Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, settembre 20, 2025

Beethoven: Amico per sempre...

I vecchi amici ci abbandonano, amici nuovi vengono a 
noi. Se non oggi, questi a loro volta ci abbandoneranno domani. Volti che s'immergono nel buio di ieri, volti che emergono dal buio di domani. Sguardi che si spengono e sguardi che si accendono. Perdite e acquisti. Separazioni e ritrovamenti. Che alternarsi continuo! Che rimutarsi fatale! E come gli stessi morti continuano a rivivere per noi, a rimorire! E come i vivi talvolta spariscono a un tratto più che morti! E come voci che cantarono un secolo, due secoli, addietro tornano ancora come le stagioni! E come altre voci che appena ieri cantavano non tornano più! Tutti caduchi però più o meno, incerti, deboli della debolezza mortale, schiavi del tempo che presto o tardi li corrode, li distrugge, li annienta.
Solo lui, Beethoven, non ci abbandona mai.
L'altro ieri eravamo wagneriani, e ieri non più. Oggi siamo di nuovo wagneriani sebbene in altro modo, ma di domani che possiamo dire? Un giorno, fastiditi dalla ginnastica balorda dei giganti, assordati dalle continue minacce di un destino michelangiolesco, credemmo trovare nella spudorata frivolità di Rossini l'antidoto salutare, sperammo potesse aggiungere quel formidabile mangiatore di pasta asciutta la sua parte di suoni alla malinconica serenità della statuaria greca. Ma l'indomani subito che una opaca desolazione era calata sul Mediterraneo illusore, invocavamo già con nostalgia le melodie filiformi del pallido Bellini, spingevamo il cinismo fino a desiderare le ariette di Don Gaetano Donizetti, che chi sa per quale associazione di ricordi richiamavano alla nostra mente la trasformazione di Pinocchio in ciuchino. Altre volte ancora non trovavamo salvezza se non nelle pierotterie lunari di Robert Schumann, e la faccia scimmiesca e occhialuta di Franz Schubert ci si presentava come l'ultimo rifugio dell'illusione musicale. E possiamo negare di aver scoperto un giorno nel Trovatore il patos supremo degli eroi innamorati? Possiamo negare che persino il larvale magister Claudius trattenne un quarto d'ora, è vero, la nostra attenzione? Possiamo negare che delusi all'ultimo da tutti i morti, schifati e dai classici e dai romantici, offrimmo il nostro cuore intatto ai moderni, ai frenetici; poi lo passammo ai negri del jazz; e poi dimessa ogni speranza invocammo il caos, il nulla, il silenzio eterno?
Solo lui, Beethoven, non ci abbandonava mai, non ci ha mai abbandonati. Amico fedele, amico per sempre.
Quanto alle preferenze che taluni possono avere per altri musicisti, quanto allo stimarli più alti di lui e più puri, esse preferenze, essi giudizi sono transitori per loro natura, instabili e di carattere illusorio.
A ben considerare, è in momenti di malumore soltanto, è solo con animo deluso, è solo in qualche crisi di scetticismo che ci si sorprende a dire: "Mozart, Bach, Scarlatti sono più grandi di lui".
Queste preferenze celano sotto qualcosa del pis-aller, s'intonano a certe nostre disposizioni isteriche, a sovvertire il valore delle cose, a capovolgere la gerarchia dei valori, a prendere a calci la serietà della vita, a negare la grandezza dell'arte, a disprezzare il nostro stesso destino. Chi è che non traversa, che non ha traversato queste crisi di dispetto?
Ma non appena l'animo si placa, non appena si rasserena l'umore e le speranze ritornano a fiorire e l'avvenire riapre le sue porte, è lui, sempre lui che ci ritroviamo accanto, con la sua faccia camusa e la sua fronte gibbosa di genio sicuro, garantito, senza trucchi.
Perché Beethoven si è stabilito ormai nella nostra mente con quella saldezza, con quella immutabilità come nella memoria il ricordo, il volto di nostro padre.
Anche se non lo vediamo, anche se non pensiamo a lui, lo sentiamo presente tuttavia e consolatore.
La sua amicizia forte sappiamo che non ci farà mai difetto. Non ha le esigenze né le incertezze dell'amore, ma è generoso e dà senza chiedere.
Se il suo volto è severo per lo più, cupo alle volte e accigliato, che importa? Noi conosciamo bene quanto delicato, quanto amoroso, quanto tenero sa essere pure a noi il fantasma di nostro padre, il fantasma di Beethoven.
Rivivono in lui, nella sua voce, le cose migliori della nostra vita: ricordi che l'oblio non ha sommerso, memorie che hanno in sé virtù di non morire, diritto d'immortalità.
Ed è per questo che in sogni sereni e senza angosce, egli ridesta in noi fatti memorabili della nostra infanzia e della nostra gioventù, quelle memorie che il ricordarle ci conforta, le nostre azioni più nobili, più pure, più feconde. E lui, guidandoci per quel giardino calmo e bagnato di una luce tenue ma immutabile, ci tiene per mano come Chirone teneva Achille giovinetto.
È facoltà del suo animo nobilissimo non lasciare pentimenti in noi, e tanto meno nostalgie. Non agitazioni né sconforti, non quegli entusiasmi vacui, quelle vane esaltazioni che quando sfumano, ti lasciano balordo e con la bocca amara.
È l'uomo dal grande cuore lui, il consolatore per eccellenza. E quando sei smarrito, uomo, deluso, solitario e ogni speranza dintorno ti svapora come nebbia al vento, ripensa a lui, riascolta la sua voce, e subito risentirai il caldo generoso della vita, e ti assicurerai che tutto quaggiù non è deserto, ma è alcuna cosa ferma, stabile, sicura.
Taluni lo chiamano Titano. Canaglie! Come si fa a coprire di ridicolo l'uomo più rispettabile del mondo? Lui soprattutto che tanto delicato era nel non eccedere statura d'uomo? Lui così savio e indulgente? Lui che nei momenti pure in cui più alto si tirava, come nel quinto concerto per pianoforte e orchestra, o nella Sonata opus 106, e nei quartetti, si guardava bene dal superare la misura buona? Lui che spingeva la civetteria fino a non celare la fatica? Lui così "greco"?
La sua voce, in cui taluni incorreggibili maniaci del gigantesco sentivano non so che brontolar di temporale, ha veramente la dolcezza della paterna voce che dà consigli saggi e disinteressati.
Nelle estati folli o negli inverni pacifici, negli autunni morbidi o nelle primavere purulente, nelle campagne ossessionate dagli spettri elementari o nelle vaste metropoli ossessionate dagli spettri elettrochimici, nel gelo della solitudine o nel tepore della compagnia, nell'amore o nell'odio, nella speranza o nella disperazione, nel buio o nella luce, nel meriggio o nella mezzanotte - tu, Beethoven, dolce fantasma, per confortarci a consumare la vita, per confortarci a credere e a operare, stacci vicino né mai ti allontanare dal nostro fianco. Ascoltaci. Guarda come siamo soli e come tutti ci abbandonano. Resta con noi. Continua fino all'ultimo a guidarci, come finora ci hai guidati. Di questa tua grande bontà
non ti ringrazieremo mai, perché ti si farebbe offesa.
E ora caliamoci pure nel sonno senza timore: sordo e malato il vecchio Beethoven vigila su noi.
Alberto Savinio
originale su "La Nazione", 3-4 maggio 1936
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

