insieme toscano; schivo e meditativo, ma appassionato: ho incontrato in lui quella "critica assidua e tenace, quasi ossessiva" (sono parole sue) che tanto ammirava nel suo amico Paolo Borciani. I ricordi scorrono generosamente.
«Ho iniziato con uno dei primi diplomati alla grande scuola di Serato, Prospero Montecchi; un vecchio violoncellista venuto alla musica per uno strano caso. Era un trovatello di Reggio Emilia e, a quel tempo, il Conservatorio di Bologna sceglieva qualche ragazzo dell'istituto per avviarlo agli studi musicali. In seguito, era stato concertista in Francia. Anch'io sono stato scelto dal caso. Montecchi abitava in un bel Rio di Venezia, nella fondamenta davanti a casa mio. Avevo sette anni e cantavo alla finestra qualcosa di Verdi imparato dai dischi che mio zio ascoltava su un grammofono a tromba. Quando mi sentì, Montecchi venne da mio padre: diceva che avevo un orecchio finissimo e propose che studiassi violoncello. E' andata così. Senza il suo intervento, avrei forse scelto la tromba del grammofono. Oltre a due lezioni settimanali in conservatorio, andavo due volte a casa del vecchio professore - gratis - e ricordo di aver pianto spesso, tale era la sua severità. Nella cura dell'orecchio era inflessibile, e mi rendo conto che aveva ragione: l'orecchio, anche il migliore, va sorvegliato ed educato. Anche i pianisti devono farlo, per sorvegliare l'equilibrio delle voci. Non sempre certi accordi sono opachi per colpa dello strumento, ma perché manca il giusto equilibrio: ci sono tante combinazioni, in un accordo, per far vibrare l'intreccio degli armonici, per cambiare densità e luminosità. Dopo quattro anni, arrivò Luigi Silva, poco più che trentenne. Fu il mio vero maestro, e amico. Mai uno scatto d'ira, l'atmosfera era serena. Mi ha insegnato la razionalità nello studio, la conoscenza delle delle arti, l'amore per la lettura. Era un uomo generoso. Lo seguii a Firenze e, quando nel '39 dovette partire per l'America finii gli studi con Dante Serra, scuola Serato anche lui. Silva continuò alla Juilliard, stimatissimo, e durante le nostre tournées non mancavo mai di incontrarlo, con grande trepidazione. Ho anche seguito i corsi di Bonucci a Siena e a Roma. Ci scelse - noi, del futuro Quartetto Italiano - per il saggio della Chigiana, Debussy, dove il gran successo ci convinse a riunirci quando fossero venuti tempi migliori, dopo la guerra. Prima di fare quartetto ho lavorato nelle migliori orchestre italiane: a Torino, prima di diplomarmi, poi alla Rai di Roma e a Santa Cecilia; infine alla Fenice. Ma non esitavo ad abbandonare questi posti preziosi per correre a suonare nella magnifica Oichestra della Chigiana, dove Antonio Guarnieri teneva il corso di direzione. Lui è stato il mio maestro ideale. Franco Ferrara diceva: "Non un grande: il più grande!". Ci dava l'impressione di levitare, come fosse lui a suonare al posto nostro. Diceva: "Li lascio suonare", e ci assecondava nel nostro respiro naturale. Aveva a che fare con elementi di prim'ordine, e mai li imprigionava col gesto. Seguiva gli strumentini nelle solistiche. Il suono che otteneva dagli archi era un vero mistero; specie nel pianissimi, impalpabili, immateriali. Era la magia del suono, i suoi dischi non ne sono che l'ombra. Lo ricordo dire - con inconsueta gentilezza, quasi con stupore - a un allievo: "Ma come! Tu bastoni la musica?". Il suo gesto non era mai violento, esagitato. Semmai, solenne. Quando alzava le braccia (ma non più di tanto) succedeva il finimondo. Col suo gesto tipico, andava a scavare in basso come a trovare l'appoggio per sollevare l'orchestra, lanciandola in alto all'apice di un fortissimo: un'efficacia trascinante. Era come un rituale che attendevamo per comunicare con lui con la massima intensità. Mi impressionava il magnetismo degli occhi. Parlava poco, e quel poco era essenziale. Si esprimeva in maniera totale col gesto e con gli occhi. Quel gesto era come un rituale. Sono state le 'lezioni' di musica pìù preziose ed esaltanti».
