Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, luglio 21, 2024

Paul Hillier: Osservazioni sulla prassi esecutiva della musica corale di Arvo Pärt

Arvo Pärt (1935)  -  Paul Hillier (1949)

Quasi unico tra i compositori contemporanei, Arvo Pärt ha 
scritto la maggior parte della sua musica per voci sole o per voci con accompagnamento di strumenti. Questo tratto caratteristico, come diversi altri della musica di Pärt, ci ricollega al periodo barocco, quando i compositori lavoravano al servizio della Chiesa o di un aristocratico mecenate, ed erano chiamati a comporre quel che veniva loro richiesto o che era utile alle funzioni comunitarie, non quanto avrebbe soddisfatto il proprio senso di identità personale e la libera espressione di sé. Inoltre, a quell'epoca predominava la composizione vocale e la musica nasceva soprattutto dalle parole e dal loro significato.
Pärt iniziò a scrivere in stile neoclassico e solo negli anni sessanta adottò la tecnica seriale. È significativo che in quel periodo quasi tutta la sua musica fosse strumentale. Una delle rare eccezioni è il minuscolo Solfeggio la cui semplicità di concezione si rivela capace di raggiungere risultati quanto mai intensi. Dopo Credo (1968) Pärt abbandonò il serialismo e cercò un modo di usare la tonalità che fungesse da accesso a una nuova dimensione sonora. Studiò a fondo il canto gregoriano e la polifonia antica, sforzandosi di comprendere in che modo da poche note potesse scaturire un'espressione densa, e come le parole cantate potessero mantenere forza ed eloquenza pur senza essere interpretate in maniera soggettiva o drammatizzate psicologicamente. Le sue ricerche lo condussero a considerare la triade come il nucleo sonoro che avrebbe illuminato un intero pezzo musicale, fornendogli contemporaneamente le basi tecniche per determinare i dettagli di ogni singola nota. Poiché il suono che cercava gli ricordava il modo in cui il suono di una campana indugia nell'aria, chiamò questo nuovo stile tintinnabuli.
In questo nuovo stile, ogni suono diventa essenziale. Il movimento lineare da una nota alla successiva e la disposizione verticale di nota contro nota sono entrambe funzioni di un procedimento tecnico che può variare nelle sue diverse applicazioni, ma resta identificabile in ogni lavoro composto da Pärt a partire dal 1976. Sebbene non sia necessario esaminare dettagliatamente questo procedimento per eseguire la sua musica, sarà comunque utile all'esecutore comprenderne le principali caratteristiche.
Basta un rapido sguardo a una qualsiasi partitura di Pärt per vedere che ci sono due tipi di linea melodica: una che si muove per gradi e di solito ruota attorno a un'altezza centrale (che è spesso, ma non sempre, la tonica); l'altra che si muove attraverso le altezze di una triade maggiore o minore. Esiste infatti un rapporto fisso tra i due tipi di melodia, cosicché la linea melodica che si muove per gradi congiunti (di qui in avanti, voce M) determina sempre l'altezza della parte triadica o tintinnabulante (di qui in avanti, voce T). Questi ruoli interconnessi si possono ulteriormente caratterizzare come voce soggettiva (M) e voce oggettiva (T), in cui il dinamico e mutevole principio M è sostenuto e, in un certo senso, protetto dallo statico e immutabile principio T. Inoltre, poiché la voce T è l'elemento fisso della musica di Pärt, dobbiamo domandarci in che modo ogni suo lavoro si differenzia da un altro. La risposta sta naturalmente nella natura della voce M che, nella musica vocale, è determinata dal testo. Infatti, sono sempre le parole a determinare la forma che la musica assume in ogni suo dettaglio, piccolo o grande.
Pur sapendo che la musica vocale riceve la sua fisionomia dal testo, Pärt ci sorprende per la minuzia con cui ogni singola nota viene scelta in base al numero delle sillabe di una parola, al peso e alla posizione di ogni sillaba all'interno della parola e della parola all'interno della frase. Lo si vede chiaramente in uno dei primi lavori tintinnabuli con testo, la Missa Syllabica, nella quale ogni parola inizia o termina su un'altezza centrale da cui si allontana o a cui torna, basandosi esclusivamente sul numero delle sillabe. La voce T che segue il decorso melodico principale è sempre determinata da una delle altezze che compongono la triade vicina. E' da questo fondamentale principio fondato sul testo verbale che derivano tutte le altre opere vocali.
Prima della Missa, Pärt aveva scritto un altro lavoro vocale, An den Warsern, che non si basa su un testo esplicito, pur utilizzando le vocali del Kyrie, e mostra i metodi di costruzione melodica additiva impiegati anche in molti lavori strumentali.
Dal momento che è la parola a determinare dettagliatamente il corso della musica, cantare le opere vocali di Pärt in traduzione è chiaramente impossibile. Tuttavia, è interessante vedere come Pärt reagisca al confronto con lingue diverse; l'inglese, per esempio, lo sfida con il gran numero di monosillabi, rispetto ai polisillabi pluriaccentati del latino.
