Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 13, 2025

Edwin Fischer dalle molte anime

Edwin Fischer (1886-1960)
Il portello del palcoscenico si apre, ed Edwin Fischer ir
rompe sulla scena: cinghialotto che la musica attira come una battaglia o un incontro d'amore, la traversa di corsa per metà, scavalca a saltini la pedana del direttore d'orchestra, si ferma tarchiato e sodo al fianco del pianoforte, come un artigliere al fianco del pezzo; e il primo pezzo comincia maestosamente a sparare, il Concerto in re minore per pianoforte e orchestra di Wolfgang Amadeus Mozart.
Ogni pianoforte andrebbe fabbricato a somiglianza del pianista che lo suona; onde non il pianoforte basso e lungo sul quale domenica scorsa Edwin Fischer «lavorò», ma un pianoforte più breve e tarchiato: non un Rorquale di Sibbald insomma, o balaenoptera musculus di trenta metri di lunghezza, ma un fisitero pigmeo, o Kogia breviceps, di quattro metri al massimo.
Se nell'abate Liszt siamo tutti concordi a riconoscere il tipo fisico del pianista, cioè a dire l'uomo che non solo è fornito di braccia lunghissime e spezzate in più articolazioni del normale, ma dispone anche di braccia in soprannumero che gli consentono di sonare da solo a quattro mani, dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è; lui che nelle membra non ha lo sviluppo diabolico dell'abate, ma un corpo intasato e a cartuccia; non le scheletriche mani del grande Franz, ma due mani rotondette che per natural tendenza si arrotondano anche più nel pugno, e lasciate pendule in cima alle braccine robuste ma brevi, non oltrepassano la falda della giacca essa pure cortissima. Dobbiamo dire che Edwin Fischer pianista non è, anche se il pianoforte egli certamente lo suona meglio e con più serietà dell'abate Liszt, come argomentiamo non da una nostra esperienza personale, ma da quanto ci narrava nostra madre, che udì l'abate prima tenere un'accademia a Firenze in una sala tutta bianca e oro, poi lo riudì a Odessa, una notte che anche il Mar Nero si era messo a dare un fragoroso récital, dietro una camerata di caserma che bandiere e festoni di carta invano si sforzavano di trasformare in sala da concerto.
Mar Nero è la traduzione del turco Karadeniz, che i Turchi chiamano così per le frequenti tempeste che agitano questo mare; i Greci invece chiamano il Mar Nero Ponto Eusino, che significa «mare ben ospitale». Si crede generalmente che soltanto le cose metafisiche consentono la varietà delle opinioni; ecco invece che anche una cosa tutta fisica come il mare...
E veramente Edwin Fischer pianista non è, se per pianista s'intende un uomo solitario e in frac, a tu per tu con un pianoforte esso pure solitario e in frac; per meglio dire Fischer è pianista multiplo, che vuole sonare e assieme dirigere, far cantare o martellare a stormo il pianoforte che gli sta davanti, e assieme far cantare o martellare a stormo gli strumenti che gli stanno intorno, animando e guidando con l'occhio, con l'alfabeto delle dita, con le spallucce in tumulto anche quelle macchine di suoni cui le sue braccia troppo corte non possono arrivare.
Costretto al solo pianoforte Edwin Fischer bolle e sussulta d'impazienza, si afferra ora una mano ora l'altra per impedire a quelle frementi radici di carne di compiere qualche atto inconsiderato, si tiene stretto alla sedia come Prometeo alla rupe, per non saltar su e mettersi a sonare «personalmente» gli strumenti dell'orchestra, e non uno a uno ma tutti assieme.
Guardavamo l'ansiosa attesa di Edwin Fischer, durante la lunga introduzione del concerto di Mozart, e soffrivamo della sua sofferenza. Ma non fino all'ultimo fu forte Edwin Fischer. Ogni tanto al richiamo dei temi più cari, Fischer non riusciva più a frenarsi, e «toccava» la tastiera, mescolandosi dietro un fortissimo dell'orchestra, come in mezzo a una folla si manda un segreto bacio alla donna amata. Forse l'impazienza di Fischer sarebbe stata men dura, se fosse stato attaccato il concerto con maggiore energia. Come tutti i ragazzi, anche Wolfgang Amadeus voleva fare il grande: e l'introduzione del Concerto in re minore è uno dei momenti in cui più viva è la patetica, la commovente volontà di questo «eterno fanciullo» di mostrarsi grave e importante. Chi lo sa? Nella voce di quel tema imponente, Mozart sperava di mostrarsi «uomo» alla sua Costanza, e che importa se questo Concerto Mozart lo scrisse nel 1785, quando apparentemente egli sembrava adulto? Onde noi crediamo che questo «momento» richiede la baldanzosa, la forzata energia di un ragazzo che per mascherarsi da grande, si è dipinto col tappo affumicato alla fiamma della candela, due baffi in mezzo alla faccia rosea e paffuta.
Non meravigli se i panni stanno così stretti addosso ad Edwin Fischer. Conosciamo uomini pieni di anima e tutti polso e pulsanti dalla cima dei capelli alla punta dei piedi (così doveva essere Chopin quando sonava per il diletto di Honoré de Balzac, grasso e peloso), ma uomini di tante anime ne conosciamo uno solo: Edwin Fischer. Anime che quando le manine del loro padrone ballano in tempesta sulla tastiera, son buoni tutti ad accorgersi che sono tante e tutte animate di un'energia da Eumenidi; ma non calano di numero quando Fischer comprime le dita a due sole sottilissime voci, come nel secondo tempo del Concerto di Mozart (in questo sospiroso sogno di un fanciullo) o anche a una unica voce, come nel «tranquillo» della metà del primo tempo del Concerto in do minore di Beethoven; perché in quelle due sole voci, in quell'unica voce sono riunite e attorte a filo tutte quante le anime di Fischer con tutto il loro ardore, con tutta la loro poesia, come nel segno solitario di un Raffaello sono riuniti i molti segni di un Tintoretto.
Alberto Savinio
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