E tra i violoncellisti, a chi ha guardato.
Abbiamo ascoltato in pubblico Franco Rossi, per l'ultima volta, nel Sestetto di Brahms; testimonianza - insieme al Quintetto di Schubert - dell'instancabile attività di un musicista che è stato (ma non solo) il violoncellista di quell'irripetibile incontro che si è chiamato Quartetto Italiano. L'incanto di un'esperienza che ha marcato ogni aspetto della vita musicale italiana, è passato nei suoi insegnamenti, nei giovani che gli sono vicini in queste registrazioni. Burbero, di primo acchito, poi ironico e gioviale; veneto e insieme toscano; schivo e meditativo, ma appassionato: ho incontrato in lui quella "critica assidua e tenace, quasi ossessiva" (sono parole sue) che tanto ammirava nel suo amico Paolo Borciani. I ricordi scorrono generosamente.
«Ho iniziato con uno dei primi diplomati alla grande scuola di Serato, Prospero Montecchi; un vecchio violoncellista venuto alla musica per uno strano caso. Era un trovatello di Reggio Emilia e, a quel tempo, il Conservatorio di Bologna sceglieva qualche ragazzo dell'istituto per avviarlo agli studi musicali. In seguito, era stato concertista in Francia. Anch'io sono stato scelto dal caso. Montecchi abitava in un bel Rio di Venezia, nella fondamenta davanti a casa mio. Avevo sette anni e cantavo alla finestra qualcosa di Verdi imparato dai dischi che mio zio ascoltava su un grammofono a tromba. Quando mi sentì, Montecchi venne da mio padre: diceva che avevo un orecchio finissimo e propose che studiassi violoncello. E' andata così. Senza il suo intervento, avrei forse scelto la tromba del grammofono. Oltre a due lezioni settimanali in conservatorio, andavo due volte a casa del vecchio professore - gratis - e ricordo di aver pianto spesso, tale era la sua severità. Nella cura dell'orecchio era inflessibile, e mi rendo conto che aveva ragione: l'orecchio, anche il migliore, va sorvegliato ed educato. Anche i pianisti devono farlo, per sorvegliare l'equilibrio delle voci. Non sempre certi accordi sono opachi per colpa dello strumento, ma perché manca il giusto equilibrio: ci sono tante combinazioni, in un accordo, per far vibrare l'intreccio degli armonici, per cambiare densità e luminosità. Dopo quattro anni, arrivò Luigi Silva, poco più che trentenne. Fu il mio vero maestro, e amico. Mai uno scatto d'ira, l'atmosfera era serena. Mi ha insegnato la razionalità nello studio, la conoscenza delle delle arti, l'amore per la lettura. Era un uomo generoso. Lo seguii a Firenze e, quando nel '39 dovette partire per l'America finii gli studi con Dante Serra, scuola Serato anche lui. Silva continuò alla Juilliard, stimatissimo, e durante le nostre tournées non mancavo mai di incontrarlo, con grande trepidazione. Ho anche seguito i corsi di Bonucci a Siena e a Roma. Ci scelse - noi, del futuro Quartetto Italiano - per il saggio della Chigiana, Debussy, dove il gran successo ci convinse a riunirci quando fossero venuti tempi migliori, dopo la guerra. Prima di fare quartetto ho lavorato nelle migliori orchestre italiane: a Torino, prima di diplomarmi, poi alla Rai di Roma e a Santa Cecilia; infine alla Fenice. Ma non esitavo ad abbandonare questi posti preziosi per correre a suonare nella magnifica Oichestra della Chigiana, dove Antonio Guarnieri teneva il corso di direzione. Lui è stato il mio maestro ideale. Franco Ferrara diceva: "Non un grande: il più grande!". Ci dava l'impressione di levitare, come fosse lui a suonare al posto nostro. Diceva: "Li lascio suonare", e ci assecondava nel nostro respiro naturale. Aveva a che fare con elementi di prim'ordine, e mai li imprigionava col gesto. Seguiva gli strumentini nelle solistiche. Il suono che otteneva dagli archi era un vero mistero; specie nel pianissimi, impalpabili, immateriali. Era la magia del suono, i suoi dischi non ne sono che l'ombra. Lo ricordo dire - con inconsueta gentilezza, quasi con stupore - a un allievo: "Ma come! Tu bastoni la musica?". Il suo gesto non era mai violento, esagitato. Semmai, solenne. Quando alzava le braccia (ma non più di tanto) succedeva il finimondo. Col suo gesto tipico, andava a scavare in basso come a trovare l'appoggio per sollevare l'orchestra, lanciandola in alto all'apice di un fortissimo: un'efficacia trascinante. Era come un rituale che attendevamo per comunicare con lui con la massima intensità. Mi impressionava il magnetismo degli occhi. Parlava poco, e quel poco era essenziale. Si esprimeva in maniera totale col gesto e con gli occhi. Quel gesto era come un rituale. Sono state le 'lezioni' di musica pìù preziose ed esaltanti».