L'esecuzione della musica di Pärt presenta problemi che contraddicono la semplicità della scrittura, e molti di questi problemi possono essere affrontati in modo soddisfacente da cantanti esperti nel repertorio antico. Alla fine, tuttavia, non è la musica antica a fornire le risposte, bensì il fatto che un particolare tipo di assetto corale si adatta meglio alla musica di Pärt (come del resto a quella di molti compositori contemporanei, da Stravinskij in poi). Un primo elemento è il ridottissimo vibrato delle voci, che devono emettere il suono con grande chiarezza e precisione di intonazione, pur senza perdere colorito espressivo, fraseggio e varietà dinamica. Questo approccio al suono corale è riscontrabile nei migliori gruppi di musica antica, sebbene non sia limitato a quel tipo di musica. I più noti esponenti di questo stile provengono dall'Inghilterra (si basano sul cosiddetto suono della cattedrale inglese) e dall'area scandinava (ivi compresa anche la natia Estonia di Pärt, che ha subìto l'influenza del metodo corale di Zoltan Kodály).
La conoscenza della musica antica è utile per ottenere un fraseggio e uno stile esecutivo appropriati alla musica di Pärt, e costituisce il sostrato a partire dal quale è possibile costruire l'interpretazione. L'essenza di questo stile è il canto gregoriano, non solo perché favorisce una disposizione al raccoglimento, ma per il tipo di fraseggio che produce: inizia quietamente, si intensifica nella parte centrale e infine svanisce. Il canto gregoriano e la polifonia sacra che da esso si sviluppò richiedono uno stile di canto oggettivo e allo stesso tempo totalmente partecipe. Anche quando diventa fragorosa e potente, la musica di Pärt si basa su una forza che emerge dal suo interno piuttosto che essere imposta dall'esterno. Gli studenti di canto vengono spesso incoraggiati a cantare forte, non attaccando e forzando la voce, ma facendo uscire il suono dal punto in cui lo sentono sostenuto  internamente. Questa osservazione tutt'altro che originale, e con la quale hanno famigliarità tutti gli insegnanti di canto, può  essere applicata dai direttori alla musica di Pärt.
La musica risuona con maggiore forza quando è perfettamente intonata, e questo è particolarmente importante con la musica di Pärt, centrata sulla triade tintinnabulante. Quando la triade è ben intonata, i suoni che la costituiscono vibrano anche per simpatia e le altezze che non fanno parte della triade (eche danno alla musica la sua nuance) possono raggiungere il massimo effetto. Generalmente, se le ottave, le quinte e le quarte sono ben intonate, il resto viene da sé. I maestri di coro hanno i loro metodi per ottenere questo risultato; tuttavia, io suggerisco che è meglio se i cantanti imparano a riconoscere l'effetto che producono i principali intervalli quando sono perfettamente intonati. Anche questo si ottiene usando un vibrato minimo. Nei passaggi cromatici della musica tonale, che comportano un uso funzionale della dissonanza, le ambiguità d'intonazione causate da un vibrato eccessivo vengono in parte mitigate dal flusso della musica. Naturalmente, si tratta di una questione di gusto e di senso della misura: l'effetto avvolgente, creato da un vibrato eccessivo, produce un suono diverso da quello di un coro che canta con un vibrato minimo. L'aspetto stilistico del problema, che richiede particolare attenzione, è il vibrato involontario che molti cantanti introducono su qualsiasi nota lunga. Lo fanno perché è stato loro insegnato. Questo manierismo vocale è così radicato che molti cantanti lo fanno senza accorgersene. Comunque sia, in un lavoro come il Magmfícat di Pärt, quel vibrato può produrre risultati deplorevoli. In ogni frase le sillabe accentate - per esempio, magNIficat Anima MEa DOminum - sono notevolmente più lunghe delle altre; se anche queste ricevono la tipica quantità di vibrato in  eccesso che molti cantanti applicano (senza pensare), allora il risultato musicale sarà distorto.