martedì, dicembre 02, 2025

Appunti sul Fidelio

Ludwig van Beethoven (1770-1827)
Quest'anno, la più grossa sorpresa registrata al Tea
tro dell'Opera di Roma è venuta dal Fidelio di Beethoven: che, in una «replica», ha fatto registrare il «tutto esaurito» (abbastanza raro a Roma, per chi non lo sapesse). Se a questo aggiungiamo che si trattava di una «replica» dedicata agli studenti, noteremo con piacere che quella parte del pubblico nella quale è lecito riporre maggiori speranze, si sta disancorando dalle concezioni estetiche negative e qualunquistiche che il disinteresse delle passate gestioni (del Teatro dell'Opera di Roma) aveva, a lungo andare, generato.
Andare ad ascoltare il Fidelio - che, fra l'altro, è opera di difficile assimilazione - significa impugnare la
percezione aproblematica cui il nostro orecchio, per colpa di incontrollate e semplicistiche «consumazioni» del repertorio melodrammatico latino, si era assuefatto, significa incanalarsi definitivamente nel filone del primo romanticismo, prendere visione pratica dell'applicazione dell'edificio gnoseologico ed etico dell'idealismo pre-hegeliano, e verificare la puntualità storica del primo musicista moderno «consapevole» a tutti gli effetti, cioè cosciente di muoversi in un mondo dagli imperativi estetici e morali perfettamente incastrati nell'edificio totale della sua cultura.
«Noi tedeschi abbiamo preso dalla filosofia il modo di dire "in sé" e lo usiamo in tutti i momenti senza pensare alla metafisica. Qui però quel modo c'entra, questa musica è l'energia in sé, l'energia in persona, ma non come idea, bensì nella sua realtà... Ecco: il più energico, il più vario, il più avvincente susseguirsi di fatti, di movimenti, tutti nel tempo, basati solo sulla definizione del tempo, sul rapimento e sull'organizzazione del tempo, eccotelo portato in mezzo all'azione concreta mediante il ripetuto squillo di trombe dietro il sipario... Il modo (...) in cui si arriva a un tema e il tema è abbandonato, risolto, mentre nella risoluzione si prepara qualche cosa di nuovo;... il modo in cui il ritmo si sposta con elasticità, prende la rincorsa, accoglie affluenti da diverse parti, si gonfia e travolge e scoppia in un trionfo rombante, nel trionfo personificato, nel trionfo "in sé"... ».
I motivi per cui abbiamo ricordato le parole che Thomas Mann mette in bocca all'eccezionalmente eccitato Adrian Leverkühn, sono molteplici. intanto inquadrano divinamente il Fidelio: e, se non fosse per il fatto che necessitano di una puntualizzazione storicistica (puntualizzazione implicita nella formazione profondamente umanistica di Thomas Mann, ma non nel lettore comune), potrebbero considerarsi senz'altro le più belle scritte sull'argomento. Eppoi, danno l'avvio a una serie di considerazioni che, da Beethoven, si allargano fino a comprendere tutto l'arco comunitario della Germania idealistica.
L'energia «non come idea, bensì nella sua realtà»: cioè la delimitazione della base da cui essa - l'energia - nasce, da cui deve svilupparsi, a cui deve tornare senza perdere la nozione dell'appartenenza fondamentale. Un «fortissimo», in assoluto, è energia: arrestarsi, però, a questo concetto equivale a concepire, per esempio, la libertà come la facoltà indeterminata di fare ciò che si vuole.
L'energia non è «natura» senz'altro: essa deve conquistarsi il diritto all'esistenza (poetica). Eccola, quindi, partire dalla base comune ,eccola enunciarsi, per esempio, tematicamente: il tema è acquisito, è comunicazione, è realtà percepibile, è umanità di partenza. Ma anche remora: pietra di paragone, cioè, che ogni sviluppo successivo deve tenere presente. È la categoria kantiana cui deve riferirsi ogni percezione sensibile.
La cultura moderna ci ha insegnato a tenere presenti, nel giudizio, due concetti complementari: il concetto dell'agire e il concetto del fatto. Il primo tocca la sfera morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - analisi, questi due concetti finiscono col convivere inscindibilmente nella presa di coscienza della totalità di una «cultura» e dei momenti individuali di essa. Momenti individuali che, nell'ottocento germanico, mostrano chiarissima la loro appartenenza dialettica al presente concepito come patrimonio reso attivo dalla consapevolezza del passato. Poiché il Fidelio è uno dei più perfetti esempii di tale azione culturale, possiamo soffermarci, in breve, nel dettaglio della sua struttura, così come appare da questo punto di vista.
La questione - del resto già da lungo tempo messa sul tappeto con ricchezza di particolari arguti - relativa alla «riuscita» del Fidelio in campo teatrale, ora non ci interessa. Né è nostra intenzione risolverla chiamando in causa - eventualmente come «rifiuto» - la struttura morale (o, in questo caso, moralistica) - dell'uomo - Beethoven.
Importa, soprattutto, mettere in risalto la posizione della «trama» in rapporto a quanto dicevamo sopra, e cioè al binomio costituito dall'agire etico e dal fatto estetico. Le parole, sopra ricordate, di Thomas Mann si riferivano essenzialmente all'ouverture Leonora n. 3-B, ma la diagnosi investe tutta l'opera. Si tratta, in altri termini, di prendere visione di un condizionamento, di una estrema - se vogliamo - ingenuità: di un ignorare le leggi del «teatro» (leggi mistificatorie, infine, della «sincerità assoluta»), di un livellare i personaggi, di uno schierarli tutti insieme, appaiati, sul piano di partenza dialettica e da questo piano dar loro vita a seconda delle direttive imposte dall'idea del testo letterario, idea accettata e svolta nel suo divenire e nella sua conclusione. Per carità: non si interpreti (come, però, qualcuno ha fatto) la parentesi sinfonica del secondo atto come una contrapposizione fra «bene» e «male». La dialettica di Beethoven prescinde da questa determinazione: il «bene» è superamento, il «male» è arresto, è stasi: esso non è presente, ma funge da stimolo etico, da guida per l'agire. Il tema, dicevamo sopra, è comunicazione, è base di partenza, è indifferenziato (quasi) nell'ossatura generale dell'edificio dialettico. Se restasse sempre tale, se ponesse la sua esistenza statica a base dell'azione («teatrale») successiva, scalzerebbe dalle fondamenta l'edifìcio totale beethoveniano, e si trasformerebbe in «male».
Il «male», dunque, esiste e non esiste. Esiste come spettro, come «altra soluzione»; non esiste perché quest'«altra soluzione» ce la possiamo solo figurare in sede postuma e ipotetica.
Ecco che il discorso - malgrado le nostre parole di sopra - ci ha involontariamente portato a una puntualizzazione circa il «teatro» di Beethoven. Un «teatro» che rapportato alle 'regole in uso' appare zoppicante e non certo arguto; un «teatro» che non pensa a concretare, a empiricizzare sulla scena il «male», a renderlo agente in base all'elementarità del contrasto scenico.
La trama - a parte il duetto amoroso di Marzelline e Jaquino che apre l'opera: un duetto simile a una tenera carezza di un boscaiolo sulla guancia di una damina diciassettenne - quasi scompare dinanzi a un esempio tanto grande di cultura unita sul piano speculativo e su quello comunicativo.
Beethoven è nella storia, nella sua storia; le caratteristiche semantiche ed etiche del «tema» concretizzano la sua appartenenza al mondo. L'opera è azione, cioè costruzione, incedere morale che impianta la sua dialettica fra «dato comune» (situazione di partenza) e fine da realizzarsi. E, di qui, parte il binomio suesposto. Una parte dell'impianto dialettico riguarda il suo agire speculativo; l'altra parte si tiene saldamente ancorata alla consapevolezza (passato-presente) che permette al pubblico, al suo pubblico, di seguirlo per mezzo del riferimento, basilare e continuo, alla base culturale di partenza: si identifica, cioè, col riversamento dell'oggetto, del momento ricercato, nella «forma» percepibile in quanto figlia della propria epoca, della propria cultura. La dialettica della «forma», intesa come calda realtà in movimento, è unione fra potenza e moralità speculativa, e disponibilità comunicativa: binomio, ripetiamo, i cui elementi si condizionano reciprocamente.
Chiarificato, dunque, il primo aspetto morale (quello che lotta per divenire forma, ma che non considera questa forma nella sua realtà scissa dall'alveo di formazione), dobbiamo ricordare il Fidelio da un'altra prospettiva, in apparente contrasto con la precedente.
Abbiamo visto la sua essenza rispondere perfettamente alla congiunzione determinata dal «valore etico del fare» e dal «valore estetico del fatto»: abbiamo visto, cioè, la moralità di pittura, la responsabilità della «forma» inquadrare il Fidelio in una dimensione artistica precisa e determinata. Potremmo scendere nel dettaglio: e rilevare, per esempio, come il «quartetto» del primo atto - con quelle «entrate» a canone che rafforzano la frase nella posizione da cui è partita - risolve la sua immanenza comunicativa con una «forma» musicale che non si conclude ma che resta sospesa, con incredibile psicologismo umano, a guardare l'immediatezza che incombe sui quattro protagonisti; come il monologo di Florestano si tiene fermo su un determinismo che implica il trascinamento dell'uomo prigioniero nell'«idea » della libertà solo nei limiti (le categorie kantiane!) apparsi nella delimitazione iniziale, nei limiti, appunto, di un uomo particolare che ha la sua battaglia e che a essa si attiene senza trascendere in un generico - universale - trasfigurante sin troppo facile... La pietra di paragone di tutto questo non è il «teatro», ma l'assunto che ci siamo sforzati di circoscrivere.
Vorremmo analizzare tutta l'opera, ma ci preme concludere la seconda parte del discorso che si riallaccia direttamente alla prima. L'eticità teleologica del Fidelio è nel piano speculativo. Si faccia attenzione: poco fa parlammo di moralità della «forma», cioè del risultato. Ora si parla di moralità del fare, di moralità speculativa. Che questa moralità, nel suo procedere, tenga presente la «categoria kantiana», è un fatto legato alla sua intima costituzione; ma che risieda, come forza primigenia, nell'aspetto speculativo, è un fatto parimenti fondamentale, un fatto in mancanza del quale la morale si ridurrebbe alla semplice comunicazione priva di ricerca, statica e accentrata sulla mera vicenda. Un fatto che toglierebbe al Fidelio la sua potenza di opera «morale» per rivestirla della qualifica di opera moralistica.
Non si contano, nell'opera di Thomas Mann, i riferimenti al Fidelio; e il fatto che sia, questa, un'opera della «libertà», non basta a giustificare tanto entusiasmo. Il concetto va approfondito quel tanto che basta a renderlo capace di centrare le ragioni intime di tale libertà: la libertà come movimento, la libertà da individuarsi e da conquistarsi, la libertà dialettica. Quando Thomas Mann scriveva il Doctor Faustus, il nazismo imperversava: e nazismo significò abolizione della dialettica, sviluppo - negatorio di tutte le modalità che avevano condizionato la storia dello spirito tedesco - di un qualcosa individuato e mai più messo in discussione. Per l'esule d'oltre Oceano, l'ethos di Beethoven applicato, nella sua apodittica chiarezza, a moduli che hanno sempre fatto fremere d'orgoglio l'uomo tedesco partecipe della vita interiore ed esteriore della sua Nazione, doveva rappresentare l'ideale di cammino non solo intrapreso con divina potenza e congruenza, ma ancor non distrutto dallo scetticismo minatorio di tutte le basi della cultura posteriore, dallo scetticismo emerso, dalle rovine del romanticismo, a colpire con una piccola, invisibile quasi, ma profonda incrinatura l'edificio dell'ultimo costruttore del e dal romanticismo.
Gianfranco Zaccaro
("Disclub" 6, anno II, aprile 1964)

giovedì, novembre 20, 2025

Maurizio Pollini: "la musica è un diritto di tutti"