E tra i violoncellisti, a chi ha guardato.
«A Guarnieri! E' una battuta, ma mica tanto. Era un ottimo violoncellista. Era stato primo leggìo dell'orchestra di Toscanini e aveva fatto parte del Quartetto Martucci, col quale aveva studiato composizione. Ho ammirato e amato tanto Casals per la profonda spiritualità e invenzione, e per la sua cultura del suono. Cassadò: un Hidalgo! Mi impressiona, per la grande fantasia, lo spirito dell'improvvisazione, la bellezza poetica del suono che. anche neì virtuosismi, viene assorbito da una tinta un po' scura che evita la brillantezza fine a se stessa, drammatizzandone il colore. E poi, la nobiltà di Fournier, il fascino strumentale di Rostropovich, l'eleganza e singolarità di Tortelier, il pensiero creativo di Mainardi. Con Cassadò abbiamo avuto contatti abbastanza frequenti, quando era a Siena. Si parlava della possibilità di eseguire il Quintetto di Schubert. Anche Fournier ci propose di inciderlo; non fu possibile per via dei contratti con case differenti. Lo eseguimmo, per nostro piacere, in una villa di St. Moritz. Dopo molti anni, l'ho fatto io con il Foné. Il nostro incontro è nato piuttosto spontaneamente. Erano miei allievi da anni, fin dagli inizi. Il terreno su cui lavorare era fertile e lo studio si è svolto senza grandi ostacoli, malgrado la difficoltà dell'opera. Nel primo movimento, e soprattutto nell'Adagio, il Foné ha raggiunto una tensione espressiva rara, struggente. Stemperano il suono sulle note lunghe, ferme, rarefatte nel colore. Creano un clima di staticità che contrasta con la parte implorante del primo violino. L'abbiamo eseguito in molte importanti città, sempre con grande successo. In seguito, li ho mandati dal Tokio e dal Borodin, coi quali hanno collaborato in concerto; mantenendo ottimi contatti, tant'è vero che adesso fanno Schubert con Sadao Harada».
La vostra interpretazione suggerisce a chi ascolta una specie di dilatazione bruckneriana che mi ricorda lo Schubert del Quartetto Italiano.
«Questo tipo di lettura è nato spontaneamente, con libertà espressiva nel rigore. Bisogna rispettare l'evidenza di ciò che è scritto. Ma c'è anche il famoso "botta e risposta" tra Toscanini (leggere le note) e Furtwängler (leggere tra le note). Comunque, col Foné ci siamo subito trovati d'accordo. Solo, ci voleva un giorno in più per inciderlo. Ho qualche dubbio sul tempo un po' lento dello Scherzo. Degli altri movimenti, invece, sono soddisfatto».
Come si pone idealmente la sua esperienza tra Toscanini e Furtwängler?