Nella musica di Part l'equilibrio e la fusione sono influenzati da due considerazioni derivate dallo stile e dalla tecnica tintinnabuli. Le voci T, che percorrono l'ambito della triade in modo ascendente e discendente, devono talvolta affrontare salti insidiosi che richiedono ai cantanti un attento esercizio. Non è insolito imbattersi in sillabe atone che sgusciano fuori (alla lettera!) su suoni acuti o in sillabe accentate che si perdono su suoni gravi e più deboli. I cantanti delle voci T dovrebbero cercare di fraseggiare la loro parte con la medesima naturalezza dei cantanti delle voci M e, nell'organizzare l'intonazione generale e l'equilibrio degli accordi, il direttore dovrà puntare su questo risultato. Talvolta la voce M deve sovrastare leggermente la voce T, quanto basta per riflettere le relative funzioni delle voci, e il procedimento non richiederà alcun adattamento da parte degli esecutori, se essi sono consapevoli del principio generale. Capita però che sia necessario ribadirlo. Per esempio, nel Tribute to Caesar, le parole dei farisei, quelle di Gesù e la voce narrante sono disposte in maniera leggermente diversa. I tenori (farisei) iniziano una sequenza di voce M alla battuta 15 che risale gradualmente entro il proprio ambito, passa ai contralti alla battuta 17, raggiunge i soprani alla battuta 29 e vi resta fino alla fine della loro parte alla battuta 39. Questa linea si ritrova a specchio (dalla tredicesima battuta) nei bassi. (Così l'intera sezione dei farisei inizia con un Fa grave e termina con un Fa acuto.) Le parti T, più statiche, dovrebbero essere equilibrate per far passare la sequenza M, e addirittura, quando T e M convergono su certe altezze (per esempio, Mi alla battuta 17, Si alle battute 29-30), l'equilibrio dovrebbe essere mantenuto sia per quanto attiene agli accordi dati, sia per la percezione complessiva della linea M.
Gran parte della musica di Pärt è in tempo lento e le note sono facili da capire, nel senso convenzionale del termine. Eppure, ho spesso trovato utile provare a tempi ancora più lenti e far conoscere al coro con gradualità ogni parte del lavoro. In  parte per instillare nei cantanti la consapevolezza delle sottigliezze armoniche della musica, in parte perché ritengo che la musica possieda una densità espressiva che rischia di sfuggire se ci si limita a cantarla a velocità normale.
Le varie incisioni fatte sotto la guida del compositore, o almeno in sua presenza, sono considerate autorevoli perché insignite della sua approvazione; tuttavia, non andrebbero prese come oro colato. È istruttivo confrontare versioni differenti del medesimo pezzo registrate in presenza dell'autore. Ritengo che da tutte queste esecuzioni si possano trarre “autorevoli” suggerimenti dei quali gli altri interpreti dovrebbero servirsi nel preparare la propria esecuzione. Durante la mia esperienza di lavoro con Pärt ho seguito un metodo consistente in un'esplorazione del lavoro (spesso a tempo rallentato) per definire il suono appropriato alle sue caratteristiche; poi, quando il lavoro era, per così dire, messo a fuoco, il compositore si allontanava lasciando il resto agli esecutori.
Le incisioni forniscono un utile riferimento per la scelta dei registri d'organo. Nelle opere più brevi i registri sono fissi e riflettono direttamente la disposizione a strati delle voci del coro. L'incisione di Passio rivela una grande varietà di coloritura d'organo, modellata sul significato del testo e non strettamente legata ad astratte costruzioni musicali.
Lo stile musicale di Pärt appare privo di gestualità retorica individuale, almeno per quanto riguarda gli esecutori. La gestualità espressiva, laddove la si riscontri, è implicita nella musica stessa. Eppure, quest'ultima reclama un canto adeguatamente espressivo. In un mio libro ho cercato di spiegare come la tradizione pittorica russa delle icone possa servire a illustrare un elemento fondamentale della musica di Pärt; specialmente la sua natura espressiva e il suo significato spirituale. E' come se l'opera musicale fosse essa stessa un gesto, pur non contenendone alcuno all'apparenza. La musica di Pärt ci rimanda a quella tradizione, nonché al mondo europeo preclassico del gregoriano e della polifonia sacra. Ciononostante, essa si serve di cori e orchestre, viene suonata nelle sale da concerto e deve confrontarsi con tutte le insidie del business musicale di oggi. Tutto questo rende talvolta difficile trovare degli ambienti adeguati alla particolare qualità di questa musica. Considerando la natura della musica tintinnabuli - che dovrebbe restare a lungo sospesa nell'aria  -la scelta di luoghi appropriati, soprattutto per quanto riguarda l'acustica, non è affatto secondaria, e accade inoltre di rado che gli interpreti possano decidere dove eseguirla. Indubbiamente, la musica di Pärt  sprigiona la sua bellezza in un ambiente adatto. Gli esecutori scopriranno, pertanto, che lo spazio acustico diventa parte della composizione, o addirittura lo strumento dentro il quale far risuonare la musica.
Paul Hillier
Bloomington, Indiana, gennaio 1999
(Traduzione di Maria Clara Pasetti)

giovedì, luglio 11, 2024

Georges Cziffra: un voto indissolubile

Georges Cziffra (1921-1994)
In omaggio al Maestro ungherese scompar
so il 15 gennaio di quest'anno riproduciamo qui quella che è stata probabilmente l'ultima intervista rilasciata alla stampa, originariamente pubblicata assieme ad altri due articoli in un ampio servizio giornalistico di Erik Pigani dal mensile francese Le Monde de la Musique n.151 di gennaio 1992.

Nel corso della Sua carriera la stampa ha spesso fatto circolare l'immagine di uno Cziffra insieme prodigiosamente dotato e forsennato lavoratore. Quale peso relativo Lei attribuisce ai due fattori: talento e lavoro?