mercoledì, settembre 10, 2025

Gustav Holst

Gustav Holst (1874-1934)
Con la morte di Handel, avvenuta nel 1759 si assiste 
alla progressiva rarefazione di musicisti. Di fronte all'allarmante fenomeno l'Inghilterra reagisce importando compositori dall'estero e acclama quindi Geminiani, Cherubinj e Haydn. Si arriva così all'Ottocento, secolo parimenti dominato da figure minori. Si può dire infatti che l'Ottocento musicale inglese non è quasi esistito o, se è esistito per una inevitabile legge cronologica, lo stesso potrebbe definirsi «a century of musical nonsense», un secolo di sciocchezze musicali. Nella seconda metà dell'Ottocento si stabiliscono comunque in Inghilterra due musicisti interessanti: Hubert Parry e l'irlandese Charles Standford. Nasce Elgar. I primi due citati, per quanto prolifici, sembrano più consci della necessità di educare le future generazioni di musicisti, quasi a riscattare il vuoto pauroso che minaccia di allargarsi. Alla fine dell'Ottocento Elgar inizia a produrre. La sua prima composizione importante «Dream of Gerontius» avrà la fortuna di trovare un interprete che ne decreterà il successo in terra straniera: Richard Strauss. In patria, però, Edward Elgar trova subito una fitta schiera di detrattori, la esistenza dei quali è logica conseguenza del disorientamento in cui brancolava il pubblico da quasi un secolo. Si afferma che la sua musica è salottiera, orecchiabile e che reca tracce troppo marcate d'influssi teutonici. Nessuna delle critiche colpisce nel segno, né tiene conto della mancanza di una tradizione sinfonica continuativa per cui alle generazioni dei nuovi musicisti non restava che guardare alla Germania di Wagner o alla Francia di Debussy e Ravel. Elgar scopre onestamente le sue carte senza colpi di scena e offre il suo ingenuo lirismo spesso tinto di modi popolari alle generazioni disorientate ed affamate di novità. Queste però gli restituiscono l'ingenuo messaggio liquidandolo con frasi da sarcastico columnist. Non avvertono, prese come sono dall'accidia, che Elgar rappresenta il nuovo esordio della musica inglese, basato sul riproponimento di una forma sinfonico-corale, forse un'eco non ancora spenta dell'oratorio handeliano e raccolta dopo centocinquant'anni. L'esempio di Elgar verrà infatti ripreso da Vaughan Williams e dallo stesso Holst. Il primo infatti esordisce come sinfonista con la «Sea Symphony» per soli, coro e orchestra su testi di Walt Whitman e il secondo comporrà nel 1922 una «Choral Symphony» per soprano, coro e orchestra. E' difficile quindi non riconoscere in Elgar la paternità quantomeno putativa della rinascenza musicale inglese.
Holst, che nasce a Cheltnenham nel 1784 da una famiglia di musicisti d'origine svedese, si trasferisce nel 1893 a Londra per studiare alla Scuola Reale di Musica dove appunto insegna lo Standford. Qui egli trova come compagno di studi Ralph Vaughan Williams che dovrà diventare il massimo esponente del sinfonismo inglese. Lo Standford cerca d'infondere nei due allievi il magistero del contrappunto e il gusto per la melodia popolare, componente importantissima di tutto il Novecento musicale inglese. Holst disdegna il pianoforte e impara il trombone adattandosi a suonarlo nell'orchestra della Carl Rosa Opera Co. Dopo aver conseguito i necessari diplomi e titoli di studio, si dedicherà alla composizione ed all'insegnamento presso il Collegio Femminile di San Paolo per il quale comporrà la Saint Paul's Suite per archi (1913) che è una delle sue composizioni più note. Il 1934 sarà l'anno più triste per l'Inghilterra musicale perché vedrà la morte non solo di Holst, ma anche di Elgar e di Delius.
Una vita apparentemente poco interessante quella di Holst, ma ricca di problemi interiori e di ricerche incessanti. Già egli in compagnia dell'amico Vaughan Williams si era attivamente interessato di melodie popolari e le aveva amorevolmente raccolte, restituendone il fascino intatto in due composizioni autonome, «Six Choral Folksongs»› per coro maschile e «Twelve Welsh Folk-songs» per coro a cappella. L'interessamento di Holst e di Vaughan Williams per la musica popolare coincide anche con la fondazione della English Folk-songs and Dance Society ad opera di Cecil Sharp che fu il primo a stimolare la ricerca del patrimonio folklorico musicale inglese.
E proprio agli albori del Novecento si verifica un fatto sintomatico e di grande rilievo per le generazioni di musicisti europei che faranno astrazione dalla rivoluzione schönberghiana: la ricerca sistematica del folklore musicale e l'impiego di esso quale componente inscindibile del linguaggio. Troviamo quindi in Ungheria, Bartok e Kodaly, Janacek in Cecoslovacchia, in Francia, Debussy e Ravel adotteranno la scala esatonica e melodie basche, Hindemith in Germania, Respighi in Italia si rivolgerà a fonte ancora più antica: il gregoriano. Tale fervore è sintomo forse della necessità di un rinnovamento del linguaggio, rinnovamento attuato senza radicali rivoluzioni della sintassi. Certamente anche nell'Ottocento europeo numerosi compositori avevano attinto al patrimonio popolare, Liszt, Chopin, Brahms e Dvorak. Si trattava però di folklore abilmente travestito. Basta pensare alle rapsodie ungheresi di Liszt e di Brahms per rendersi conto che la melodia popolare vestita in abiti da sera suona troppo falsa!
Holst avverte in pieno la portata della rinascenza folklorica ed istaura con Vaughan Williams una corrente musicale tipicamente inglese e consapevole del fatto che il linguaggio deve progredire, mentre Elgar rimarrà pur sempre ancorato all'epoca vittoriana alla quale erano meglio accette le regole che le eccezioni.
Le influenze subite da Holst, ma assimilate soltanto in minima parte nel periodo formativo, possono riassumersi in un moderato wagnerismo iniziale. L'inf1usso del cromatismo wagneriano si evidenzia nei primi lavori meno impegnativi (buona parte dei quali reietti in seguito dallo stesso autore), ma si spezza e scompare con la scoperta del folklore il quale innesta una corrente neomodale. in Vaughan Williams l'esperienza neo-modale è più scoperta e si lega intimamente con l'impressionismo raveliano. Il Vaughan Williams era stato infatti allievo di Ravel a Parigi e subì in modo più diretto la lezione dell'impressionismo francese.
Anche Strawinski eserciterà su Holst un influsso modesto e comunque limitato all'ambito di certe soluzioni ritmiche e coloristiche. L'aver poi abbracciato una parte della cultura orientale (Holst studiò addirittura il sanscrito!) allargò vieppiù gli orizzonti del musicista. Ma non si trattò di evasione o di ricerca di un facile esotismo. Il Tovey giustamente vedeva in Holst «la vera espressione della nostalgia dell'occidente per l'oriente»Va rilevato inoltre che in quel periodo anche una buona parte della letteratura inglese denunciava una forte attrazione per le cose d'oriente. L'esperienza del sanscrito si ritrova soprattutto nelle opere «Rig Veda»«Sita», «Savitri» e «Beni Mora» che appartengono tutte ad un periodo creativo intermedio di Holst.