«In un primo tempo il Quartetto Ita:liano part da una concezione neoclassica, come Michelangeli o il Trio di Trieste. Era dovuta all'esperienza toscaniniana - per la trasparenza del testo - e all'influenza francese, filtrata attraverso Debussy e Ravel. Abbastanza presto, la conoscenza di grandi artisti tedeschi mutò le sue interpretazioni. Vede: lo stile cambia, ed è cosa naturale e inevitabile; ma una certa confusione di stili, oggi, vede prevalere l'aggressività ai danni della nobiltà e dell'espressione. Personalità e comunicativa erano un tempo l'anima degli artisti: oggi si mette in luce (quale luce?) la tecnica; più spesso, la meccanica. Per fortuna, le eccezioni tra i giovani non mancano. Speriamo che ci pensino. Non mi pare, infatti, che certi tempi veloci si adattino alla grande tradizione tedesca, al respiro sinfonico che mi parve di scoprire quando ancora studente ascoltai per la prima volta i Berliner e Furtwängler. Ricordo anni dopo l'incontro con lui, nella sua casa di Salisburgo. Eseguimmo insieme il Quintetto di Brahms, che ci lasciò un segno profondo, consentendoci di entrare con maggior consapevolezza nello spirito del repertorio romantico. Citava al pianoforte anche passi dagli ultimi quartetti di Beethoven, a memoria».
Cambiando lo stile, è cambiato anche l'uso del vibrato?
«Il vibrato è divenuto onnipresente, sempre uguale per ogni compositore. Non basta il bel suono, bisogna saperlo usare dove conviene. Si muove la mano e si produce un bel suono. Ma l'espressione vien da dentro: l'idea deve precedere il suono, non seguire passivamente il movimento della mano. Il vibrato è un mezzo espressivo di grande varietà. Invece, persino nelle grandi orchestre, si è insinuato in modo esagerato anche negli oboi, nei corni inglesi, nei fagotti, a scapito della purezza timbrica. In contrasto alla monotonia di oggi, mi viene in mente Busoni: che varietà timbrica, anche in una sola misura!».
Ha avuto modo di approfondire la ricerca timbrica anche nella sua attività di solista?
«Certamente. Ma non avevo intenzione di fare il solista: solo, eseguire il Concerto di Schumann; un desiderio rimasto inappagato per tanti anni. L'avevo preparato negli ultimi anni di studio. Poi, sopraggiunsero gli impegni di quartetto e Schumann rimase 'Träumerei'. E' indiscutibilmente il più bello tra i concerti per violoncello. Quando, dopo 35 anni di quartetto, ho de ciso di riprenderlo, mi ha attirato il tentativo di individuare un suono specifico schumanniano, diverso da ogni altro autore: i trapassi da momenti di grande poesia, dalla tenerezza dei passi lirici, all'allucinazione. Schumann è esaltante, perché è imprevedibile. Ogni volta, l'interpretazione dipende da innumerevoli fattori: l'orchestra, lo stato d'animo del momento, il direttore. Ha qualcosa di aleatorio: la libertà di scrittura di certi gruppi del primo movimento, quasi ineseguibili a tempo, ci permette di variarne ogni volta nello spazio della misura - lo slancio, lo scatto, l'articolazione; quindi, di mutare lo spirito del particolare. Si può improvvisare l'andamento, si può inventare. Purtroppo, non c'è mai il tempo di preparare il dialogo con l'orchestra nel Finale, con quei passaggi che vanno come folletti e che invece finiscono per risultare un po' teutonici. Prima del Quartetto, avevo suonato con Sergio Lorenzi: un musicista affascinante. Dopo gli anni del Quartetto, il pianista è stato Pier Narciso Masi: la sua grande duttilità e il bellissimo suono espressivo mi stimolavano molto, e suonavamo con grande entusiasmo; e molto successo. Col Quartetto ho avuto la fortuna di conoscere i più grandi pianisti, tra cui Pollini, col quale abbiamo inciso Brahms: un'esecuzione singolare che si distingue da quelle tradizionali. La presenza di Pollini, ha privilegiato l'aspetto sinfonico a quello cameristico, evidenziando l'espressione dinamica. Mi piace l'andamento ampio e meditato del primo movimento; e, sicuramente, Pollini raggiunge l'apice nello Scherzo, per lo slancio e la sua trascinante potenza sonora. Con