Non saprei precisarlo. È difficile dare una valutazione. Diciamo che il talento non può svilupparsi senza il lavoro. Contrariamente a ciò che alcuni hanno potuto immaginare, io non passo le mie giornate a far correre le dita sulla tastiera senz'altro scopo che la ricerca del virtuosismo. Non è così. Tutto dipende dall'etichetta che mi hanno appiccicato fin dal mio arrivo in Francia, con espressioni iperboliche come "mago del pianoforte", "reincarnazione di Liszt”, "prodigio diabolico"  e lasciamo stare il resto. Invece di onorarmi, questo eccesso di complimenti mi sconcertava molto. Mi feriva, a volte. Sono soltanto un essere umano! Per un pianista normale il vero lavoro consiste in un giusto equilibrio tra lo spirito e la fisicità, una perfetta coordinazione tra il gesto e il pensiero.
Può raccontare qualcosa del Suo lavoro tecnico?
Gli esercizi muscolari, la tecnica, il rilassamento, il controllo stanno alla base della pratica di uno strumento. Ci si dimentica troppo spesso che far musica è un lavoro fisico. Potrei spiegarLe che è necessario possedere delle dita estremamente solide per sostenere il peso delle braccia e delle spalle, le quali devono essere completamente libere e decontratte. Ma questo non Le servirebbe molto... Per parte mia, il mio vero interesse lo riservo unicamente ai problemi di interpretazione.
In che modo allora Lei si avvicina ad un'opera?
Con un'opera nuova comincio a studiare la partitura senza nemmeno toccare il piano, magari per la durata di due o tre settimane, perché ho paura di non comprendere il messaggio dell'autore....
Di non rispettare lo stile?
Sì; per ciò che mi riguarda lo studio dello stile è un problema che oltrepassa di gran lunga il puro dato tecnico. Per ogni compositore cambiano lo spirito e il linguaggio... Che si tratti di Chopin, di Debussy, di Schumann o di altri, ognuna delle loro composizioni è un messaggio di estrema importanza. E questo messaggio non è destinato soltanto al presente, ma anche a tutte le generazioni future. E non unicamente a beneficio di pochi privilegiati o raffinati melomani, ma di tutti gli uomini... Questo messaggio bisogna saperlo rendere, interpretare...
Con la Sua propria personalità...
Sì, certo, appunto perché sono un essere umano! Posso tuttavia aggiungere qualche cosa che forse non è generalizzabile per tutti i pianisti: quando io lavoro su di un'opera dimentico lo strumento, Completamente. I problemi materiali, la tecnica e il pianoforte scompaiono. Lavoro unicamente con lo spirito.
Per comprendere ciò che il compositore ha voluto dire?
No, non per "comprendere". La cosa avviene ad un altro livello. Prendiamo ad esempio il Valzer in mi minore (opera postuma) di Chopin. Spesso ho sentito dire che questo lavoro si fonderebbe più sul virtuosismo che non sul sentimento musicale o artistico. Secondo me è sbagliato. Ogni volta che studio, che interpreto questo piccolo gioiello, ho l'impressione di venire trasportato nel paese fatato della mia infanzia. Questo tipo di visioni non sta certo scritto "fra le note", ma emerge invece dal più profondo di me stesso.
Allora lei fa riferimento a dei ricordi personali che non è detto debbano evocare le medesime immagini per un ascoltatore...
Certo che no! L'arte dell'interprete dovrà consistere appunto nel comunicare i suoi sentimenti più profondi, anche senza una riproduzione delle immagini esteriori. Prendiamo un altro esempio: nello studio "La Rivoluzione" di Chopin si possono suonare le doppie crome del tema esattamente come stanno scritte, nel rispetto assoluto del tempo metronomico. Sarà sempre musica, ma non certo un'interpretazione. Per esprimere la rivolta, la passione di questo studio, io lascio che le note esistano ciascuna per se stessa, senza mettere in campo le doppie crome, così come fa un gran numero di pianisti... col pretesto che in fondo sono soltanto delle doppie crome! Non è una visione unicamente "personale". Essa mi sembra piuttosto universale e umana!
È ciò che si chiama "la visione dell'artista"?
Sì, se Lei vuole... Ma, per spingerci più in là, io ho l'impressione che attraverso la carta si diffonda una specie di fluido, un messaggio che io posso "captare". È possibile che gli artisti, gli interpreti, siano collegati in maniera intuitiva ai compositori, o quanto meno al loro pensiero. La partitura non è se non un supporto materiale che consente all'essenza dell'opera di attraversare i secoli. Questa è sempre là, nella sua realtà vivente. Basta saperla decifrare, non solo con le note, ma col  cuore. Credo che sia tutta una questione di cuore.
Lei è credente?
Assolutamente si. Senza spiritualità una filosofia musicale diventa una forma di ateismo arido, assai prossimo al nichilismo... Io credo in Dio, alle forze universali della Natura, ed è questo che guida la mia vita e mi protegge.
E come decide lo stile che adotterà?