Complessivamente la musica dell'inglese ci appare tinta d'impressionismo. Non mosaico di frammenti, macchie sonore. Piuttosto, successione logica di momenti creativi in un quadro del tutto unitario. Si verifica in Holst, più che in Vaughan Williams, l'allentamento del tematismo e di conseguenza la impossibilità di continuare un discorso sinfonico secondo i canoni della sonata classica. (Tale impossibilità è più che mai evidente nelle opere della maturità di Leos Janácek, compositore atematico per eccellenza). L'impressionismo di Holst non è pura vernice; è risultante profonda, emozione sofferta e restituita in musica. «Egdon Heath» (1927) e «Hammersmith - Preludio e Scherzo» (1930) (i titoli delle composizioni corrispondono a precise località inglesi) sono capolavori del genere. Il primo ricrea il fascino straordinario di un bosco in autunno, colle sue atmosfere rarefatte e sospese e con un senso di desolazione rotto a tratti da una melodia popolare che si raggela come nebbia lontana. «Hammersmith» invece espone il dualismo tra vita quotidiana (il laborioso sobborgo di Londra dal quale trae il titolo) e vita contemplativa (il lento e compassato trascorrere del Tamigi).
Holst aveva scritto: «Studio soltanto le cose che mi suggeriscono musica». Anche «I Pianeti» composti tra il 1914 e il 1917 sono una interpretazione tutta personale e moderna della «musica mundana». Col suo senso di autocritica Holst arrivò persino a dispiacersi quando seppe che quest'opera era diventata popolare. Egli implicitamente affermava che un'opera d'arte diventava automaticamente superata nel momento stesso in cui era creata. Il passaggio continuo attraverso le più disparate esperienze testimonia tale sua costante insoddisfazione che e anche superamento, progresso. La definizione di Sir Malcolm Sargent: «he was a mystic, but not consciously a religious one» è doppiamente rivelatrice. Essa spiega sia il tentativo di conciliazione del dualismo antinomico su cui doveva poggiare tutto il mondo interiore di Holst, sia la tensione tutta trascendentale verso il superamento. «Hymn to Jesus» (1917) per coro e orchestra nella prima parte utilizza il testo e la melodia del «Pange Lingua» e del «Vexilla regis» e nella seconda, alcuni inni in lingua inglese. E' opera che può considerarsi religiosa nello stesso senso in cui sono religiosi i mottetti di Brahms op. 74 e op. 111. L'«Hymn to Jesus» è una delle composizioni che inoltre rivela la propensione degli inglesi per il genere sinfonico-corale a grande respiro cui prima accennavamo, ma non è la sola. Al pari di Vaughan Williams che esordì proprio come compositore di musica corale, Holst scrisse una messe di opere per coro e specialmente per quello femminile. Effettivamente i due compositori procedettero per un certo tempo affiancati, partendo da esperienze comuni e si influenzarono a vicenda, in quale misura è difficile stabilire. Sta di fatto che Vaughan Williams preferì avventurarsi sul terreno sinfonico con risultati veramente importanti per la musica inglese, mentre Holst raramente riusciva ad assestare il suo discorso in una forma costante nella quale il tematismo era il passaggio obbligato per giungere alla coerenza, anche se le leggi della forma sonata potevano interpretarsi con una certa elasticità. Cosa del resto avvenuta già nel secondo Ottocento mittel-europeo. Il Tovey scrivendo già nel 1929 su Holst avvertiva perspicacemente in quest'ultimo, nel differenziarlo dal Vaughan Williams, «l'ampia e chiara esplorazione delle regioni pre-armoniche». Holst fu infatti un esploratore che mai si fissò su una singola scoperta.
Per Holst la politonalità e la poliritmia sono elementi già acquisiti mentre per Vaughan Williams fanno ancora parte di una avventura o di una occasione. Anche nei procedimenti politonali di Holst possiamo vedere un tentativo di conciliare un'antitesi.
Si pensi al «Terzetto per flauto, oboe e viola» (1924), composizione veramente unica, nella quale gli strumenti in una formazione già rara e inconsueta, dialogano tra loro in tre tonalità differenti. E' un viaggio ideale lungo tre strade parallele che non si incontrano mai sotto il profilo tonale, ma che procedono tutte verso un unico punto comune che è unità di pensiero. Secondo quanto riferisce Imogen Holst in uno studio straordinariamente obiettivo « The music of Gustav Holst » (Londra, 1951) fu sufficiente che il «Terzetto» fosse scritto in tre tonalità diverse perché noti artisti lo giudicassero ineseguibile. Ma il tritonalismo non è la sola difficoltà. La partitura abbonda di indicazioni dinamiche, repentini cambiamenti di tempo, il tutto nell'ambito di poche battute, oltre a gustosi effetti poliritmici. E' un gioiello finemente cesellato, uno studio di atmosfere che ora si distendono nella enunciazione all'unisono di un tema modale che ricorda il «Dies irae», ora si rapprendono nei cinguettii del flauto in «staccato», ora si liricizzano nel motivo popolare esposto dall'oboe che, alla fine, viene interrotto dal flauto e dalla viola in un morendo da romanza schumanniana.
Altri esempi di politonalismo, però meno impegnato, sono reperibili in alcune composizioni pianistiche, tutte improntate a motivi popolari. A questo proposito, si potrebbe affermare che la musica popolare sta a quella classica, come il dialetto sta alla lingua colta. Sotto questo profilo, certa musica di Holst potrebbe definirsi «dialettale» come quella di Bartok. Anche quest'ultimo era giunto al bitonalismo attraverso lo studio sistematico del folklore non solo magiaro, ma anche rumeno e arabo. Imogen Holst, scrivendo sul padre, sostiene che il linguaggio della musica popolare costituiva una guida per Holst, pur non essendo il linguaggio suo proprio. Infatti, la lezione del folklore era stata assimilata da Holst in tanto in quanto offriva un nuovo modo espressivo, ancorché avesse radici antichissime. Non si tratta pertanto d'imitazione di uno stile. La musica di Holst ci appare talora «pensata» secondo i modi popolari, quando essa già non contenga chiare allusioni a terni e melodie folkloriche, come si verifica nella «Seconda Suite in fa maggiore per banda» (1911) che utilizza melodie dello Hampshire. Nell'ultimo movimento di quest'opera si rinvengono addirittura due canzoni distinte («Dargason» e l'ormai notissima «Greensleeves») sovrapposte simultaneamente.
A distanza di trent'anni, che esattamente tanti ci separano dalla scomparsa di Holst, la sua musica non ha perduto di freschezza, come se fosse stata composta ai giorni nostri. Anche se essa appartiene storicamente alla prima metà del Novecento, la sua stessa poliedricità e molteplicità d'intenti,. ne impediscono una collocazione definitiva Né d'altra parte può dirsi che sia espressione caratteristica di una scuola o di uno stile. E' summa di esperienze sovente disparate tra loro e mai esaurite. N\a assurge anche a simbolo già progredito della rinascenza della musica inglese che, grazie a Holst e a Vaughan Williams è riuscita a riconquistare la propria autonomia. Un bene perduto che ritorna rinnovato in meglio.
Edward D. R. Neill
("Disclub" 8, anno II, giugno 1964)