Horszowski suonavamo spesso anche Brahms - in privato. Gli volevo molto bene e fui felice di farlo invitare a Castagno d'Andrea negli ultimi anni. Si ricorda che Chopin sbalorditivo? L'età non contava nulla, era un grande interprete. Anche la Haskil era una nostra buona amica. A Montredon, vicino a Marsiglia, eravamo ospiti della contessa Pastré. C'era un parco splendido, e tanti musicisti: la Haskil, la Guller; e poi la cantante della 'prima' del Pierrot Lunaire, Marya Freund. Per un mese abbiamo fatto musica ogni sera: i Quartetti di Brahms con pianoforte, qualche Trio. Suonavamo anche al Festival di Aix, che è a due passi, e studiavamo Mozart con De Bavier, clarinettista colto e sensibile, un suono bellissimo. A Aix, Borciani eseguì alcune sonate di Mozart, proprio con la Haskil. una volta mi trovai a mangiare accanto a Louis Jouvet: impressionante, proprio come lo si vedeva a teatro. A una delle serate partecipai, anche, non come musicista ma muovendo le acque di un laghetto, per zittire le ranocchie, mentre la Haskìl suonava sotto una loggia. La incontravamo anche al Festival l'Engandina. Siccome i paesini erano vicinissimi e ogni sera si faceva musica, ognuno andava a sentire gli altri. A un nostro concerto, vennero Fischer e Backhaus insieme. Quel che più mi impressiona, nel ricordo, è l'umiltà e la timidezza di quei grandi. Vennero a salutarci. Erano entusiasti del Quartetto di Verdi, una scrittura cameristica perfetta e difficilissima».
L'avete risolto in maniera insuperabile, come Schubert, Beethoven, Webern; e persino Borodin.
«Insuperabile? Si ricordi dello Schubert del Busch, del loro ultimo Beethoven. Mettiamola così: il loro è insuperabile, e quello del Quartetto Italiano lo lasciamo giudicare agli ascoltatori. In Borodin, poi, ci vuole un certo nobile manierismo che non c'era congenito. Il nostro era fin troppo nobile, troppo classico. Altri, che in quella tradizione sono nati e vissuti, semplicemente si lasciano andare, e lo fanno meravigliosamente, anche se via via risultano un po' stucchevoli. A proposito di Verdi: ricordo che l'abbiamo registrato a Londra su facciate di quattro minuti, a 78 giri. In un sol giorno: bastava un rumore e si ripeteva tutto, senza mai una pausa. La forbice, per questo lavoro, ancora non esisteva. In Webern, giocavamo sul timbro come avevamo fatto - molto tempo prima, e con differente spessore - in Debussy e Ravel. Fin dall'inizio avevamo idee chiare, nostre, sulla varietà timbrica, sulle note ferme.»
Che rapporto ha con i dischi?
«Non li ascolto molto. Non mi sono ancora convinto dei vantaggi del digitale. A volte il suono è così filtrato che non è più naturale, i suoi contorni finiscono per risultare cancellati. Horszowski, della stereofonia, diceva: "Alta Fedeltà? Alto Tradimento!". Penso comunque che il Quartetto Italiano sia stato servito piuttosto bene.»
Adesso Lei insegna alla Scuola di Sesto Fiorentino.
«Da cinque anni, una o due volte al mese, fisso gli incontri a Sesto con i promettenti allievi, già affermatisi in concorsi e concerti: due quartetti ad archi, un quartetto con pianoforte e vari duo di pianoforte e violino, e di pianoforte e violoncello: hanno suonato per Settembre Musica agli Amici della Musica di Firenze, e al Festival delle Nazioni; e in quante altre importanti istituzioni. La sede di Sesto è molto bella, si lavora con serietà e tranquillità. Però, anche i migliori allievi sono pieni di impegni estranei alle loro formazioni. Hanno bisogno di guadagnare. D'altronde, lo stato italiano non prevede nessun aiuto economico per i giovani di talento che vogliano formare un quartetto, come succede in altri paesi. Quando formammo noi il Quartetto, non ci fu più alcuno spazio per altri impegni. Però fu difficile sposare quartetto e insegnamento. Una volta abbiamo perduto un anno di carriera scolastica: eravamo in America e, dal ministero, ci ingiunsero di raggiungere le nostre sedi entro 15 giorni. Naturalmente non fu possibile».
Prima di terminare, vuol parlarmi dei Sestetti di Brahms?