Io non decido nulla: è una cosa che accade o non accade. Non si tratta di lavoro, di analisi o di riflessione, ma di un sentimento interiore assai profondo. Vede, della musica si può dare una certa definizione; ad esempio: "L'arte di combinare i suoni secondo date regole." È una formula banale, che ha l'unico effetto di tranquillizzare lo spirito, poiché nasconde l'essenziale. In tal modo si dimentica la causa invisibile, quella specie di sesto  senso dal quale nasce l'ispirazione.
Ci sono dei lavori che un tempo Lei amava ascoltare, ma per i quali quella "cosa" non è mai accaduta, e che Lei in seguito ha  scartati?
Certamente. Alcune partiture le ho abbandonate del tutto. Nutrivo su di esse delle illusioni che sono cadute quando ho cominciato a studiarle. È normale...
E dopo di questo Lei comincia a suonare?
Vorrei anzitutto precisare che io non suono mai: io interpreto. Quando affronto l'interpretazione di un'opera, lavoro molto lentamente, con la massima concentrazione possibile, per dominare i riflessi, controllare i minimi movimenti di ogni dito, memorizzarli. Due o tre giorni più tardi metto via la partitura e continuo a lavorare con la massima intensità possibile, per esercitare la memoria.
Lei ha un metodo particolare per memorizzare?
Non so se si tratta di un "metodo". Io possiedo una buona memoria auditiva e anche una buona memoria visiva: riesco a "vedere" la partitura. Così - giusto per verificare se ho assimilato a dovere l'opera - suono di seguito tutte le pagine dispari, e poi tutte quelle pari...
Dunque l'essenziale è lavorare lentamente?
Ciò potrebbe valere allo stesso modo per il violino o per gli altri strumenti. Quindi accelero progressivamente il tempo realizzando movimenti sempre più veloci fino a quelli definitivi che rimarranno gli stessi sia che io li esegua in concerto o a casa mia.
Lei compie un grosso volume di lavoro tecnico preparatorio?
No. Niente scale, né arpeggi o esercizi senza fine. Questo potrà magari sconcertare gli insegnanti di pianoforte tradizionali: a condizione di aver già risolto e assimilato l'insieme dei problemi di base del pianismo, tutta la tecnica si trova all'interno delle opere. A me interessano molto di più le difficoltà create dalla forma della scrittura. Una volta lessi una frase analoga di Alfred Cortot, che mi colpì molto... Naturalmente è una teoria, e come tutte le teorie non ha valore assoluto!
Quando si lavora "sul campo" si impara il mestiere, cioè ad interpretare, e non a far correre le dita sulla tastiera costi quello che costi, a tutta velocità e in modo privo di senso.
E quando Lei lavora, Le torna in mente qualche insegnamento dei suoi maestri di un tempo?
No. Ho abbandonato tutte le vecchie teorie...
Nessun ricordo?
Non c'è niente da ricordare... Nel 1956-57, al mio arrivo a Parigi, avevo appena 35 anni, emi fu richiesto brutalmente di essere un pianista completo, capace di suonare di tutto, in tutti gli stili, e ciò senza tener conto del  mio passato, della mia infanzia, dei lunghi periodi durante i quali non avevo potuto lavorare. Mi sono reso conto di fino a qual punto io fossi un emarginato nell'ambiente musicale. Allora ho cercato di incontrare dei maestri, degli insegnanti che mi potessero guidare sulla strada del pensiero musicale prêt-à-porter. Fatica sprecata! Non avevo problemi tecnici... Si trattava piuttosto di integrare la mia sensibilità individuale con quella maestria tecnica che era la fonte dei  miei problemi - e questo non si impara, non si può analizzare...
È possibile che i Suoi periodi di prigionia durante la seconda guerra mondiale, gli anni nei quali Lei non ha toccato uno strumento, La abbiano obbligata a fuggire dal passato per trovare quello che c'era in Lei di fondamentale: un'intuizione fuori del comune?
È possibile.
Ad un certo punto il direttore del Conservatorio di Parigi Le aveva chiesto di venire ad insegnare, e Lei ha sempre rifiutato.
È vero. io non sono un professore. Insegnare il pianoforte è un mestiere, e comporta una responsabilità enorme. Ma quando vedo un giovane artista in difficoltà mi viene voglia di aiutarlo, in ricordo dei miei anni di pane nero e di silenzio forzato. Ecco perché ho creato la Fondazione Cziffra. Allora organizzo -ma sempre più raramente - delle master classes. Di fatto io non tengo dei corsi, ma do dei consigli. In primo luogo per trasmettere le mie concezioni. In secondo luogo, e soprattutto, per consentire ai giovani di evitare le sconfitte che ho dovuto subire io. Spiego loro ciò che non bisogna fare, poiché so per esperienza che è inutile.
Lei consiglia anche ai genitori di lasciare che i bambini possano suonare e improvvisare prima ancora di imparare a leggere le note...