lunedì, settembre 01, 2025

Isolde Ahlgrimm: L'Offerta Musicale, le Sonate per viola da gamba e gli Harnoncourt

Philips A 00300 L
Il decimo volume delle Opere Complete per Clavicembalo comprendeva l'Offerta Musicale completa, suonata da Ahlgrimm, Rudolf Baumgartner, Alice Hamoncourt, Kurt Theiner, Nikolaus Hamoncourt e Ludwig von Pfersmann. Il saggio di accompagnamento trattava di Federico il Grande di Prussia e della storia dell'esecuzione e della ricezione dell'Offerta Musicale, in cui Ahlgrimm notava il declino della fuga nel XIX secolo. Particolare risalto veniva dato al flauto, e l'esecuzione di von Pfersmann, ancora una volta su un flauto in legno del 1835, era uno dei punti salienti di questa pubblicazione. L'Offerta Musicale, come l'Arte della Fuga, era stata a lungo considerata di natura teorica, in particolare i criptici piccoli canoni. Questa fu la prima registrazione completa dell'opera e ripristinò la strumentazione originale di Bach. La successiva registrazione autentica non sarebbe avvenuta prima di vent'anni dopo, sebbene negli anni '60 esistessero diverse versioni che trascrivevano i ricercari per clavicembalo per orchestra.
L'undicesimo volume era dedicato alle tre sonate per viola da gamba, registrate nel gennaio 1955 da Isolde Ahlgrimm insieme al ventiseienne Nikolaus Hamoncourt, allora violoncellista della Vienna Symphony e allievo di Paul Grümmer. Il suo primo ensemble barocco era stato il Wiener Gamben-Quartett, fondato nel 1950 con Alice Hoffelner ed Eduard Melkus. Questo gruppo aveva anche eseguito l'Arte della Fuga poco dopo, ricevendo recensioni contrastanti. Quando registrò con Ahlgrimm, Hamoncourt, ora sposato con Alice Hoffelner, aveva da poco formato il suo ensemble, il Concentus Musicus Wien. Il violinista e violista Kurt Theiner, cognato di Hamoncourt, nonché membro fondatore del Concentus, si unì agli Harnoncourt nella registrazione di Ahlgrimm dell'Offerta Musicale (BWV 1079). La seguente nota fu aggiunta alla versione originale:

In questa registrazione sono stati utilizzati solo antichi strumenti ad arco italiani della scuola di Amati. Eventuali modifiche e modernizzazioni apportate nel corso del tempo sono state accuratamente rimosse e il carattere sonoro originale è stato ripristinato.