«E' stata la mia ultima esperienza cameristica, prima del ritiro. Eravamo tutti amici: loro, molto giovani (alcuni, miei ex allievi) e già famosi. lo, molto stagionato: e basta. Il rapporto affettuoso durante i periodi di lavoro, in luoghi ameni, lo studio molto approfondito e appassionato con questi giovani, eccellenti musicisti, sempre sereni e scherzosi, tra i quali Mario Brunello, che ora suona sullo splendido strumento che è stato il mio, mi hanno fatto sentire più vivo e sono loro molto grato. Se è vero che il vino vecchio fa buon sangue e che il prosecco giovane dà euforia, penso allora che il risultato possa essere notevole: un'esecuzione sorvegliata nella forma, il suono ricco di colori e meditato. Brahms beveva birra, credo: speriamo che non ci neghi la sua indulgenza».
Purtroppo, mentre ci lasciamo, ci giunge la notizia dolorosa del rogo della Fenice.
«Una notizia che mi sconvolge. Ho trascorso buona parte della mia vita in quel teatro, prima come orchestrale, poi come esecutore di tanti concerti da camera. Lo ho frequentato spesso anche come spettatore, in particolare durante il Festival di musica contemporanea, quando il teatro diventava la mia casa: ora, al posto di quello scrigno prezioso, ricco di storia, è rimasto un buco incenerito per versarvi tutto il dolore e la rabbia».
intervista di Gregorio Nardi ("I Grandi della Musica", n.3, Ermitage)
La vostra interpretazione suggerisce a chi ascolta una specie di dilatazione bruckneriana che mi ricorda lo Schubert del Quartetto Italiano.
«Questo tipo di lettura è nato spontaneamente, con libertà espressiva nel rigore. Bisogna rispettare l'evidenza di ciò che è scritto. Ma c'è anche il famoso "botta e risposta" tra Toscanini (leggere le note) e Furtwängler (leggere tra le note). Comunque, col Foné ci siamo subito trovati d'accordo. Solo, ci voleva un giorno in più per inciderlo. Ho qualche dubbio sul tempo un po' lento dello Scherzo. Degli altri movimenti, invece, sono soddisfatto».
Come si pone idealmente la sua esperienza tra Toscanini e Furtwängler?
«In un primo tempo il Quartetto Ita:liano part da una concezione neoclassica, come Michelangeli o il Trio di Trieste. Era dovuta all'esperienza toscaniniana - per la trasparenza del testo - e all'influenza francese, filtrata attraverso Debussy e Ravel. Abbastanza presto, la conoscenza di grandi artisti tedeschi mutò le sue interpretazioni. Vede: lo stile cambia, ed è cosa naturale e inevitabile; ma una certa confusione di stili, oggi, vede prevalere l'aggressività ai danni della nobiltà e dell'espressione. Personalità e comunicativa erano un tempo l'anima degli artisti: oggi si mette in luce (quale luce?) la tecnica; più spesso, la meccanica. Per fortuna, le eccezioni tra i giovani non mancano. Speriamo che ci pensino. Non mi pare, infatti, che certi tempi veloci si adattino alla grande tradizione tedesca, al respiro sinfonico che mi parve di scoprire quando ancora studente ascoltai per la prima volta i Berliner e Furtwängler. Ricordo anni dopo l'incontro con lui, nella sua casa di Salisburgo. Eseguimmo insieme il Quintetto di Brahms, che ci lasciò un segno profondo, consentendoci di entrare con maggior consapevolezza nello spirito del repertorio romantico. Citava al pianoforte anche passi dagli ultimi quartetti di Beethoven, a memoria».
Cambiando lo stile, è cambiato anche l'uso del vibrato?
«Il vibrato è divenuto onnipresente, sempre uguale per ogni compositore. Non basta il bel suono, bisogna saperlo usare dove conviene. Si muove la mano e si produce un bel suono. Ma l'espressione vien da dentro: l'idea deve precedere il suono, non seguire passivamente il movimento della mano. Il vibrato è un mezzo espressivo di grande varietà. Invece, persino nelle grandi orchestre, si è insinuato in modo esagerato anche negli oboi, nei corni inglesi, nei fagotti, a scapito della purezza timbrica. In contrasto alla monotonia di oggi, mi viene in mente Busoni: che varietà timbrica, anche in una sola misura!».