Sì. Non credo che ad un principiante questo possa nuocere. Preoccuparsi degli aspetti pratici e sonori piuttosto che della teoria favorisce lo sviluppo dei riflessi manuali sulla tastiera. Questo significa vivere la musica, provarla in se stessi prima di analizzarla. Io ho cominciato in questo modo.
Lei aveva appena tre anni quando una malattia La costrinse a rimanere a letto per un certo tempo. Lei osservava Sua sorella Yolanta che lavorava al pianoforte, riproducendo sotto le coperte i movimenti delle sue dita. Prima ancora di sedersi per la prima volta davanti al pianoforte, un anno più tardi, Lei aveva visualizzato quei gesti. Dunque aveva un modello!
Certamente! Ma non stavo copiando. Anche le scalette, i piccoli esercizi che ascoltavo, li interpretavo già a modo mio.
Mi domando se l'aver cominciato con la visualizzazione non abbia innescato in Lei quel tipo di virtuosismo naturale.
Probabilmente è così. Tanta gente; professionisti, giovani, dilettanti, non hanno mai smesso di domandarmi il mio "segreto". È il lavoro..
Eppure Lei ha scritto: "La mia evoluzione musicale ha seguito un percorso insieme occulto e irrazionale".
Sì, è esatto. E continuo a pensarlo. Certi aspetti dello spirito umano non possono essere spiegati razionalmente. Il talento è uno di questi. E io credo che l'improvvisazione sia l'atto musicale fondamentale, poiché la creazione istantanea permette di innescare un processo di auto-superamento. Allora ho l'impressione di entrare in fusione con me stesso, come se il mio corpo divenisse incandescente. Ogni volta un po' di più. Qui non si tratta di un "sistema", ma piuttosto di uno stato esistenziale.
E la personalità... Qual è la Sua definizione di un artista?
È difficile. Davanti al suo pubblico un vero interprete diviene l'amplificatore di un campo magnetico. Ha "carisma", come si suol dire. Tuttavia io non so come spiegare questo fenomeno, che sembra far parte della personalità. Sfortunatamente, se uno non ha personalità non può né trovarla né fabbricarsela! È un'opinione personale, ma nell'ultima generazione di musicisti io sento dei pianisti e dei violinisti meravigliosi; tutti dotati di una tecnica pressoché irreprensibile, eppure la loro interpretazione è anonima. Suonano perfettamente, ma non interpretano. Ho sempre l'impressione che manchi qualche cosa. Dov'è l'Arte? Dov'è l'ispirazione? Sono un po' pessimista a questo riguardo.
Perché?
Forse ne ha colpa la nostra epoca. Regna la tecnologia; l'uomo va sulla Luna, parte per la conquista delle stelle. Io preferisco restare qui, sulla Terra, dove sono nato. Amo la mia condizione di essere umano, limitato, ma capace nel contempo di abbracciare l'infinito.
Lo strumento pianoforte rappresenta forse un limite a quello che Lei vuole esprimere?
Lo ignoro, del tutto. Lo suono, naturalmente; eppure sto in ascolto dentro di me, percepisco le mie reazioni. Il piano è per forza di cose limitato, perché di natura materiale. Il mio linguaggio è fatto di suoni, non di legno! Quando interpreto sono assolutamente libero. E quando tocco il legno io ascolto e percepisco il compositore,
Qualche volta Le è stata rimproverata la scelta dei Suoi strumenti. Perché ha scelto la Yamaha, piuttosto che un'altra marca?
lo non l'ho scelta, mi si è imposta naturalmente. Ero andato in Giappone per una  tournée: alla fine del concerto, subito prima di lasciare quel paese, due responsabili della Yamaha sono venuti a farmi visita al mio albergo per domandarmi se potevo andare a visitare la loro fabbrica. Questo accadeva agli inizi della loro attività. Sono andato, e  ho visto un immenso laboratorio, superbo, con 70 pianoforti gran coda. Davanti ad ogni strumento un ingegnere in tuta blu stava ritto sull'attenti come un soldatino... Dietro loro richiesta mi sono seduto davanti a qualche strumento, e sono rimasto colpito dalla loro qualità. E tuttavia mancavano ancora di un timbro, di una individualità tutta loro. Ho fatto qualche osservazione e dato dei consigli. Due anni più tardi questi pianoforti sono stati importati in Francia. Mi hanno chiesto di provarli ancora. Sorpresa! Non solo avevano ascoltato i miei consigli, ma ne avevano anche tenuto conto. E sul piano avevano inciso: "Modello Cziffra"! Ho formulato delle altre osservazioni. La versione definitiva è quel superbo strumento col quale ho dato i miei concerti e che ora occupa trionfalmente il palcoscenico dell'Auditorium Franz Liszt.
Lei si occupa sempre personalmente del Suo pianoforte?
Per l'accordatura e per qualche piccola messa a punto, sì. Sono abbastanza maniaco... ma non troppo.
E quando entra in scena, Le viene il panico?