Maurizio Pollini (1942-2024)
Maurizio Pollini le possedeva tutte, le virtù “americane” di Italo Calvino: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità; e anche l’ultima, solo progettata,
Consistency, ossia la Coerenza. Anzi, a conquistarci è proprio la coerenza con cui riuscì a tenerle legate insieme negli 82 anni di vita e ad offrirle all’umanità nei quasi 70 di attività musicale. «Un poeta del pianoforte», ha detto con finezza Sergio Mattarella: intendo queste parole nella dimensione in cui Paul Valéry poteva definire la poesia (e l’evento della sua creazione) una «hésitation prolongée entre le son et le sens». Per Pollini, come per Calvino, la leggerezza si è sempre associata «con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso»; e anche per lui, secondo la frase di Valéry che sigilla questa idea nella prima delle Lezioni americane, «il faut être léger comme l’oiseau, non comme la plume».
Le mani di Pollini non mi hanno mai ricordato le piume nel vento: erano uccelli leggerissimi, di rapidità travolgente, di tocco esatto, trasparente, molteplice. Come per la fisica quantistica, o per Pirandello che la anticipa, «la fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto» (cito ancora Calvino, Visibilità). Ma la potenza, ha scritto Giorgio Agamben riflettendo sulla Metafisica di Aristotele, «è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio»; «e come possiamo pensare l’atto della potenza-di-non? Poiché l’atto della potenza di suonare il piano è certamente, per il pianista, l’esecuzione di un pezzo al pianoforte; ma quale sarà, per lui, l’atto della sua potenza di non suonare?».
Ogni volta che ho ascoltato Pollini, cioè quasi ogni giorno, ho creduto di capire perché il grandissimo Artista offre della vita un’immagine che supera sempre i limiti del pensabile e del possibile, una potenza capace di eccedere qualsiasi forma e realizzabilità. Solo un pianista del livello di Pollini può contenere e rendere coerenti l’atto del suonare in una esecuzione tanto perfetta che sembra “essere” la musica pensata e scritta dal compositore, e «l’atto della sua potenza di non suonare». Questa sterminata potenza, enérgeia nel senso davvero più aristotelico del termine, è ciò che Pollini ha donato alla musica e al mondo. In una magnifica intervista-video realizzata dieci anni fa da Bruno Monsaingeon, violinista, pianista e musicologo, dal titolo De main de maître, Pollini ha spiegato la sua idea di rapporto con il pianoforte, che mi evoca queste riflessioni sulla potenza: «Il pianoforte», ha detto, «è uno strumento “neutrale”, ma ha delle possibilità pressoché illimitate di trasformarsi. Può diventare uno strumento “cantante”. E vedere che lo “strumento” reagisce al desiderio, alla ricerca che si fa attraverso di lui, è la ragione per cui sono entusiasta di essere pianista».
Il mio Fabbrini, diceva, cambia con me, con la sala, con il pubblico, con le emozioni ogni volta diverse. E infatti, suonando, lui cantava: basta ripensare a quello che a me pare un capolavoro, il suo Adagio del Concerto in la maggiore K 488 di Mozart, il numero 26, con la direzione di Riccardo Muti, eseguito alla Scala il 13 novembre del 2000: nel video online vediamo affiorare sulle labbra di Pollini delle sillabe-note, quasi in un balbettìo che emerge dalle radici della carne e vorrebbe farsi eco sonora del volo con cui le farfalle-dita sfiorano e travolgono i tasti. E non faceva lo stesso anche un altro genio del pianoforte, così incredibilmente lontano dallo stile, dalla tecnica, dal gesto di Pollini, Glenn Gould, che si vede e si sente, nelle registrazioni, entrare in risonanza con il suo alter-ego, il celebre Steinway CD 318, mentre canticchia le Variazioni Goldberg bachiane?
Entusiasmo, gioia, Freunde, vibrano nella musica di Pollini. Fuori, all’esterno, la sua elegante compostezza, il suo passo breve e rapido, la folgorante esattezza e rapidità esecutiva, testimoniano un’arte della concentrazione, addirittura della contemplazione, nel senso più intensamente e laicamente agostiniano della parola. Felicità mentale e razionalità sono i poli della sua armonia interiore e artistica. Grazie a quello che non esito a proporre come un ininterrotto esercizio spirituale riuscì a tenere in equilibrio un’assoluta capacità di astrazione e il controllo microscopico del gesto, misurando la potenza, anzi proprio il peso di ogni tocco sulla tastiera.
In De main de maître Pollini racconta come, dopo il concerto con cui nel 1960, a 18 anni, vinse il concorso internazionale Fryderyk Chopin, a Varsavia, Arthur Rubinstein (a cui si attribuisce la celebre frase: «Questo ragazzino ha una tecnica migliore di quella di tutti noi») pose le mani sulle spalle a lui e all’altro ottimo concorrente Michel Block, premendo con il dito medio, e proclamando: «Io suono soltanto con il peso, per cui non mi stanco mai». Il peso infinitesimale di un dito trasformato per miracolo nella leggerezza esatta e rapida, molteplice e luminosa della musica. Per questo, ha sempre detto Pollini, «io ho compiuto una scelta rigorosa del mio repertorio, inserendovi solo opere che non mi avrebbero mai stancato». «Con ogni pezzo», diceva, «io ho sempre avuto un rapporto stretto e prolungato»: intimo, prolungato, come «l’esitazione prolungata fra il suono e il senso» che è per Valéry la poesia. Quel «rapporto stretto» significò per lui quasi scavare con le dita nelle note, per raggiungere la «sonorità più impalpabile»: così gli aveva insegnato, diceva, Arturo Benedetti Michelangeli, il quale «mi suggerì una diteggiatura per i trilli, che utilizzo ancora», ricorrendo a quello che la tecnica pianistica chiama “doppio scappamento”, disposizione meccanica grazie alla quale rimane aperta la possibilità di ribattere la nota senza rilasciare del tutto il tasto: questa potenzialità, perfetta potenza-di-non, consentiva a Pollini (sono ancora parole sue) di estrarre il suono «non tanto dal tasto, ma da sotto il tasto».
Rigorosa era la scelta del repertorio, rigorosa ogni esecuzione, nel rispetto filologico del testo che gli permise sempre di portarne alla luce la struttura con razionalità accesa di timbri e di colori. Pollini non si è mai stancato, né ha mai stancato il suo pubblico, perché questo rigore ha costituito sempre il polo dialettico dell’«entusiasmo di essere pianista». Suo padre Gino era un architetto razionalista; sua madre, Renata Melotti, una musicista; e anche il fratello di Renata, Fausto, aveva un diploma di pianoforte. Ma dire Fausto Melotti significa pensare anche a Adolfo Wildt, e a Lucio Fontana, e a Carlo Belli (suo cugino), autore di Kn, che Kandinskij definì «il Vangelo dell’arte astratta». Non è un caso, credo, se all’inizio del video di Monsaingeon, mentre la telecamera si avvicina allo studio in cui Pollini sta sfogliando lo spartito della Sonata Gli addii di Beethoven, su un tavolo a sinistra si vede poggiato, quasi come un totem simbolico, un catalogo di Paul Klee; e sulla libreria alle spalle del pianista, ben riconoscibile fra i molti libri, la raccolta completa de Il Politecnico di Elio Vittorini, che Einaudi pubblicò nel 1975. Astrattismo e fantasia, lievità e peso delle idee, cura dei valori culturali e concretezza di impegno civile, Klee e Vittorini: scelte intellettuali, di rigore e di politica, cioè, in una parola, di etica.
L’etica come scelta di saldare la cultura e la politica fu, per Pollini, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una forma di vita. L’amicizia con Luigi Nono, e la posizione assunta dal PCI dopo l’invasione sovietica di Praga, nel 1968, lo avvicinarono a un comunismo autentico, “critico”: «non avrei mai ammesso di avere simpatia per un partito che non fosse stato assolutamente democratico, in ogni senso». Comunismo per Pollini significò, in primo luogo, ribadire che «la musica è un diritto di tutti». È difficile, oggi, percepire il vulcano, il terremoto che dovette essere quel concerto del 9 gennaio 1972, nella fabbrica grafica Paragon di Genova occupata dagli operai (era il 72° giorno) dopo la minaccia di gravi licenziamenti. Bruno Martinotti dirigeva, e Maurizio Pollini scelse di eseguire il concerto L’Imperatore di Beethoven, insieme con La fabbrica illuminata di Luigi Nono. Come dire, il più classico dei classici, “la Musica” depositata nella memoria collettiva, e una composizione modernissima, con la voce di un soprano che cantava poesie di Cesare Pavese e testi di Giuliano Scabia intrecciati ai suoni emessi da un registratore a quattro piste: rumori industriali, voci di operai, lacerazioni sonore dello spazio.
Pollini promosse fino all’ultimo la coesistenza, in quel grande Teatro della Memoria che è la Musica, dei grandi classici con l’avanguardia: soprattutto Nono, Stockhausen, Boulez. La sua energia culturale e politica, il suo coraggio estetico e artistico, brillano visibili ed esatti in certi cartelloni che oggi sono un documento e un ricordo, e che allora furono esplosione, scossa elettrica. Il 9 maggio 1977, ad esempio, alla Scala di Milano, nel ciclo dei Concerti per Lavoratori e Studenti ideato da Paolo Grassi, a cui collaborò l’amico e compagno di grandi avventure Claudio Abbado, Pollini propose (ma in certo modo anche impose) un accostamento che a molti dovette sembrare “poco giudizioso”, e che oggi scintilla di genio esplorativo: la Sonata degli Addii e l’Appassionata di Beethoven, i cinque Klavierstücke op. 23 di Schönberg e Sofferte onde serene, che Luigi Nono aveva dedicato a Pollini stesso, e che insieme avevano eseguito per la prima volta nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano pochi giorni prima, il 17 aprile. Cito ancora, come esempio di sublimità conquistata attraverso una battaglia sul campo contro le convenzioni e la pigrizia mentale, un altro di questi Concerti per Lavoratori e Studenti, a cui collaborava la Consulta Sindacale CGIL-CISL-UIL: l’8 maggio 1978, sempre alla Scala, giovani e operai ascoltarono i tre intermezzi op. 137, i tre pezzi op. 118 e i quattro pezzi op. 119 di Brahms, poi i tre pezzi op. 11 di Schönberg e la sonata n. 2 di Pierre Boulez. Quasi incredibile, a guardare lo stato attuale della nostra cultura, della nostra “classe operaia”, della nostra politica.
Mi batte ancora forte il cuore quando ripenso all’inaugurazione dell’Auditorium di Roma, nell’aprile 2002, quando Luciano Berio era direttore dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ricordo di essere stato a parlare con lui per un’intervista su RadioTre della RAI. E mi spiegò il senso del Progetto Pollini, che aveva edificato insieme con il grande pianista come una possente, arditissima Torre di Babele della musica: non per confondere le lingue, ma per congiungerle, e per far dialogare gli antichi con i contemporanei. Così, a partire dal marzo 2003, Pollini e Berio offrirono ai romani, abituati al vecchio Auditorium di Via della Conciliazione e ai suoi programmi tradizionali, uno shock di cui per vent’anni si è sentita l’eco fortissima, nello splendido nuovo spazio disegnato da Renzo Piano. L’arte della seduzione e lo spirito rivoluzionario, come sempre armonizzati con rigore e leggerezza, convinsero il pubblico romano, un po’ indolente e un po’ cinico, che è possibile ascoltare Ligeti e Mozart, Bach e Sciarrino. Pollini li disponeva in una saldatura raffinata, distribuendo i contemporanei al centro e collocando all’inizio e alla fine i “classici”: e invitava così, con democratica fermezza, che si può imparare ad ascoltare le voci del nostro tempo senza pregiudizi: anzi, godendole.
Ci volle tempo, pazienza, fiducia. Come ricordava Arrigo Quattrocchi nel programma di sala dell’Auditorium per la sera del marzo 2003 in cui furono eseguite le Variationen op. 27 di Anton Webern, il musicista in una lettera del 1936 scriveva: «Vi ho già detto che sto scrivendo qualcosa per pianoforte. La parte che ho finito è un tempo in forma di variazioni: verrà una specie di Suite. Spero di aver realizzato con le variazioni qualcosa che già da anni avevo in mente. Goethe, una volta, a Eckermann che lo stava lodando per una nuova poesia, rispose: ma ci ho anche pensato sopra per quarant’anni!». Anche Pollini, con fatica e tenacia, ha seminato per decenni, e “ci ha pensato sopra” prima di “eseguire” la sua potenza. Concludendo la sua intervista-video, Bruno Monsaingeon, nel 2014, chiedeva al pianista: «Lei è una sorta di missionario?» E lui, stupito e spontaneo: «No, faccio tutto per il mio piacere!». «E basta?», chiese il musicologo. «Quasi basta!» sussurrò sorridendo Pollini.
Corrado Bologna
(Doppiozero, 25 marzo 2024)