Ha avuto modo di approfondire la ricerca timbrica anche nella sua attività di solista?
«Certamente. Ma non avevo intenzione di fare il solista: solo, eseguire il Concerto di Schumann; un desiderio rimasto inappagato per tanti anni. L'avevo preparato negli ultimi anni di studio. Poi, sopraggiunsero gli impegni di quartetto e Schumann rimase 'Träumerei'. E' indiscutibilmente il più bello tra i concerti per violoncello. Quando, dopo 35 anni di quartetto, ho de ciso di riprenderlo, mi ha attirato il tentativo di individuare un suono specifico schumanniano, diverso da ogni altro autore: i trapassi da momenti di grande poesia, dalla tenerezza dei passi lirici, all'allucinazione. Schumann è esaltante, perché è imprevedibile. Ogni volta, l'interpretazione dipende da innumerevoli fattori: l'orchestra, lo stato d'animo del momento, il direttore. Ha qualcosa di aleatorio: la libertà di scrittura di certi gruppi del primo movimento, quasi ineseguibili a tempo, ci permette di variarne ogni volta nello spazio della misura - lo slancio, lo scatto, l'articolazione; quindi, di mutare lo spirito del particolare. Si può improvvisare l'andamento, si può inventare. Purtroppo, non c'è mai il tempo di preparare il dialogo con l'orchestra nel Finale, con quei passaggi che vanno come folletti e che invece finiscono per risultare un po' teutonici. Prima del Quartetto, avevo suonato con Sergio Lorenzi: un musicista affascinante. Dopo gli anni del Quartetto, il pianista è stato Pier Narciso Masi: la sua grande duttilità e il bellissimo suono espressivo mi stimolavano molto, e suonavamo con grande entusiasmo; e molto successo. Col Quartetto ho avuto la fortuna di conoscere i più grandi pianisti, tra cui Pollini, col quale abbiamo inciso Brahms: un'esecuzione singolare che si distingue da quelle tradizionali. La presenza di Pollini, ha privilegiato l'aspetto sinfonico a quello cameristico, evidenziando l'espressione dinamica. Mi piace l'andamento ampio e meditato del primo movimento; e, sicuramente, Pollini raggiunge l'apice nello Scherzo, per lo slancio e la sua trascinante potenza sonora. Con Horszowski suonavamo spesso anche Brahms - in privato. Gli volevo molto bene e fui felice di farlo invitare a Castagno d'Andrea negli ultimi anni. Si ricorda che Chopin sbalorditivo? L'età non contava nulla, era un grande interprete. Anche la Haskil era una nostra buona amica. A Montredon, vicino a Marsiglia, eravamo ospiti della contessa Pastré. C'era un parco splendido, e tanti musicisti: la Haskil, la Guller; e poi la cantante della 'prima' del Pierrot Lunaire, Marya Freund. Per un mese abbiamo fatto musica ogni sera: i Quartetti di Brahms con pianoforte, qualche Trio. Suonavamo anche al Festival di Aix, che è a due passi, e studiavamo Mozart con De Bavier, clarinettista colto e sensibile, un suono bellissimo. A Aix, Borciani eseguì alcune sonate di Mozart, proprio con la Haskil. una volta mi trovai a mangiare accanto a Louis Jouvet: impressionante, proprio come lo si vedeva a teatro. A una delle serate partecipai, anche, non come musicista ma muovendo le acque di un laghetto, per zittire le ranocchie, mentre la Haskìl suonava sotto una loggia. La incontravamo anche al Festival l'Engandina. Siccome i paesini erano vicinissimi e ogni sera si faceva musica, ognuno andava a sentire gli altri. A un nostro concerto, vennero Fischer e Backhaus insieme. Quel che più mi impressiona, nel ricordo, è l'umiltà e la timidezza di quei grandi. Vennero a salutarci. Erano entusiasti del Quartetto di Verdi, una scrittura cameristica perfetta e difficilissima».
L'avete risolto in maniera insuperabile, come Schubert, Beethoven, Webern; e persino Borodin.