No; secondo me il panico è sinonimo di dubbio e rivela una carenza tecnica o spirituale. Prima di un concerto sono molto nervoso perché so di dover dare il meglio di me stesso. Il panico si dissolve nel momento stesso in cui entro in scena; lo metto sotto controllo. E non solo col cervello, ma con tutto il mio essere, e soprattutto col cuore. Vedete, anche per me entrare in scena è un atto di coraggio. È in questo istante che risiede la fragilità  dell'interprete. Quando si porta un messaggio, consegnarlo ad un'ora stabilita, a volte fissata con degli anni d'anticipo, è un paradosso che oscilla tra il rito religioso e il supplizio di Tantalo... Per fortuna un concerto è un atto d'amore. Allora dimentico tutto: il pianoforte, lo smoking, la sala. Creo la pace dentro di me, e arriva l'essenziale: la gioia di sentire il pubblico che entra in comunione con me nello stesso amore per la musica. Un momento unico, ma estremamente faticoso. È per questo che ho limitato il numero delle mie esibizioni. In ogni caso sono contro la fabbrica del pianismo...
È sempre Lei a scegliere i suoi programmi?
Sì! Mettere insieme un programma è come costruire una casa, un atto di per se creativo. Ma oggi ho cessato qualunque attività. Ho passato sulla scena cinquant' anni della mia vita. È molto. E io non lavoro praticamente più. Sì, interpreto, improvviso per i miei amici, in famiglia. Ma non più in pubblico.
È semplicemente una questione di lavoro?
No. Non ci sono problemi tecnici, è una questione di decisione interiore, profonda. Essere musicista è più di una religione: è una disciplina, un voto indissolubile.
Erik Pigani (traduzione: Carlo Vitali)
("Symphonia" N°  37 Anno V, Aprile 1994)

lunedì, luglio 01, 2024

Intervista a Blandine Verlet

Naive E 8805 (p) 2000
Perché un'altra registrazione dedicata a Froberger?
Questo non è un ritorno a Froberger... In effetti, è sempre stato con me. La mia prima registrazione di Froberger è arrivata dopo un Couperin e dopo un Frescobaldi. Tutti e tre si incontrarono: Froberger lavorò con Frescobaldi. Froberger e Louis Couperin si citano spesso a vicenda e tu puoi sentire tra loro straordinarie affinità... Dopo aver registrato un'altra versione dell'opera completa per clavicembalo di Louis Couperin, mi è sembrato naturale tornare a questa musica: pulsa nelle mie vene, come immagino pulsa nelle vene di chiunque abbia avuto la fortuna di conoscere davvero Froberger. In effetti, Froberger era una scelta ovvia...
Il programma che hai registrato è completamente nuovo. Come hai scelto i pezzi?
Questo non è il Froberger dei Tombeaux o delle Lamentazioni, cioè il Froberger che coltivava capricci ritmici, colori cupi alla Caravaggio. La colorazione dei pezzi che hanno attirato la mia attenzione è segretamente untranquil, prendiamo ad esempio le due Allemandes, una è all'inizio e l'altra alla fine del programma.
Ho sempre puntato dritto agli aspetti toccanti e strazianti di Froberger. Mi colpì per essere un grande solitario, una figura “romantica”, sempre in movimento, in contrasto con il mondo, che vive ai margini – un misto tra Gérard de Nerval e Jean Genet. Ma ha anche un lato molto severo: una concisione che ho sempre sentito. Per illustrare il lato più libero di Froberger, ho incluso solo un pezzo, Lamentation sur ce que j'ai été vole... - una pura meraviglia. Si adattava molto bene all’unico pezzo di Froberger pubblicato mentre era in vita: la cosiddetta “fantasia esacordata”, che costituisce il cuore di questo programma. Su un tema di sei note ascendenti (CDEFGA) costruisce la polifonia, come avevano fatto prima di lui i suoi grandi predecessori Byrd, Bull... i virginalisti inglesi. La Fantasia è un vero capolavoro: un'opera di grande abilità, sorprendente nella sua perfezione e bellezza; il primo pezzo che ritenne degno di pubblicazione. In una sorta di costante ritegno emerge tutta una ricchezza di vibrazioni, di sentimenti, ancora più forte che nelle sue opere parossistiche. È stato estremamente arricchente per me essere costretta a suonare con tale ritegno, con tale moderazione, con una musica che non era e né aveva alcuna pretesa di essere espansiva. L'ho trovato meraviglioso.
Come spieghi il continuo andirivieni che si riscontra in Froberger, tra una scrittura parossistica e fantastica e una scrittura più concisa, più densa nella struttura?
Queste due tendenze erano parte integrante dell'opera di Froberger: una miscela di contrappunto rigoroso, polifonia vocale applicata allo strumento e di "style fantastique" - un movimento completamente nuovo, derivante dal madrigale, fin dai primi giorni dell'opera, con le colorazioni mutevoli note come affetti ("affetti", emozioni). Froberger, che ha dedicato tutta la sua opera alla tastiera, gestisce il tempo, le sue pause, le sue derive, con un'armonia audace e ricca, ma anche con conclusione e rigore musicale. Ha creato un linguaggio straordinario.