martedì, novembre 11, 2025

Lulu di Alban Berg

Alban Berg
(dipinto su tela di Arnold Schoenberg, 1910)
Nato nel 1885 a Vienna, da una famiglia 
di origine bavarese, Alban Berg fu dapprima autodidatta e subì gli influssi dei maestri del Lied romantico e tardo-romantico quali Schumann, Brahms e Wolf. Le sue composizioni giovanili appartengono di conseguenza prevalentemente al genere della lirica da camera. Dopo aver terminato il liceo scientifico, Berg studiò, tra il 1904 e il 1910, con Schoenberg al quale restò sempre profondamente legato. Insieme al Maestro e al condiscepolo Anton Webern, Berg doveva dar vita alla cosiddetta «Seconda Scuola viennese» (la prima essendo ovviamente quella dei grandi classici Haydn, Mozart e Beethoven). Senza voler stabilire alcun ozioso paragone qualitativo, si può dire tuttavia senza tema di smentita che, come la prima, così anche questa seconda scuola fiorita nella capitale austriaca, influenzò in modo decisivo gli sviluppi della civiltà musicale dell'Occidente. Nell'ambito di questa scuola (che solo più tardi doveva allargarsi oltre l'iniziale ristretta cerchia schoenberghiana), Alban Berg si distingue per la costante tendenza a «consolidare retroattivamente le scoperte schoenberghiane» più radicalmente innovatrici (per dirla con le parole del Leibowitz), e di «assicurare il raccordo storico» (Willy Reich) rappresentando dunque, nell'ambito della corrente schoenberghiana la «coscienza del passato». Oltre all'insegnamento schoenberghiano ebbero importanza per la sua formazione le forti impressioni ricevute dalla «Salomè» di Strauss (ascoltata per la prima volta a Graz nel 1906) e dall'«Ariane et Barbebleu» di Dukas (1908). Decisivi furono anche i contatti con pittori e letterati espressionisti come Kokoschka, Peter Altenberg e Karl Kraus. Il teatro di Frank Wedekind l'attirò ugualmente fin da quando era giovanissimo. Un'eredità avuta nel 1906 gli permise di dedicarsi interamente alla musica senza essere obbligato di togliere del tempo e delle energie alla composizione attraverso attività collaterali di interprete o di stabili impegni didattici. Quando, dopo la prima guerra mondiale le sue condizioni finanziarie peggiorarono, la salute costantemente cagionevole gli impedì di allargare la sua attività oltre all'insegnamento privato ed a una scarna, ma assai incisiva azione di conferenziere e pubblicista svolta soprattutto in favore della nuova musica. Se si ricorda che nel 1911, Berg aveva sposato Helene Nahowski la cui affettuosa fedeltà e premurosa partecipazione ad ogni momento della sua vicenda umana e artistica incisero sulla sua vita (in modi e misure che bisognerà ancora puntualizzare), si può ben dire che, per il resto, gli aspetti essenziali della ulteriore storia di Berg si identificarono con quella della sua creatività musicale. La fase della prima maturità di tale creatività prese l'avvio con la «Sonata» op. 1 per pianoforte (1908) e si dispiegò negli anni precedenti lo scoppio della prima guerra mondiale in modo significativo, quanto meditatamente lento, fruttando un gruppo di 4 «Lieder» con pianoforte (op. 2), 5 «Lieder» con orchestra (op. 4), un «Quartetto» per archi (op. 3), 4 piccoli Pezzi per clarinetto e pianoforte (op. 5), 3 Pezzi per orchestra (op. 6). L'opera 7 sarà il suo capolavoro, il «Wozzeck», al quale Berg lavorerà fino al 1921. Dato questo lento ritmo della sua produzione, dovuto alla precarietà della salute, ma anche e soprattutto ad una estrema scrupolosità di lavoro, Berg si asterrà dal continuare la numerazione delle opere che gli sarà dato ancora di scrivere prima della prematura morte nel 1935, opere il cui numero non supererà comunque la mezza dozzina. In queste ultime opere Berg adotterà i procedimenti del metodo dodecafonico coniato da Schoenberg intorno al 1924. Lungi dall'attutire la peculiarità della sua poetica, quest'adesione di Berg alla dodecafonia ne renderà ancora più espliciti i connotati. Infatti Berg non si servirà della scrittura seriale per elidere o per eludere i nessi tonali, ma cercherà di innestare nello spazio pancromatico funzioni armoniche tradizionali, precorrendo in ciò una tendenza del tardo Schoenberg.
Altra caratteristica di Berg che andrà vieppiù accentuandosi è la connaturata ed intrinseca drammaticità. Veri e propri gesti drammatici abbondano anche nei suoi lavori cameristici e sinfonici, sì che a giusta ragione il Reich può considerare la «Suite lirica» per quartetto d'archi (1926) come «opera latente», il «Concerto» per violino e orchestra (1935) come «dramma latente» e l'Aria da concerto «Il vino» (su versi di Baudelaire e la loro traduzione tedesca di Stefan George) come «prolegomeno a Lulu». Lo stesso Berg confessava che un «programma nascosto» si celava anche nel «Concerto da camera» scritto nel 1925. Fu questa fondamentale disposizione drammatica a spingere il compositore verso le forme del teatro musicale permettendogli di creare col «Wozzeck» l'opera che insieme al «Pelléas» di Debussy è generalmente riconosciuta come il capolavoro della moderna letteratura operistica. La caratteristica più saliente dello stile operistico di Berg risulta dal fatto che in lui gli impulsi drammatici tendenti a spezzare le cornici formali, vengono bilanciati da quello che il Reich chiama «una mitica tendenza» ad assicurare la coesione e la solidità formula della sua musica mediante la giustificazione tematica anche del più minuto passaggio. La particolare maniera di dedurre tutte le figure sonore di una composizione da alcune fondamentali cellule generatrici aveva conferito già alla «Sonata» op. 1 e ai «Pezzi» op. 6 aspetti che anticipavano la tecnica seriale e che nei «Lieder» op. 4 e nella «Passacaglia» del «Wozzeck» portavano alla formulazione di vere e proprie costellazioni dodecafoniche, seppure non ancora metodicamente elaborate. Da simili tendenze strutturali nacque con «Wozzeck» un tipo di opera, nella quale azione scenica e trama musicale appaiono inquadrate in chiuse forme da concerto. Altro aspetto essenziale del «Wozzeck» e più ancora di «Lulu», è un nuovo stile di canto, sorto dallo «Sprachgesang» immaginato da Schoenberg nel «Pierrot Lunaire», ma sviluppato da Berg in vari sensi e integrato soprattutto in una ampia gamma di modi canori che Alban Berg in un ritratto di Schoenberg va dalla stilizzazione di inflessioni del linguaggio parlato, all'espressione melodica vera e propria e fino al virtuosismo di colorature che riprendono ed esaltano modernamente le tradizioni del bel canto italiano. Non sono comunque astratte qualità formali che determinarono il successo mondiale del «Woz-
zeck», ma il fatto che, lungi dall'essere fine a se stesse, tali qualità sono sempre messe al servizio dell'efficacia teatrale, della verità drammatica e della espressione di un senso di pietà umana, intensamente sentita e vissuta. Rappresentato per la prima volta nel 1924, «Wozzeck»› costituì una definitiva testimonianza del genio e della vocazione teatrale del suo autore.
Dopo essersi affermato col «Wozzeck»›Berg pensò subito ad una seconda opera. Abbiamo già detto che egli conosceva da molto tempo il teatro di Wadekind. Infatti, fu nel 1905 (cioè nove anni prima che Berg vedesse per la prima volta il «Wozzeck» di Buechner) che egli assistette alla prima rappresentazione viennese della tragedia «Die Biichse der Pandora» (Il vaso di Pandora) di Frank Wedekind. Com'è noto, Wedekind fu uno dei principali artisti che aprirono la strada all'espressionismo teatrale tedesco. Egli aveva concepito questo dramma nello stesso spirito moralistico che informava anche il precedente dramma intitolato «Erdgeist» (Spirito della terra) scritto nel 1893 e in cui avvengono gli antefatti della vicenda che nel «Vaso di Pandora» conosce la sua tragica catarsi. Il personaggio della donna sensuale che rovina gli uomini da lei irresistibilmente attratti, fu concepita da Wedekind quale strumento critico contro la borghesia tedesca. Wedekind voleva scuotere questa classe e indurla a riflettere e a riscattarsi da quel coacervo di ipocriti compromessi morali e di complessi psicologici che Freud doveva diagnosticare e diagnosticare scientificamente.
Gli assunti etici di Wedekind non furono riconosciuti come tali e i suoi lavori rimasero circondati a lungo da un alone di scandalo e costituirono un bersaglio contro il quale si accaniva la censura.
Sembra anche che i congiunti più stretti e persino il venerato maestro Schoenberg abbiano cercato di dissuadere il compositore dalla scelta delle tragedie di Wedekind come materia per un libretto d'opera. Com'è noto Schoenberg aveva criticato già la scelta del soggetto di Wozzeck, affermando che secondo lui «la musica doveva avere a che fare con gli angeli e non con soldati e donne di malaffare». A maggior ragione egli dovette disapprovare la scelta del personaggio di Lulu come figura centrale della seconda opera di Berg, pur accettando in seguito che quest'ultimo gliela dedicasse. Purtroppo simili ostilità avrebbero contribuito a far sì che l'opera che Berg doveva lasciare completamente elaborata nella partitura orchestrale, restasse un torso non integrato fino al giorno d'oggi. Infatti, sia Schoenberg che Webern, per un motivo o l'altro rifiutarono di completarla e ancor oggi la vedova del compositore esita di concedere il permesso perché altri possano compiere il lavoro necessario per rendere rappresentabile l'intero terzo Atto di «Lulu». Lasciando per ora da parte ogni considerazione circa i problemi posti da questo stato di cose, bisogna ricordare che inizialmente lo stesso Berg aveva rivolto la sua attenzione anche ad altri lavori drammatici, come ad esempio al dramma hassidico «Il Dibbuk» di Anski (del quale si sarebbe servito poi Lodovico Rocca) e soprattutto al dramma fiabesco «Und Pipa tanzt!» di Gerhard Hauptmann che aveva interessato in precedenza anche Schoenberg. Quest'ultimo progetto era già stato portato avanti e Berg si era recato anche in Italia dove soggiornava Hauptmann per discutere con quest'ultimo la stesura del libretto. Finalmente alcune difficoltà editoriali indussero Berg a rinunciare alla collaborazione con Hauptmann e a far prevalere su tutte le remore esteriori le necessità interiori che lo spingevano verso il mondo di Wedekind. Nella primavera del 1928 decise così di procedere come già aveva fatto nel caso del «Wozzeck» di Buechner, cioè di riplasmare una preesistente materia teatrale piegandola alle proprie esigenze senza ricorrere alla collaborazione o all'aiuto di un librettista.
Nello stesso periodo 1928-1929 Georg Wilhelm Pabst stava girando un film sullo stesso soggetto. Pur assumendo il titolo del secondo dei due drammi («Die Buechse der Pandora») la trama di questo film conglobava «Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora». Berg procedette in un modo analogo, fondendo cioè i due lavori. Una volta di più egli diede prova di possedere un sicuro, innato senso del teatro e particolarmente delle specifiche esigenze del teatro musicale. In una lettera a Schoenberg, Berg parla del tormento che gli causava la necessità di cancellare quattro quinti dell'originale testo di Wedekind e di coordinare il resto nel tessuto delle «più grandi e più piccole forme musicali senza distruggere con ciò il peculiare linguaggio di Wedekind». Nonostante quest'affermazione, un confronto tra il testo dell'opera berghiana e quello dei drammi di Wedekind dimostra che in moltissimi punti Berg ha modificato (in genere nobilitandola) anche la stessa formulazione delle frasi mutuate da Wedekind.
Anche l'epoca dell'azione appare spostata e precisamente di trent'anni: infatti, mentre i drammi di Wedekind sono ambientati nel periodo e nel clima della fine del secolo scorso, l'opera di Berg si svolge nell'atmosfera degli anni tra le due guerre mondiali. Per quanto riguarda la fusione de «Lo spirito della terra» e «Il vaso di Pandora», lo stesso Berg illustrò il modo in cui procedette per desumere il suo libretto da questi due lavori, nella citata lettera a Schoenberg, mediante il seguente schema sintetico:


Condensando i due drammi di Wedekind, Berg ha operato il taglio di molte scene e di non poche figure episodiche. In funzione del proprio mondo interiore e della sua peculiare sensibilità egli ha conferito anche un diverso rilievo a talune delle figure principali di questi drammi, mutando anzitutto l'importanza delle due principali figure femminili. Così, mentre negli originali di Wedekind la figura principale era quella della contessa Geschwitz e Lulu svolgeva un ruolo prevalentemente passivo, nell'opera di Berg l'interesse e la partecipazione umana del compositore si concentrano sulla figura di Lulu, ciò che spiega la scelta del titolo. La scelta dell'argomento è giustificata dalla profonda opposizione di Berg «verso un'Austria che lo rinnegò fino alla fine della sua vita e oltre la sua morte... di un'Austria (oggi da gran tempo passata nella storia, ma che in lui come in qualcuno dei più giovani sopravviveva come immanenza dell'anima)... che consentiva la schiavizzazione e la degradazione del laconico, inceppato moschettiere polacco-tedesco nel cortile della prigione di una prussiana gerarchia democratica: Wozzeck; e la danza macabra della prostituta apportatrice di voluttà, che viene stritolata dall'ingranaggio sociale del consorzio umano: Lulu»(Redlich) .
Nella primavera del 1929, ultimato il libretto, Berg iniziò la composizione della musica che lo impegnò per i successivi restanti sei anni della sua vita, con due interruzioni dovute alle composizione de «Il Vino» (1929) e del «Concerto» per violino e orchestra (primavera-estate 1935). Fin dall'aprile 1934 lo spartito dell'opera era praticamente ultimato e in quell'estate Berg raggruppò alcuni brani in una «Suite» intitolata «Pezzi sinfonici dell'opera Lulu», ma chiamata abitualmente, per l'analogia della sua configurazione con quella di alcune sinfonie di Mahler, «Lulu - Symphonie».
Nel novembre 1934, malgrado l'ostilità nazista la «Lulu - Symphonie» fu eseguita con successo a Berlino. La morte prematura non permise disgraziatamente a Berg di completare la stesura orchestrale dell'opera. Del terzo atto, infatti, se si escludono le 268 battute iniziali, l'intermezzo orchestrale in forma di «Variazioni» e l'«Adagio» finale accolti nella «Lulu - Symphonie», resta solo una prima stesura con parti vocali integralmente formulate, ma le parti strumentali abbozzate, però con una chiarezza sufficiente da aver permesso la riduzione per canto e pianoforte di Erwin Stein (1936).
Tutte le rappresentazioni che si sono avute di «Lulu» fino al giorno d'oggi hanno dovuto affrontare, con soluzioni diverse, il problema di questo terzo atto incompiuto, nel quale per la convergenza dell'azione drammatica e della vicenda musicale dovrebbe chiarirsi il significato intrinseco dell'opera.
Tali soluzioni sono comunque necessariamente provvisorie e non permettono di risolvere categoricamente il quesito se «Lulu» sia opera riuscita al pari di «Wozzeck», che senza discussione ha un posto di primo piano fra i capolavori del teatro musicale del nostro secolo, e se rinunciando alla tecnica libera impiegata nel «Wozzeck» per l'impiego in «Lulu» del metodo dodecafonico, Berg abbia ottenuto un maggior rigore grammaticale, ma una minore efficacia teatrale. In realtà, pur adottando il metodo dodecafonico, egli non mutò la propria poetica che gli consentiva di «mescolare dei pezzi e dei frammenti scritti distintamente in una tonalità data con altri brani e frammenti non tonali», poiché «un compositore d'opera non poteva rinunciare sempre - e ciò per delle ragioni di espressione e di caratterizzazione drammatica - al contrasto fornito dall'alternarsi dei modi maggiori e minori». In «Lulu», infatti, come negli altri lavori dodecafonici di Berg, la tecnica dodecafonica è continuamente piegata al costituirsi di nessi tonali e di assonanze diatoniche. I primi sei suoni della serie originaria di «Lulu» appartengono alla scala di si bemolle maggiore, mentre gli altri sei sono nella sfera della tonalità di do maggiore. A questa e ad un gruppo di serie sussidiarie derivate mediante processi permutativi sono riferite le principali figure sonore dell'opera: ne deriva così una materia sonora omogenea e pur differenziata, nella quale si realizzano i singoli personaggi e le varie situazioni sceniche. Mentre nel «Wozzeck» le forme musicali erano pensate in funzione del carattere delle singole scene, in «Lulu» è soprattutto il carattere dei personaggi, nel loro «aspetto totale» (come disse più volte lo stesso Berg) a determinare la forma del discorso musicale. A tal fine egli si vale anche del ritmo, dei timbri strumentali e vocali, e della stessa emissione vocale che va dal semplice parlato al «bel canto», fino al canto di coloratura.
I lineamenti musicali dei personaggi appaiono fin dal «Prologo», in cui un domatore (nel quale viene adombrato l'autore) presenta lo spettacolo come il numero di un circo dove ogni belva raffigura un personaggio. Fin dall'inizio le note degli ottoni alludono al clima sonoro dell'opera con la squillante volgarità di una fanfara da circo. La trama del lavoro è sostenuta dal motivo di questa fanfara che simboleggia lo «spirito della terra», cioe l'istinto sessuale, manifestazione delle cieche forze irrazionali che devono essere domate per non far infrangere all'uomo l'ordine sociale. Il secondo motivo musicale del «Prologo» è quello dell'«Orso» che rappresenta l'atletico acrobata Rodrigo Quast. Il motivo, ispirato dalla meccanica pianistica, è composto da due blocchi dei tasti bianchi e di quelli neri. Questi armonici che includono suoni rispettivamente ultimi sono percossi con l`intero avambraccio sinistro, tecnica atta qui a rendere mirabilmente, mediante suoni opachi e amorfi grappoli armonici, l'ottusità e la forza bruta del personaggio. Il motivo che segue e quello del Dr. Schön, rappresentato dalla «Tigre», ed ha sapore diatonico: l'angolosa ossatura ritmica rende il duro e volitivo temperamento del personaggio. Il conformismo sociale e la gretta ipocrita mentalità borghese del Dr. Schön saranno resi successivamente con la voluta convenzionalità di un movimento di «Gavotta». Questi due motivi diversi costituiscono nella seconda scena del primo atto il tema principale e il tema laterale di un «Tempo di Sonata»: la dialettica dei due temi contrastanti, tipica della classica forma di sonata, è usata qui come pregnante mezzo per raffigurare i lineamenti contrastanti di questo personaggio.
Nel prologo compare, poi, il tema di «Lulu», rappresentata dal «Serpente», «creato per seminare disgrazia». Alla parola «disgrazia» corrispondono le note centrali del tema disposte in un disegno che rievoca uno dei motivi principali del «Tristano»; in seguito questo patetico riferimento si annullerà e il tema tradurrà più direttamente il carattere della protagonista. L'andamento danzante, la leggerezza delle note staccate, la fatua grazia della «Canzonetta», della «Cavatina» e dell'«Arietta», motivi con i quali accompagna i suoi misfatti, rispecchiano la sua ambiguità e la sua totale irresponsabilità morale. Un tema importante formato da quattro triadi è quello che accompagna l'esecuzione del ritratto di Lulu in costume di Pierrot da parte del pittore Schwartz nella scena iniziale dell'Atto primo. Tutti questi motivi sono riferibili a costellazioni seriali desunte dalla serie principale. Questa si rivela solo nel «Lied» di coloratura che costituisce il più alto momento di rallentamento lirico dell'azione nella scena in cui il Dr. Schön, prima di essere ucciso da Lulu, la spinge a suicidarsi. Sulla partitura Berg ha indicato il tempo di questo brano come «Tempo del battito del polso» quasi per significare che Lulu deve cantare qui con la
stessa voce del sangue per manifestare il suo essere più intimo. Questo punto focale dell'opera è forse il momento sommamente caratterizzante di tutta la musica di Berg, musica che nei suoi tratti più tipici sottintende un «ritmo somatico», fisicamente corporeo, ponendosi così in assoluto contrasto con la musica di Webern in cui si riflette un ideale «ritmo dell'anima». Nel «Lied» in questione, mentre le strutture ritmiche colgono il lato più concretamente umano di Lulu, quelle melodiche, stilizzate in plananti («schwebend» indica l'autore) arabeschi di coloratura, ambientano il personaggio della protagonista in una irreale regione onirica, dove questa «sonnambula dell'amore» si muove inconsapevolmente al di fuori della umana responsabilità.
In un modo quanto mai sottile sono scolpiti anche gli altri personaggi dell'opera. La triste figura di Alwa, perdutamente innamorato di Lulu nonostante che essa abbia ucciso suo padre, è costituita musicalmente da motivi in modi minori che ingenerano forme simili a quella del «Rondò». Con le loro roteanti strutture circolanti queste forze simboleggiano il vortice sensuale dal quale il giovane non può divincolarsi. L'anormale contessa Geschwitz, lesbicamente innamorata di Lulu, viene delineata mediante figure tematiche di un'esotica configurazione pentatonica. Il «cadente e asmatico» Schigolch, decrepito suonatore ambulante che, dopo esserne stato l'amante, si spaccia per il padre di Lulu, viene caratterizzato per mezzo di una «Kammermusik» («Nottetto per legni») i cui ansanti disegni cromatici sembrano provenire da una sgangherata fisarmonica. Nel terzo atto Berg non esita poi a rompere la trama dodecafonica inserendovi come Tema di Variazioni una banale canzonetta in do maggiore, il «Lautenlied» n. 10 («Canzone da liuto») composta dallo stesso Wadekind. E questo al fine di raffigurare efficacemente la totale decadenza e depravazione di Lulu. Quest'ultima, dopo infinite umiliazioni, troverà infine la morte, insieme ad Alwa e alla Geschwitz per mano di personaggi che secondo un'intenzione esplicitamente formulata da Berg, dovrebbero venire interpretati dai medesimi cantanti che nei primi due atti impersonavano figure maschili che avevano trovato la morte per colpa di Lulu. Con una simile simmetria Berg voleva rende esplicito quello che Karl Kraus aveva definito «la rivincita di un mondo maschile che osa vendicare le proprie colpe». Per Berg una tale vendetta non assume certamente il significato di una punizione del destino dei peccati della protagonista, ma appare invece come una nemesi, tragicamente fatale. In «Lulu», come prima nel «Wozzeck», le colpe del personaggio centrale e delle altre figure vengono attribuite alla società che li ha posti nella condizione di subire l'azione letale del primigenio istinto sessuale, avvelenato e distorto dai preconcetti e dai repressivi meccanismi psicologici fino ad assumere virtuali aspetti demoniaci.
La pietà umana con cui Berg plasmò la figura di Lulu si desume dalla stessa frase con cui egli definì la scena d'amore con Alwa: «come l'artista vede Lulu - e come essa deve essere vista, perché si possa comprendere che nonostante tutto il terribile che accade per lei - essa viene tanto amata». Berg considerava Lulu come il corrispondente femminile del Don Giovanni. Egli fu perciò molto toccato dalla frase con la quale un critico boemo pronosticava: «dopo il Wozzeck, Lulu vivrà eternamente; essa avrà meno difficoltà del povero Wozzeck, perché con Don Giovanni e Faust appartiene a quelle figure sempre rinascenti che camminano tra noi e che lo sguardo d'un poeta non aveva bisogno di formare, ma solo di cogliere».
Roman Vlad
("Disclub" 26, anno VII, marzo/aprile 1968)