Philips A 00 327 L
Per le sonate per viola da gamba, con Hamoncourt alla parte solista, Josef Herrmann ancora una volta suonava il basso. Nelle note alla sua registrazione del 1956 con Desmond Dupré, Thurston Dart sottolineava che la parte del basso dovesse essere suonata a 16' (sul clavicembalo) quando la parte solista rientrava nell'estensione del basso di 8'. Gli ammiratori dell'opera odierna di Nikolaus Harnoncourt troveranno queste prime registrazioni molto interessanti e, sebbene non corrispondano tecnicamente ai suoi sforzi successivi, lo spirito era certamente propositivo. Ahlgrimm suonava il clavicembalo Ammer del 1937 senza il suono di 4', per ottenere la massima integrazione con gli strumenti ad arco. Ritmo, fraseggio e articolazione in queste esecuzioni sono tutti molto avanti rispetto ai loro tempi.
La viola da gamba, allora ancora agli albori, ha tuttavia fatto grandi progressi da quando queste registrazioni furono realizzate, grazie al lavoro di August Wenzinger a Basilea, dello stesso Hamoncourt e, in misura ancora maggiore, del belga Wieland Kuijken e del suo allievo di punta, lo spagnolo Jordi Savall. Queste prime esecuzioni, le prime delle sonate di Bach realizzate utilizzando una viola da gamba anziché un violoncello moderno, sebbene ben al di sotto degli elevati standard di competenza odierni, sono ancora interessanti dal punto di vista storico. Hamoncourt suonava uno strumento a sette corde costruito nel 1683 da Christoph Klingler, successivamente convertito in violoncello, che Fiala aveva fatto restaurare alle sue condizioni originali nel 1937. Durante il restauro, gli accessori da violoncello del XIX secolo furono rimossi e lo strumento fu dotato dei suoi tasti originali, cosa insolita per suonare la viola da gamba a quel tempo. Per la parte del basso continuo, Hermann suonava il vecchio strumento Johannes Maria del 1530.
Oltre alle tre sonate, era inclusa anche la Trio Sonata (BWV 1038), il modello originale di Bach per la Sonata per gamba in sol maggiore, con Rudolf Baumgartner che suonava un violino della scuola di Amati del 1680, e von Pfersmann che utilizzava ancora il Bürger del 1835. flauto, e Hamoncourt, un violoncello di Francesco Ruggieri, Cremona 1683. Baumgartner, per il quale Ahlgrimm nutriva sempre grande stima personale e professionale, suonava perfettamente a suo agio sul violino barocco (sebbene usasse ancora la mentoniera), e von Pfersmann, che Ahlgrimm considerava uno dei migliori e più sensibili suonatori di Vienna, era anche lui un esecutore elegante, sebbene il suo modo di suonare non fosse propriamente idiomatico come lo intendiamo oggi. La vera rinascita del flauto barocco era ancora lontana.
Tuttavia, l'esecuzione sullo strumento originale doveva pur iniziare da qualche parte, e l'esecuzione di von Pfersmann si collocava forse a metà strada tra il flauto moderno standard e quello del XVIII secolo.
Peter Watchorn
("Isolde Ahlgrimm, Vienna and the Early Revival",Routledge, 2007)