Quest'uomo ha aperto la sua mente, ha spinto indietro i confini del tempo. Ha rifiutato di limitarsi. Era consapevole del mondo in generale; e ha accolto con favore ogni possibile influenza. E l’apertura della mente gli ha permesso di concentrare i suoi sforzi e raggiungere così l’universalità. È ancora all'avanguardia fino ad oggi, sull'orlo del ventunesimo secolo.
Froberger spiegava raramente le sue opere e non si fidava degli interpreti: temeva il tradimento. Cosa ne pensi?
Penso che sia davvero magnifico: mostra quanto fortemente credesse nell’interpretazione. Perché temere gli interpreti significa credere nella forza dell'interpretazione. Un interprete può conferire la propria personalità a un'opera, soprattutto quando, come nel caso di Froberger, il compositore gli lascia ampio margine di manovra, quando dice "suona lentamente e come preferisci". La libertà che concede rende il lavoro dell'interprete ancora più ricco, anche se lui toglie quella libertà dicendo: "Non riprodurre le mie opere, perché ho paura che potresti rovinarle". Come interprete, ci si sente orgogliosi di interpretare la musica di un uomo che aveva una tale fede nell'interpretazione. E deve essere stato lui stesso un interprete favoloso.
Perché hai scelto di eseguire questi brani sul Ruckers del 1624 appartenente al Museo Unterlinden di Colmar, su cui hai effettuato le tue precedenti registrazioni di Froberger?
Senza tentare di giustificare la scelta di quello strumento, direi che se c'è una musica a cui si adatta perfettamente è quella di Froberger. Non dobbiamo dimenticare che Froberger, che era lui stesso organista e clavicembalista, ed era un costante viaggiatore, doveva suonare su ogni tipo di strumento, e probabilmente anche sui migliori, perché era rispettato e adulato come musicista. I clavicembali Ruckers circolavano in quel periodo tanto quanto lui. La famiglia di costruttori di clavicembali Ruckers godeva di notevole fama, costruì molti strumenti e dimostrò un'intelligenza eccezionale nel garantire che arrivassero in quasi ogni angolo d'Europa. Froberger deve aver suonato strumenti di Ruckers, ma non è questo il punto. Questo Ruckers del 1624 ha una sorta di profondità e pienezza, ma allo stesso tempo una grande fragilità, qualcosa di elevato e molto lucido, una finezza estrema. Mi sembra che queste qualità facciano risaltare meravigliosamente il suono di questa musica, anche se si potrebbe immaginare che venga suonata su altri strumenti. Adoro questo strumento e adoro suonarci Froberger. Ci ho anche registrato il Clavicembalo ben temperato di Bach. È abbastanza omogeneo, perfetto per la polifonia. Le note basse sono davvero molto basse, il registro medio è molto caldo e le note alte sono fragili... tutto questo mi piace immensamente. Quando tocchi lo strumento, senti di poter “domare” il suono. Alcuni strumenti si offrono, ma non questo. Con i Ruckers il suono è duttile...
In realtà con ogni strumento diverso si fa emergere qualcosa di diverso nell'opera... E sapevo che avrei potuto trovare quello che cercavo in Froberger con questo clavicembalo. Ma anche l'ambientazione, il fatto che la pala d'altare di Grünewald sia proprio al piano di sotto e il clavicembalo circondato dall'arte germanica, anche questo è stato importante...
Dove si colloca Froberger nel tuo pantheon personale?
Se si mettesse Bach su uno scaffale, probabilmente lo si collocherebbe accanto a Shakespeare e Leonardo da Vinci. Non so a chi si metterebbe Couperin accanto... Forse si metterebbe Froberger accanto a Baudelaire, Nerval, Rilke, Bachelard. Non è un gigante; è una persona profondamente umana, con debolezze umane e la capacità di mantenere i piedi ben piantati per terra. Quello che volevo era un Froberger senza nessun dettaglio banale, segreto. Anche se penso che opere come Tombeau, fait à Paris sur la mort de Monsieur Blancheroche siano capolavori assoluti...
Ciò che emerge dal mio lavoro su Froberger è la sua umanità. Con Froberger, più che con qualsiasi altra musica che conosco, hai la sensazione che il compositore capisce davvero cosa significa essere umani. Esiste un film con un titolo meraviglioso: “L’uomo che sussurrava ai cavalli”... Froberger potrebbe essere descritto come “l’uomo che sussurrava”? la sua musica sussurra agli esseri umani. Ti entra davvero nel flusso sanguigno. Più ascolto questa musica, più mi rendo conto che il miglior consiglio che posso dare a qualsiasi ascoltatore è: "Sdraiati sul pavimento e ascolta questa musica come prenderesti dell'oppio, come ti ubriacheresti o come faresti se parlassi con qualcuno che ami davvero...'
Blandine Verlet
(da un'intervista del 24 giugno 2000, contenuta nel booklet del CD)