lunedì, novembre 03, 2025

Musica e poesia a San Maurizio

Comincia stasera in San Maurizio al Monastero Maggiore (corso Magenta 15) una serie di concerti di musica antica eseguita su strumenti antichi o ricostruiti su modelli d'epoca. Un nuovo spazio musicale si aggiunge così alle sedi tradizionali della musica milanese. Il primo concerto della serie, che si concluderà il 3 dicembre, sarà sostenuto da Hannelore Müller, viola da gamba, e Emilia Fadini, cembalo; comprenderà musiche di Frescobaldi, Ruffo, Couperin, Marais.

Era il 13 ottobre del 1976: sul «Corriere della Sera» così veniva dato l'annuncio dell'inaugurazione di quella che, nel tempo, sarebbe divenuta la più importante e prestigiosa rassegna di musica antica a Milano, e non solo. Sotto la pioggia autunnale, una fila di ombrelli si accalcava lungo il marciapiede di corso Magenta; la chiesa traboccava di un pubblico «coinvolto intellettualmente e profondamente ammirato. [...] Peccato che possa contenere solo trecento persone circa. Il pubblico è accorso numeroso e purtroppo molte persone non hanno potuto entrare»: «Musica e poesia a San Maurizio» iniziava la sua storia.
Sandro Boccardi, ideatore e poi, per oltre trent'anni, direttore della rassegna, ama ripetere che non è stato lui a scegliere San Maurizio: è il luogo ad aver condizionato le sue scelte. Funzionario del Comune di Milano, Boccardi un giorno si ritrova ad accompagnare un collega del Settore Cultura in un sopralluogo in quella chiesa dimenticata. Nelle intenzioni del Comune il coro di San Maurizio avrebbe forse potuto ospitare delle mostre. «Lascio immaginare - ricorda Boccardi - la sorpresa di trovarmi di fronte ad una chiesa che era ed è essa stessa una mostra vivente dell'arte del tardo Rinascimento lombardo e del primo Barocco. Assurdo farne uno spazio in cui esposizioni ne coprissero le bellezze.» Boccardi, da amante della musica (studiava pianoforte), percorre rapito l'iconografia degli affreschi: «Angeli con piccole arpe medievali, liuti, viole da gamba, flauti senza chiavi, ribeche», ad incorniciare un'aula in cui nel Cinque-Seicento monache di clausura avevano cantato e suonato. Sgorga così, dallo stesso contatto estetico ed emotivo con il luogo, l'idea di renderlo spazio per la musica, per una musica in grado di realizzare una compiuta sonorizzazione dello spirito che in quell'intimo e incantato anfratto d'arte e di storia pareva aleggiare: per la musica antica. Attraverso scambi di idee con Ermanno Arslam, direttore dell'attiguo Museo Archeologico, il progetto inizia a profilarsi nei suoi contorni, scandagliato ed elaborato con passione in seno a una commissione informale che, in «incontri quasi carbonari», accoglieva suggerimenti e stimoli dal mondo letterario e musicale, da Maria Corti a Renato Fait. Conquistato l'appoggio del Comune - che investe Sandro Boccardi della figura di direttore responsabile -, ecco i cicli di musica e poesia tradursi in realtà «La poesia moderna accanto alla musica antica», rievoca Boccardi «due linee parallele: le letture poetiche in orario pomeridiano, i concerti alla sera, con cadenza settimanale.» Era una novità, allora, udire i poeti leggere le proprie composizioni: Vittorio Sereni, Giorgio Caproni, Mario Luzi, Edoardo Sanguineti, Andrea Zanzotto, ognuno introdotto da relatori del calibro di Maria Corti, di Cesare Segre, di Gianfranco Contini. Anche se, dopo due anni, gli incontri di poesia furono abbandonati, «la poesia - precisa Boccardi - restava e resta nel titolo della rassegna sanmauriziana: poesia in senso lato, come momento dell'avverarsi del messaggio artistico (del poiein), così naturale e accessibile nel contesto magico, architettonico e pittorico, spaziale e acustico di San Maurizio». Che in quel luogo si facesse e vivesse poesia dovette essere chiaro fin da subito, già al concerto inaugurale:

È un luogo splendido, insigne monumento cinquecentesco ricco di affreschi di scuola leonardesca (Luini, Boltraffio, Lomazzo): l'acustica è perfetta [...]. Il programma [...] è risultato eccellente per la presenza di due artiste di elevate qualità, Hannelore Müller (viola da gamba) e Emilia Fadini (cembalo), che dai loro preziosi strumenti hanno tratto suoni di sicura bellezza. (Corriere della Sera, 15 ottobre 1976)

A risuonare, percorso dalle mani di Emilia Fadini, era un prezioso cembalo Taskin del 1780, proveniente dalle Civiche Raccolte del Castello Sforzesco, gentilmente prestato per l'occasione: per circa vent'anni sarebbe rimasto a San Maurizio, anch'esso da protagonista; e Boccardi ricorda «l”apprensione amorevole di Clelia Alberici, direttrice delle Civiche Raccolte del Castello, che raccomandava di mettere al Taskin, durante l'inverno, una copertina di lana».
Il concerto affidato a Emilia Fadini e Hannelore Müller dell'ottobre del 1976 inaugura il susseguirsi di appuntamenti, stagione dopo stagione, con esecutori divenuti oggi i più acclamati interpreti della musica del passato: già limitandosi ai primi dieci anni di attività di San Maurizio, si incontrano i nomi (qui in ordine sparso e tutti d'un fiato, così da rendere la vertigine di simili abbacinanti proposte concertistiche) di René Jacob, Sigiswald, Barthold e Wieland Kuijken, Kenneth Gilbert, Alan Curtis, Ensemble Sequentia, Musica Antiqua Köln, ]ordi Savall e il suo Hespèrion, Ton Koopman, Gustav Leonhardt, Hilliard Ensemble, Nikolaus Harnoncourt, Christophe Rousset, Gabriel Garrido, James Bowman, Christopher Hogwood, Frans Brüggen, Anner Bijlsma. E, parallelamente, oltre a portare in Italia fin dagli anni Settanta le avanguardie della musica antica, San Maurizio contribuisce a dare spazio e a far emergere le nuove forze italiane impegnate nella prassi esecutiva storica, «con il loro timbro particolare e la loro fantasia istintiva, e con un bagaglio di studi fatti seriamente all'estero. Partiti in ritardo, ma - è Boccardi a parlare - già protagonisti di primo piano, quando non riposassero sui primi allori»: tra gli altri, Chiara Banchini, Roberto Gini, Lorenzo Ghielmi, il Giardino Musicale (che negli anni sarebbe divenuto «armonico»). Il successo della rassegna prosegue nel tempo, attraversando la Milano da bere degli anni Ottanta - in cui San Maurizio talora diviene anche un'occasione à la page, con le fotomodelle sedute per terra a gustarsi i concerti -, sino al monumentale progetto dell'esecuzione integrale delle Cantate di Bach, avviato e concluso in dieci anni a partire dal 1994, che, per quanto gestito dalla Società del Quartetto e dal Comune di Milano, del seminato di San Maurizio è stato in qualche modo una luminosa emanazione.
Molti gli appuntamenti sanmauriziani rimasti memorabili, dalla Messe de Notre-Dame di Guillaume de Machaut proposta dall'Ensemble Musica Antiqua nel 1978, fino al concerto dell'Ensemble Sequentia di Colonia dedicato a Dante e i trovatori, con gli strumentisti che si muovono nello spazio, tra il pubblico, o ancora, nel 1979, al concerto dell'Hespèrion XX di Savall che vede i musicisti dislocati in parte sui matronei, in parte dietro gli stalli lignei, in parte sulla pedana, con effetti stereofonici di grande suggestione, a ribadire, nel suggestivo incantesimo acustico, l'assoluta simbiosi della musica con un luogo capace di incarnarsi in pura vibrazione sonora. E vivo nei ricordi di Boccardi è il momento dell'inaugurazione nel 1982 del cinquecentesco organo Antegnati fresco di restauro.