giovedì, agosto 21, 2025

Elijah di Felix Mendelssohn


L'Italia com'è largamente noto ed autorevolmente si 
deplora è il paese più antimusicale del mondo. Nonostante i grandi tenori, i loggionisti di Parma, i mandolini, San Remo e Napoli, o forse proprio a causa di essi, in Italia la musica è la Cenerentola nelle scuole. Non può quindi meravigliare il fatto che un festival dedicato all'Espressionismo come il XXVII Maggio Musicale Fiorentino, generoso tentativo di far capire alla gente che qualcosa si è pur mosso ai primi di questo secolo al di fuori della cinta daziaria di Firenze sia stato accolto dalla grande maggioranza del pubblico e, cosa ben più grave, da quasi tutti i più qualificati rappresentanti della fauna musicale locale come un vero e proprio crimine di lesa patria.
Questo recente episodio di malcostume civile oltre che di ignoranza non solo è tipico di tutta una situazione, ma fornirebbe utilmente lo spunto ad una parabola o ad un apologo critico sulla grama condizione delle cose musicali nel bel paese la dove il si suona, ridotto oggi ad una morta gora provinciale afflitto dal gracidio di burbanzosi e vacui retori, i quali si ammantano dei cenci di un Umanesimo che non ha più senso alcuno.
Non ci si stupirà, stando così le cose, se l'oratorio che è un genere musicale nato in Italia, come dice il nome, e fu illustrato da un Caldara e un Alessandro Scarlatti, musicisti ai quali tesero attento orecchio Bach e Haendel, abbia poi vigoreggiato in Germania e in Inghilterra assumendo col passare dei secoli fisionomia specificamente protestante e sia oggigiorno al di qua delle Alpi un rarissimo genere di importazione e come tale avvicinabile e fruibile solo attraverso rare esecuzioni soprattutto radiofoniche o per mezzo del disco.
Chi voglia coltivare questo fertilissimo settore della storia della musica e non si accontenti di aspettare ogni anno il settembre e prendere il treno per Perugia (almeno finché i valorosi organizzatori della Sagra Umbra resisteranno nella loro disperatissima lotta contro gli scarsi finanziamenti e l'indifferenza locale e romana) dovrà consultare attentamente i cataloghi delle case discografiche e potrà allora colmare molte gravi lacune, sempre che abbia anche il coraggio di sfidare le ire dei soloni della critica per i quali dischi ed analfabetismo musicale sono sinonimi. Noi non dubitiamo, anzi siamo sicurissimi che tutti i nostri illustri critici possiedano perfettamente a memoria la partitura dell'Elia di Mendelssohn, anzi abbiamo la certezza morale che se lo vanno fischiettando per la strada tutti i giorni, ma da poveri dilettanti e ignoranti quali siamo non possiamo non plaudire all'iniziativa della Decca, che nella collana Ace of Clubs, ad un prezzo accessibilissimo, ci mette a disposizione proprio quel raro Oratorio che Mendelssohn scrisse per la città di Birmingham e nella quale fu eseguito il 25 Agosto l846.
Resta per noi un piccolo e affascinante mistero para-musicologico il fascino che il grande profeta solare evidentemente dovette esercitare su quella squallida cittadina industriale (una specie di Campobasso su grande scala) se i suoi musicalissimi abitanti sentirono il bisogno di commissionare nove anni dopo un altro Elia al celebre direttore e compositore Michele Costa. È un inquietante quesito che giriamo al primo solerte critico di tendenza sociologica post-adorniana non riuscendo con i nostri deboli lumi a cogliere il rapporto dialettico tra la produzione di forbici e coltellerie e il fiero nemico di Jezabel e di Achab.
Ci limiteremo pertanto a registrare obbiettivamente il fatto che in una modesta cittadina inglese (e non a Londra o a Dublino) fu allestita la prima esecuzione di questo Elia, con cui l'apollineo Mendelssohn, musicista viziato dalla fortuna, colmato di doni aurei dalle Grazie più di quanto non fosse squassato dal soffio terribile delle Furie, gran signore e supremo dilettante della musica, si accostò per la seconda volta alla Sacre Scritture, dopo aver composto nel 1836 un Paulus, che è arrivato in Italia solo nel 1953. E non si può a questo punto non lodare Gianandrea Gavazzeni per la sua recente ripresa (Aprile 1964) di questo oratorio in un concerto romano che ha avuto accoglienze lietissime di pubblico e di critica. Ma per tornare ad Elia o meglio ad Elijah (che in inglese suona incredibilmente Ilaigia), ad un primo ascolto ci pare che esso si inserisca in uno dei due filoni nei quali il genere dell'oratorio si biforca. Su un versante del sacro monte troviamo Schütz, Bach e Brahms, tutti chiusi nella loro severa corazza polifonica e austeramente ripiegati nella meditazione fervida e in un intimo lirismo che fiorisce, specie nelle arie di Bach, in esempi definitivi e riuscite altissime. Questo filone scorre sotterraneo e ci sembra riconoscerlo solo due secoli dopo nella sovrumana e spoglia grandezza delle due postreme cantate di Webern o nell'affresco di Moses und Aaron. La seconda e più produttiva tendenza prende le mosse dalle gioiose ed estroverse creazioni del musico di Halle ed ha come carattere più evidente il giubilo alleluiatico e la piacevolezza illustrativa. Siamo qui alla Bibbia per i poveri (non c'erano ancora i Fratelli Fabbri), alla divulgazione del verbo sacro in grandi affreschi coloriti e mossi, nei quali tace ormai la voce severa dello storico e scompaiono le pause di fervore religioso dei corali nei quali la Gemeinde si univa agli esecutori, entrando attivamente nel gioco. Il diavolo del teatro fa capolino ad ogni istante a sommo dispetto del Lord Ciambellano che in Inghilterra vegliava geloso affinché non si trascinassero sulle tavole polverose i sacri argomenti. Da Haendel prendono le mosse Haydn con i suoi due oratori così moralistici e biedermeier ante litteram, il Berlioz dell'Infanzia di Cristo e tutta la fioritura dell'Oratorio inglese fino al Sullivan di The Prodigal Song e all'Elgar di The apostles. È un genere narrativo e piacevole in cui al momento giusto si inserisce Mendelssohn con il suo Elijah che può a buon diritto considerarsi cittadino inglese, come The Seasons o il Messia.
Si accennava sopra al dilettantismo di Mendelssohn e sarà bene chiarire che il termine è da intendere in una particolare accezione. È infatti noto come il ricco amburghese fosse un musicista fin troppo esperto ed astuto, grande direttore d'orchestra e fine musicologo. A lui si deve il recupero della Matthäus Passion nel 1829 e basterebbe questo a garantirgli la gratitudine dei posteri. Se si può parlare di un dilettantismo di Mendelssohn, noi lo vedremmo piuttosto in quella sua eterna e un po' sospetta felicità inventiva così priva di sottofondi inquietanti, in quell'essere sempre disposto a tutte le occasioni. Schumann lo esaltò novello Mozart, ma si tratta purtroppo di un Mozart senza il demonismo del Don Giovanni e senza l'orrido della Sinfonia in Sol Minore. È un musicista che ammiriamo e ascoltiamo volentieri, ma che non riusciamo ad amare, in quanto non ci propone mai interrogativi inquietanti. La sua imperturbabile olimpicità di agiato petit-maitre può a volte irritarci. Orbene questi caratteri non sono certo contraddetti da Elia; solo che in questo lavoro, nonostante la consueta lucentezza dell'involucro e la eleganza della confezione, ci pare avvertire un maggiore e più profondo e più sostanziale impegno umano del compositore.
La prima delle due parti in cui l'oratorio si divide è la più convenzionale e specie nella grande ed abilmente impostata scena della sfida di Elia ai sacerdoti di Baal, preceduta dal drammatico scontro con Achab, il modello haendeliano (e soprattutto del Belshazzar) traspare continuamente. Le suggestioni gestuali e teatrali sono continue soprattutto nella condotta delle voci. Non stupisce apprendere che Elia fu rappresentato nel 1923, a Worcester, come dramma musicale, a cura di Charles Manners. Un grande pezzo di teatro è la scena dell'invocazione del popolo per la pioggia, con la voce di fanciulli solisti, che si staglia sullo sfondo del coro.
All'inizio della seconda parte la figura della Regina Jezebel ci mantiene in un clima che con tutte le cautele definiremmo sempre un po' melodrammatico. Il motivo della Regina proterva adoratrice di Baal e persecutrice di Israele doveva affascinare Mendelsson che qualche anno dopo scriverà delle musiche di scena per Athalie.
Ma al momento in cui il profeta solo si rifugia sulla vetta del monte Horeb per sfuggire alla furia di Jezebel, l'ispirazione del musicista prende veramente ala e tutta l'ultima parte dell'oratorio è una grande meditazione sulla solitudine dell'uomo di fronte ai problemi massimi. Elia non è solo. Lo circondano e lo confortano gli angeli (si ascoltino il trio e il coro stupendi all'inizio della quinta facciata) e la Stimmung di questo finale che è unicum nella storia dell'oratorio è quella di una serena accettazione del destino, premiata dal Dio di Israele con la vittoria definitiva sugli infedeli. Abbiamo brevemente sottolineato le tre grandi scene in cui si articola il testo (Elia e i sacerdoti di Baal, Elia e la Regina, Elia sul Monte Horeb) ma non si può dimenticare il breve episodio iniziale della vedova a cui il profeta fa risuscitare il figlio, piccola scena intima o quadretto di genere in cui splende il timbro lucente del soprano Jacqueline Delman, interprete appassionata e rigorosa. Quanto agli altri interpreti non si saprebbe immaginarne di più immedesimati e fervidi. E' questa una edizione autentica e di puro stile che molto deve alla bacchetta sensibile di Joseph Krips e all'apporto dei due cori, dei quali si segnala in modo particolare Io stupefacente coro dei ragazzi della chiesa parrocchiale di Hampstead che sotto la guida di Martindale Sidwell non fanno rimpiangere i piccoli cantori viennesi, per lo smalto delle voci e la limpidezza della emissione. Una lode particolarissima va al tenore George Maran che nella sua prima aria, If with all your hearts you seek Me centra un tono di dolce intimità che ritroviamo con uguale eleganza e rigorosa calibratura, nella deliziosa romanza dei tenori di Sullivan. E non sembri irriverente l'accostamento. La contralto Norma Procter piega una voce caldissima alle sfumature di un'interpretazione che per la tenuta e il livello ricorda la grande Ferrier. Quanto al protagonista, il baritono Bruce Boyce, dotato di voce gradevole e di bello squillo, si cala perfettamente in un personaggio ricchissimo di sfumature psicologiche che vanno dall'ironia e dallo scherno nel dibattito coi sacerdoti di Baal al fervore dell'aria con viola obbligata It is enough, o Lord, nel classico schema tripartito (ABA). Essa è il vero culmine dello spartito e non sfigurerebbe al confronto con le più celebrate pagine di Giovanni Sebastiano.
Tornando alla fisionomia individualissima dell'opera, della quale non ci si stancherebbe mai di illustrare la singolarità, vorremmo segnalarne il carattere prevalentemente intimistico, quasi di oratorio da camera. Infatti Mendelssohn non mira qui ad effetti di grandiosità nei cori o di forte spicco nelle arie. Il suo oratorio è una serie di gemme amorosamente sfaccettate dalla sapiente mano di un prezioso orefice dei suoni, la cui misura è veramente mozartiana. Non c'è la voce dello storico a guidarci nei meandri dell'azione ma entriamo subito e agevolmente in medias res dopo una brevissima introduzione di Elia, seguita da una ouverture. Le arie sono relativamente poche e tendono a confondersi con gli stupendi ariosi (nei quali sono alcune delle più alate riuscite dello spartito) in un tono medio elegiaco ed auletico. Accompagnano caldi gli archi e parsimoniosamente cantano gli strumentini. I tratti descrittivi di marca haendeliana (si pensi alla descrizione delle piaghe nella prima parte di Israele in Egitto) sono relativamente pochi ma discretissimi.
Sarà azzardata l'ipotesi di un influsso diretto di questo oratorio su l'Enfance du Christ di Berlioz (I854)? Comunque ci pare indubbio che questi due piccoli capolavori del romanticismo minore siano molto vicini come atmosfera e ne suggeriremmo un ascolto comparativo.
Nel ringraziare nuovamente la Decca per la sua iniziativa deploriamo la mancanza assoluta di dati storici e di note illustrative, anche se siamo grati per il testo integrale dell'oratorio, che certo non è facile da reperire. L'incisione è buona anche se i cori non hanno un particolare rilievo.
Giulio de Angelis
("Disclub" 9, anno II, luglio 1964)
Nota discografica
Felix Mendelssohn - Elijah, Op. 70
Jacqueline Delman (s), Norma Procter (c), George Maran (t), Bruce Boyce (br), Michael Cunningham (ragazzo - soprano) - London Philharmonic Choir dir. da F. Jackson - London Philharmonic Orchestra dir. da Josef Kríps.
DECCA ACL 220/222 (SERIE ACE OF CLUBS)