«Insuperabile? Si ricordi dello Schubert del Busch, del loro ultimo Beethoven. Mettiamola così: il loro è insuperabile, e quello del Quartetto Italiano lo lasciamo giudicare agli ascoltatori. In Borodin, poi, ci vuole un certo nobile manierismo che non c'era congenito. Il nostro era fin troppo nobile, troppo classico. Altri, che in quella tradizione sono nati e vissuti, semplicemente si lasciano andare, e lo fanno meravigliosamente, anche se via via risultano un po' stucchevoli. A proposito di Verdi: ricordo che l'abbiamo registrato a Londra su facciate di quattro minuti, a 78 giri. In un sol giorno: bastava un rumore e si ripeteva tutto, senza mai una pausa. La forbice, per questo lavoro, ancora non esisteva. In Webern, giocavamo sul timbro come avevamo fatto - molto tempo prima, e con differente spessore - in Debussy e Ravel. Fin dall'inizio avevamo idee chiare, nostre, sulla varietà timbrica, sulle note ferme.»
Che rapporto ha con i dischi?
«Non li ascolto molto. Non mi sono ancora convinto dei vantaggi del digitale. A volte il suono è così filtrato che non è più naturale, i suoi contorni finiscono per risultare cancellati. Horszowski, della stereofonia, diceva: "Alta Fedeltà? Alto Tradimento!". Penso comunque che il Quartetto Italiano sia stato servito piuttosto bene.»
Adesso Lei insegna alla Scuola di Sesto Fiorentino.
«Da cinque anni, una o due volte al mese, fisso gli incontri a Sesto con i promettenti allievi, già affermatisi in concorsi e concerti: due quartetti ad archi, un quartetto con pianoforte e vari duo di pianoforte e violino, e di pianoforte e violoncello: hanno suonato per Settembre Musica agli Amici della Musica di Firenze, e al Festival delle Nazioni; e in quante altre importanti istituzioni. La sede di Sesto è molto bella, si lavora con serietà e tranquillità. Però, anche i migliori allievi sono pieni di impegni estranei alle loro formazioni. Hanno bisogno di guadagnare. D'altronde, lo stato italiano non prevede nessun aiuto economico per i giovani di talento che vogliano formare un quartetto, come succede in altri paesi. Quando formammo noi il Quartetto, non ci fu più alcuno spazio per altri impegni. Però fu difficile sposare quartetto e insegnamento. Una volta abbiamo perduto un anno di carriera scolastica: eravamo in America e, dal ministero, ci ingiunsero di raggiungere le nostre sedi entro 15 giorni. Naturalmente non fu possibile».
Prima di terminare, vuol parlarmi dei Sestetti di Brahms?
«E' stata la mia ultima esperienza cameristica, prima del ritiro. Eravamo tutti amici: loro, molto giovani (alcuni, miei ex allievi) e già famosi. lo, molto stagionato: e basta. Il rapporto affettuoso durante i periodi di lavoro, in luoghi ameni, lo studio molto approfondito e appassionato con questi giovani, eccellenti musicisti, sempre sereni e scherzosi, tra i quali Mario Brunello, che ora suona sullo splendido strumento che è stato il mio, mi hanno fatto sentire più vivo e sono loro molto grato. Se è vero che il vino vecchio fa buon sangue e che il prosecco giovane dà euforia, penso allora che il risultato possa essere notevole: un'esecuzione sorvegliata nella forma, il suono ricco di colori e meditato. Brahms beveva birra, credo: speriamo che non ci neghi la sua indulgenza».
Purtroppo, mentre ci lasciamo, ci giunge la notizia dolorosa del rogo della Fenice.
«Una notizia che mi sconvolge. Ho trascorso buona parte della mia vita in quel teatro, prima come orchestrale, poi come esecutore di tanti concerti da camera. Lo ho frequentato spesso anche come spettatore, in particolare durante il Festival di musica contemporanea, quando il teatro diventava la mia casa: ora, al posto di quello scrigno prezioso, ricco di storia, è rimasto un buco incenerito per versarvi tutto il dolore e la rabbia».
intervista di Gregorio Nardi ("I Grandi della Musica", n.3, Ermitage)
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