È un momento di alta suggestione quando Gustav Leonhardt, prima di dare inizio al concerto, apre le ante dello strumento. Il gesto è immediatamente compreso nel suo significato simbolico e scoppia l'applauso del pubblico. Al recital di Leonhardt, seguono nei giorni immediatamente successivi quelli di Luigi Ferdinando Tagliavini e di Michael Radulescu.

Sandro Boccardi oggi sorride ricordando i primi anni di San Maurizio, quando la possibilità di organizzare una nuova stagione era ogni volta un'incognita, quando gli amici che giungevano al concerto e lo vedevano vendere i biglietti si fermavano ad aiutarlo. Di incommensurabili esperienze umane e artistiche di cui è stato il motore narra con un'umiltà disarmante, ma lo sguardo (a ragione) tradisce la gioia orgogliosa del proprio operato. Ora, soprattutto, si concentra sull'altro suo amore, la poesia; e confida come nel leggere e porgere i propri testi poetici ripensi al musicista che si sposta nell'aula di San Maurizio, sperimentando verso quale punto e con quale intensità sia più opportuno indirizzare la voce. Nei versi di Boccardi ritorna, rarefatto, il binomio musica e poesia, a mo' di suggello di un credo fattosi realtà, e generosamente donato a Milano:
Il gesto il suono il logo
sono scintille rapide nel cielo
piccole tracce dell'effimero.
Eppure eppure Icaro ripunta l'ala precaria
dove il verbo s'incarna e il tempo s'ineterna.
Davide Verga
(da "Milano, laboratorio musicale del Novecento", Archinto, 2009)

martedì, ottobre 21, 2025

La «La cravatta bianca» di Beniamino Dal Fabbro

Beniamino Dal Fabbro (1910-1989)
Non sembri strano che di un libro di 
prose, apparso in una collezione di poesia, si parli in una rivista di musica. Ma «La cravatta bianca» (Mondadori editore, collezione «I poeti dello specchio») è di Beniamino Dal Fabbro, uno dei quattro o cinque critici musicali cui bisogna portare rispetto. Ciò non vuol dire che si possa o si debba, per cortigianeria o pavidità, essere sempre d'accordo, con lui. Vuol dire soltanto riconoscere, se non si è degli sciocchi presuntuosi o dei saccenti in malafede, la sbalorditiva cultura e la specifica preparazione di un uomo che combatte e ha sempre combattuto a visiera alzata senza essere scoraggiato dalle sconfitte né esaltato dalle vittorie.
Poeta e traduttore di poeti (esemplari al punto da assurgere a paradigma le sue versioni da Paul Valery, raccolte in un volume edito dal Feltrinelli) ha fra l'altro il dono di possedere la lingua italiana come pochi. Di essa si serve per la costruzione di un linguaggio che proprio nell'esercizio della sua attività di critico musicale piega, nel fervore della polemica o nell'analisi illuminante di una composizione o di una esecuzione, ad impensate e impensabili modalità narrative o ad un`acre ironia di natura enciclopedistica. La prosa critica di Dal Fabbro non grava mai sul lettore, piuttosto lo stimola e talvolta lo eccita, Tal'altra lo ingolosisce e perfino lo irrita sottilmente, sempre lo interessa, facendosi divorare fino all'ultima riga, non compiutamente saziandolo. Perché questo è un po' il segreto del Dal Fabbro esegeta: lasciare aperta ogni possibilità di sviluppo del discorso per le successive puntate. Occasionalmente, il periodare si allarga in ampie volute, ove i vocaboli anziché attingere al barocco (come si potrebbe supporre vistone l'aspetto da lontano) sgorgano con disinvoltura dai grandi movimenti dell'epoca nostra: il simbolismo, il surrealismo e, perché no, il cubismo, il futurismo, il dadaismo.
«La cravatta bianca» si denomina dall'ultimo capitolo, tragico, pietoso e crudele («...potrei scegliere i giorni in cui mi mettevo al collo una cravatta bianca, la mia bella cravatta di seta bianca, in opposizione d'odio e di sfida a quanti indossavano nere insegne, issavano sul nero berretto uccelli rapaci, si decoravano il petto con teschi umani di pirateria e di farmacia su fondo nero...»). Raggruppa prose liriche, saggi, dialoghi, aforismi, caratteri, ricordi, note di viaggio e di taccuino fino a comporre un perfetto ritratto intimo dell'autore. Si tratta, in sostanza, d'una serie di confessioni e non v'è bisogno di leggere tra le righe o di seguire dei corsi di psicanalisi o di psicologia onde comprenderle: l`uomo che si consegna nelle pagine de «La cravatta bianca» è due volte moderno: nella mancanza di esitazioni e nella denuncia della sua condizione di solitario. Le sue debolezze e i suoi furori, le sue passioni e le sue nostalgie, la sua melanconia e la sua esaltazione contrappuntano la carta geografica della memoria da lui disegnata a poco a poco. Colorata con l'ingenuità disarmante della fanciullezza («Firenze dopo il diluvio», con un'interpretazione della citta destinata ad avvinghiarsi ai ricordi personali del lettore in maniera inobliabile); con gli slanci e il ritegno, le effusioni e i pudori della giovinezza, appena stemperati da un'oggettività che sfiora l'indifferenza voluta («Quaderno di Villapluvia» e «Tre stagioni marine», per fare degli esempi); con l'esperienza, da tante prove filtrata, della maturità («Das Leben in Venedig», «Carte veneziane», «Interno I» e «Interno II», tanto per fare altri esempi).
I lombardi in genere e i milanesi in particolare nel capitolo «Carte milanesi» hanno modo di sentire il profumo, tutto e veramente poetico, di una città perduta e chi non ne ha mai vissuto le ore e i giorni rievocati da Dal Fabbro, scopre nello stato emozionale dell'archeologo (ma potrebbe trattarsi di un alluminatore intimista) i costumi e le civiltà di un altro mondo.
L'intero libro trabocca di musica e non solo e non tanto per l'armoniosità del linguaggio, quanto per la presenza vorrei dire fisica della più umana e della più divina delle arti, estrinsecata dalla creazione di atmosfere o dalla rievocazione di compositori e di esecutori o dal tratteggio degli strumenti. «Fu nella sala grande della Pensione Demidoff, dov'era uno strumento di mogano chiaro eccessivamente incrostato di madreperla, che per la prima volta ebbi a sedermi davanti agli avori d'una tastiera, con l`atteggiamento di chi si prepara a trarne dei suoni secondo una qualche regola o tecnica dell'arte» (pag. 21). Ancora qualche citazione. «Al segnale dell`ultime trombe faticherà Rossini a smuovere i suggelli dorati della sua dimora di marmo, a farsi largo tra le opulente figure femminili del trionfo funebre. Dietro l`alto spigolo della navata di Santa Croce, Cherubini aspetterà qualche minuto per non incontrarlo» (pagg. 39, 40), «D'una giovane pianista che ha dato un pubblico concerto nessun giornale osa dare un meritato giudizio negativo e nemmeno alludere a un suo grave fallo di memoria, mentre a insigni e anziani concertisti si sogliono addebitare le note false incidentali. Si viene poi a sapere che alla virtuosa è padre un colonnello dei carabinieri» (pag. 50) E Donna Laura? (pagg. 66, 67). E la musica in Via San Marco? (pagg. 112, 114). E i vari aspetti della musica a Venezia (pagg. 150, 151; 160, 161; 165, 166) e anche a Villapluvia? (pagg. 231, 235). E poi «Un alloggio nel melodramma» e il «Dialogo di Florestano e di un amico» e la recita della «Mignon» di Thomas.
Su tutto il libro s`innalza una testimonianza d'amore tenero e disperato per quel pianoforte nel cui crepuscolo (oggetto di un indimenticabile libro di Dal Fabbro, edito da Einaudi) sono destinate a dissolversi alcune delle pagine più belle della storia della musica. Questa testimonianza s'intitola «Pianoforte sul mare» e va dalla pagina 193 alla pagina 196, terminando con la seguente frase: «Stanotte vorrei ascoltare da questo muretto sepolcrale rosicchiato dalla salsedine gli echi del concerto, il piccolo, gracile, futile grandinìo del pianoforte laggiù, lontano dalla vita come dalla morte».
Giovanni Attilio Baldi
("Disclub" 19, anno IV, marzo-aprile 1966)