lunedì, agosto 11, 2025

I sorci di Barilli

Bruno Barilli (1880-1952)
Tempo fa trovandomi col Maestro Ghedini si venne a par
lare di Brahms e Strawinski e sulle definizioni che di costoro potevano darsi. Ricordo che in proposito egli mi disse: «Veda quel che ne scrisse Bruno Barilli. Legga "Il sorcio nel violino"». Cosi mi diedi subito alla ricerca di quel volume che purtroppo risultò esaurito da tempo, ed introvabile. Neanche a farlo apposta, dopo qualche mese, Vallecchi ristampa tutti gli scritti di Barilli, riunendoli in un volume dal titolo «Il paese del melodramma» e facendoli precedere da una nitida prefazione di Enrico Falqui. Devo dire che niente in questo libro ci lascia delusi tranne il prezzo e quella maledetta mania che aveva Barilli di fare di Verdi la pietra di paragone del tutto. Ma forse dobbiamo credere a De Robertis quando afferma che Verdi fu per Barilli «una torre di dove ferire»? È certo che Barilli non aveva peli sulla lingua se si trattava di demolire, quando non ricorreva a quella eleganza piena di sorprese, basata su un fuoco di fila di aggettivi che solo uno spirito poetico sarebbe capace di sprigionare. E vediamo subito qualche esempio: Brahms: «Costruttore sapiente, autore bucolico e familiare. Si sente in lui la tranquillità del gran mangiatore che ha un grosso cervello da nutrire... Natura dura e massiccia... Severità serena, misura, ordine religioso e moderazione poetica composti insieme con la larghezza un po' tetra d'un nordico riflessivo sono i caratteri che distinguono Brahms dagli altri classici che lo precedono nella storia, e lo superano». La conclusione, per cosi dire, a sorpresa di questo giudizio ha qualcosa di entusiasmante.
Strawinski: «egli aveva nel muoversi, l'aria intristita e pigra di un topo, che ha mangiato l'arsenico».
Casella: «Là dove passa la sua musica, l'erba non rinasce più».
E infine Rubinstein: «Bocca di ranocchio, testa orientale, occhietti rossi d'ebreo, profilo greco tirato per i capelli».
Vivaci ritratti, spiritosi e caricaturali come la sua stessa faccia, inesorabilmente brutta e difficile al sorriso, disarmante. In uno stupendo disegno di Scipione (un pittore che sapeva scavare nell'animo dei personaggi da lui ritratti) Barilli potrebbe essere scambiato per una vecchia signora negata ad ogni propensione per l'indulgenza verso la specie umana. Ma Barilli fu tutt'altro. Era un uomo dotato di troppo buon gusto, intenditore d'arte, viaggiatore (Vallecchi ha ristampato anche il suo «Libro dei viaggi» deliziosissimo), critico, musicista e... poeta in tutte le sue cose e in quelle in cui gli altri si sarebbero invece abbandonati alla comodità della pedanteria accademica e dell'ermetismo.
Si legga quell'impareggiabile ritratto di Bottesini col quale s'inizia il volume. Questo è forse lo scritto più gustoso che sia mai stato dedicato ad un musicista, un rutilare d'immagini, un fuoco artificiale di aggettivi che sbalzano fuori plasticamente la figura del grande virtuoso di contrabbasso. E al povero Bottesini dimenticato da tutti, verrebbe voglia d'innalzare un monumento. E Willi Ferrero? Le pagine dedicate al fanciullo prodigio traboccano d'affetto: ma proprio in queste pagine mi è parso di cogliere un lato oscuro della personalità indubbiamente forte del Barilli, un lato che si presterebbe benissimo ai topi dai quali lo scrittore sembra ossessionato. Egli vede topi dappertutto, parla di topaie, intitola un suo libro «il sorcio nel violino», assimila musicisti a sorci (vedi Strawinski) e sogna sorci che lo assalgono mentre dorme, divorano i suoi manoscritti e infine, da lui scacciati, calano lestamente nel pianoforte come un esercito in ritirata. Il mio sospetto fu poi convalidato dallo stesso Maestro Ghedini il quale, riparlando del Barilli che gli fu amico, mi mostrò la riproduzione di un manoscritto di Schumann, raffigurante un pentagramma costellato di gatti e topi che si rincorrono. «Vede, mi disse, è la pazzia!». Certamente Barilli pazzo non fu, ma l'ipotesi che egli fosse affetto da un qualche complesso, sia pure innocentissimo, non mi pare priva di fondamento. Comunque fa parte della sua arte e per questo mi sento di rispettarlo ancora di più.
Venendo ora alla famosa questione di Verdi e di Puccini, bisogna esser grati al Barilli per aver coniato una gustosa definizione del primo: «ll suo alito ha un sano odor di cipolla», ma il guaio è che, scrivendo di Wagner, egli non riesce ad essere ugualmente originale, appunto perché da bravo verdiano egli è troppo preso dallo spirito di partigianeria. Ma è mai possibile che verdiani e wagneriani non riescano a coesistere senza escludersi reciprocamente? Questo appunto si domandava Furtwaengler in uno scritto che «Disclub» ha pubblicato recentemente, a proposito delle fazioni brahmsiane e bruckneriane. Comunque, Barilli è troppo intelligente per fare dei suoi operisti prediletti oggetto di apologie sperticate! E' un fatto, però, che essendo Barilli un musicista mediocre e forse mancato (ma un critico riuscito) egli non riuscì a frenare il proprio astio elegante verso chi ebbe più fortuna di lui come compositore.
Se il suo libro esordisce in chiave satirica e nello stile di un futurista che prende in giro il futurismo, le ultime pagine sono di una malinconia struggente. Qui assistiamo al decadimento progressivo del suo fisico, alla sua povertà sempre più incalzante, che arriva alla tragica proposta di un suicidio. Leggendo «Il diario di un vegliardo» è difficile non provare un profondo senso di commozione, così come le prime pagine ci hanno fatto ridere di gusto. Un libro, appunto, da leggersi sorridendo, ma con le lacrime agli occhi.
Edward D.R. Neill
("Disclub" 11, anno II, ottobre/novembre 1964)