sabato, ottobre 11, 2025

Magister Umidus

Claude Debussy (1862-1918)
Non molti giorni or sono, nella Sala Regia di Palazzo Ve
nezia, in uno dei concerti di musica da camera organizzati dalla Radio, ho riudito La Sonata per violino e pianoforteil Trio per arpa, viola e flauto di Claude Debussy. E una volta ancora la sonorità larvale di queste musiche mi ha rammentato la disperata maledizione che il pellerossa pronuncia contro se stesso.
Silenzio!
Ecco attaccano le prime note del Trio:
«Mia madre mi ha generato nella pioggia e nella nebbia, perché io pianga come la pioggia e sia lacerato come le nubi. Maledetto il giorno della mia nascita, maledetta la notte nella quale fui concepito».
Mirabile relazione tra le leggi biologiche e le leggi religiose che lo spirito dell'uomo si è creato quaggiù. La biologia insegna che la condizione necessaria alla fecondazione dei germi è il buio perfetto. Come non scoprire una ineffabile relazione fra questa legge e la legge «religiosa» che impone di chiudere l'accoppiamento dentro l'angusto buio della notte? Uomini e donne si accoppiano anche in altre ore del giorno, e gli adulteri usano incontrarsi per lo più nel medio pomeriggio; ma sono accoppiamenti sterili.
Musica «geografica». Tale soprattutto la musica spagnola. Tale anche la musica russa. E s'intende che musica in cui il carattere geografico è dominante, è una musica inferiore - anche la musica dei «Cinque» dunque, con tutto che così bella e sonora di nostalgie - ma la sua tanta bellezza trae principalmente dall'anima del territorio, e dunque ha sempre un che di infinitamente patetico ma assieme di caduco, di mortale.
Anche la musica francese è «geografica», e questa sua sommissione alle ragioni terriere determina un suo costante stato di inferiorità, la vieta un alto e libero volo.
Da qui il suo perpetuo sforzo di volare -la sua insistente «leggerezza».
Mi riferisco soprattutto a Debussy, ossia al più francese dei musici francesi. Il quale, come una perfetta guida meteorologica, avverte che la Francia è paese umido e ventoso.
Ventosa è anche la musica di Franck il belga, la cui opera rientra nell'aura della musica francese. Costui diceva «les éoliennes», ma in verità si tratta della morne plaine di Waterloo percorsa da venti continui e di onda lunga. (Cfr. soprattutto la Sonata per violino e pianoforte, che propriamente è la messa in musica di una corrente d'aria).
La musica di Debussy è molle, fradicia, sgocciolante. Anche quella dell'ultimo periodo è più corposa, come la Sonata per violino e pianoforte citata in principio. Essendo bagnate le sue ali, il suo volo è basso e greve.
La voce di Claude Debussy suona gemente fra le nebbie. Dalle quali emerge talvolta come un liquido un fantasma, un fantasma di annegato, la faccia melmosa e lunare di lui: magister Urnidus.
Non riesco a sentire musica di Debussy, e non vedere assieme la faccia del suo autore. Pochi musici somigliano fisicamente alla propria opera, quanto colui che Gabriele D'Annunzio, nel Mistero di san Sebastiano, chiama magister Claudius. In questa mania di Gabriele D'Annunzio di cambiare i nomi anche delle persone, e di Ildebrando Pizzetti fare Ildebrando da Parma, di Claude Debussy fare magister Claudius, di Daniela Palmer fare Palma Palmer (di Giovanni Pascoli, D'Annunzio aveva tentato di fare «Giovanni di San Mauro»), è la spiegazione di quella lingua specialissima di Gabriele, nella quale le parole hanno un aspetto, un suono e un sapore diversi da quelli delle parole usuali, aderenti alle cose che esse nominano e piene del loro significato. Alcune musiche di Beethoven sembrano scritte da un volto giovanile, altre da un volto senile, ma diversissimi entrambi dal volto giovanile e dal volto senile di Beethoven. Debussy invece sembra non avere altra cura nella sua attività di musico, se non di scrivere il proprio ritratto perennemente, con una scrittura sonoramente diffusa e soprattutto liquida. Perché Debussy non è soltanto un nome scritto sull'acqua, ma è un volto ancora scritto sull'acqua, questo musico ofeliano. E non appena laggiù sul podio il maestro direttore, nero e preciso nella sua coda di rondine, e così diverso da Monsieur Croche «antidilettante», attacca le prime battute di Iberia, ecco che il volto di Debussy mi riappare nella mente; emerge sullo specchio d'acqua della mente; trapela sull'acqua stagnante della mente; si stende gonfio di sonno tra le ninfee immobili e marcescenti che le mani di un altro Claude - Monet - hanno sparso su questo stagno immobile come la morte, nel quale si fondono e muoiono per annegamento tutti i colori; i tratti ingreviti e allungati dal tempo, le palpebre pesanti e lunghe, e lunghi e pesanti i lobi delle orecchie, e lunghe e pesanti le labbra. E guardando questo volto che lentamente si sfalda nell'acqua e sul quale pesa a tocchi leggerissimi le sue zampe di vetro filato una zanzara gigantesca; soffocato da questo silenzio, da questi fiori di nebbia, da quest'aria di gomma strutta in cui non una eco rimane, non il più pallido ricordo sopravvive di un cielo turchino, di un cirro bianco, di una folgore che balza fuori dalla nube, di una voce che canta, di un uomo che chiama, di una donna che grida, di un bimbo che piange, di un uccello che passa, di un pesce che guizza, di una ghianda che cade giù dal platano, di un'acqua che corre, di un bue che muggisce, di un cane che abbaia, di un asino che raglia, di una gallina che chioccia, di una foglia che stormisce al vento, di un dormiente che sospira, di un treno che passa, di un piroscafo che fischia, di un motore che romba; mi torna su da un lontanissimo fondo di immagini dimenticate, spinta su da un fiato prigioniero, da un'umida angoscia, questa considerazione assurda: «Guarda, guarda Ofelia che ha messo la barba...» E a
proposito delle orecchie di Debussy, giova anche ricordare quel turco che era arrivato all'età di centocinquantaquattro anni, quando fu chiesto in isposo da un'americana, il quale ogni cinque anni aveva come una spinta di crescenza, che gli aveva allungato i lobi delle orecchie fino alle spalle.
Eppure Iberia, questa sequenza di immagini sonore ispirate dalla Spagna e alla Spagna dedicate, è la meno debussiana delle musiche di Debussy; tanto vivo è il sangue della Spagna, ostinato a non lasciarsi sopraffare da quel sinuoso, da quel dolciastro, da quell'avvolgente e asfissiante invito alla morte che sono i suoni di Debussy. Perché della morte la Spagna ha il gusto, né giova in questo luogo ricordare quanto e in quale modo lo ha saputo dimostrare, ma la morte spagnola non conosce preparazione, è una morte viva, un salto improvviso e spensierato nella morte; diversamente dalla musica di Debussy che è tutta una preparazione alla morte, e forse per questo in fondo essa è una maniera esangue di non morire, una vita minima e allungatissima, una debolissima e pallidissima forma di immortalità. Un giorno d'altra parte bisognerà disegnare l'atlante della moda nelle arti, seguire i suoi spostamenti sulla palla dell'orbe, indicare come fino a Berlioz l'Italia ispirò i musicisti francesi (Carnaval romain, Benvenuto Cellini, Aroldo in Italia) e come di poi questo compito se lo è preso la Spagna, ispirando Bizet, Debussy, Ravel.
Torno a guardare la faccia lunare di Debussy, immersa nell'acqua verdastra dello stagno. E a poco a poco la faccia di Debussy sparisce e solo l'orecchio rimane visibile, unica parte essenziale della testa di magister Claudius. Debussy è il più immusicato dei musici.
Colui nel quale la musica come vizio inibitore di tutte le facoltà che non sono quella dell'audizione esterna e dell'audizione interna dei suoni: facoltà di pensare, facoltà di guardare, facoltà di sentire, arriva alle sue conseguenze ultime. E l'orecchio di magister Claudius, enorme e grasso come una molle conchiglia, si posa più che in ascolto, si posa in ascoltazione sulla pelle della natura; e diventa microacustico per cogliere l'infinitamente piccolo dei suoni, siccome il microscopio coglie l'infinitamente piccolo degli aspetti. Perché il moto di avvicinamento dell'arte alla vita iniziato da Bizet, e del quale ho parlato un'altra volta a proposito della Carmen, continua ancora. E siccome Bizet ha staccato la musica dalla sua sublime convenzionalità e l'ha avvicinata alla vita naturale, Debussy per parte sua accorcia ancora le distanze, le abolisce addirittura, e il suo orecchio tocca, aderisce, s'incolla al corpo della natura, per cogliere le sue voci più piccole, le sue confessioni più gelose, come l'orecchio del medico si posa sulla schiena dell'ammalato per cogliere il canto profondo dei suoi bronchi. E ogni prospettiva manca nella musica di Debussy, questo più «naturale» dei musici, quella prospettiva che fa maestosa l'arte e solitaria, e sacra come un altare. E i suoni naturali sono colti nella loro nuda intimità, nel loro naturale disordine, nella loro disperata alogicità, nella loro distesa noia nel tempo, nella loro abbandonata inerzia nello spazio. E il tema manca, che è creazione e arbitrio dell'uomo, e non rimane se non un pulviscolo di elementi per terra che appena appena si muovono come dei vermi neonati, uno sciame di elementi minimi nell'aria, un nugolo di bollicine che salgono dal fondo del mare a un pieno così totale di esistenza, che non lascia buco, di una volontà di uomo. Natura sommerge l'uomo come una foresta tropicale, come un mare di sabbia, in un correre continuo di cose che sfuggono all'esame, si sottraggono al giudizio, e passano attraverso i filtri più stretti della volontà umana; un ondeggiare senza posa, un brulicare senza fine, un brillare ininterrotto in tanto continuo e universale essere, che l'essere stesso dell'essere si disgrega e sparisce. Quale altra causa cercare a questo non essere della musica di Debussy, a questo suo non lasciare traccia di sé, non memoria di suono; quale altra causa di questo suo essere troppo, di questo suo essere tutto? L'alleanza tra arte e natura è ormai perfetta. Nessun di più è consentito. Ed è per questo che la musica arrivata a Debussy, è come una locomotiva arrivata ai respingenti di un binario morto; e le tocca tornare indietro, ritornare a Bach, ritornare alla sua regione solitaria e astratta, lontana dalla natura allettatrice e deleteria.
Alberto Savinio
(da "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, Einaudi 1977)