venerdì, agosto 01, 2025

Scolasticismo

Amedeo Modigliani (1884-1920)
“Ritratto di Jeanne Hébuterne
A Siena, sotto l'occhio puntuto della Torre del Mangia e 
la vigilanza equestre di Guidoriccio da Fogliano, il filo della musica antica e quello della musica moderna hanno trovato il loro punto di giunzione. A questa giunzione ideale, benché avvenuta a Siena, la sola Caterina Benincasa è rimasta estranea, perché se c'è musica nella quale il negro fiore del misticismo non alligni, essa è quella dei musici veneziani del Cinquecento, del Seicento e del Settecento. Resta dimostrato così che tra musica antica e musica moderna c'è affinità perfetta, diretta derivazione di questa da quella. Mai quanto nel fatto della musica di oggi le parole «ritorno alla tradizione», di cui tanto si è abusato in altri campi e in altri momenti, hanno trovato loro giustificazione piena. Si è ritessuto nel mondo dei suoni quell'aristotelismo (nel che Aristotele invero ha così poca colpa) che aveva già informato di sé le combinazioni sonore (non dico sinfonie per non confondere i significati) dei nostri maestri del Cinquecento, del Seicento, del Settecento. La musica è arte per sua natura tardiva (oggi pure che poesia e pittura sono di là dal loro rinascimento e alla soglia di un romanticismo nuovo, la musica per sé giace ancora in piena e angolosa e spinosa e puntuta scolastica) e dopo un rinascimento incerto e presso che inavvertibile, simile alla primavera dei paesi meridionali che passa e non esplode, la musica solo nel tardo Ottocento riesce veramente a rompere il guscio, e dirò meglio il carapace dello scolasticismo, e trova finalmente la sua libertà di coscienza e di esame, il suo libero arbitrio. Il che nelle terre del Nord felicemente la porta a quel romanticismo tutto cuore di velluto, tutto profondo e tenebroso sguardo che empie il nostro animo di malinconia e pensosa dolcezza, ma è deleterio invece alla musica italiana che prima abbassa all'opera buffa, quindi la porta più basso ancora nel melodramma patetico, infine precipita nell'infimo dell'opera verista. Che argomentare da questo? Che ai soli paesi freschi è consentito parlare a cuore aperto, e che alla musica italiana quanto a sé, le conviene non andare in giro senza il busto. E che altro stanno facendo alla musica i nostri alacri maestri d'oggi se non «rimetterle» il busto?
Lo scolasticismo è anzitutto un sistema di difesa, un modo di conservazione, un metodo di imbalsamazione. Lo scolasticismo è per le arti, e in più largo per la vita morale, per la vita intellettuale, quello che il frigidaire è per gli alimenti, l'ingessatura per gli arti fratturati. Oggi lo scolasticismo tesse la sua rete metallica, dispone le sue punte protettive, spande le sue raggelanti correnti incorrompitrici nella pittura e nella musica. Oggi c'è una musica scolastica e una pittura scolastica (non faccio nomi, ma facilmente il lettore potrà trovare gli esempi da sé fra tanta pittura e tanta musica arcaicizzanti, fra tanta pittura e tanta musica neoclassicheggianti, fra tanta pittura e tanta musica stilizzate). Oggi lo scolasticismo fiorisce (ma che fiori rigidi! che gigli di calcestruzzo) tra quelle arti nelle quali la questione tecnica è più vivamente sentita, più baldanzosamente affrontata. Non fiorisce invece nelle lettere d'oggi, chiusa la parentesi breve della «Ronda»; forse perché i letterati d'oggi, voglio dire quelli che hanno argomenti nel cuore e voce da formularli, sono peraltro o addirittura imbelli o troppo debolmente armati di filologiche armi, di gladii latini, di clipei greci da consentirsi il lusso di pugnare scolasticamente senza cadere nel manierato, nel falso, nel ridicolo. Abbiamo detto scolasticismo per i moderni; ma forse bisognava dire neoscolasticismo, e lasciare scolasticismo ai soli antichi. Chi assicura però che anche lo scolasticismo dei Vivaldi, dei Monteverdi, dei Gabrieli nipote e Gabrieli zio non rispondeva agli stessi fini di difesa, di conversazione, di imbalsamazione, di frigidaire, di ingessatura? Per noi questo non lascia dubbio. Dice bene Soffici: anche gli antichi, per quanto antichi, avevano i «loro» antichi.
Allo scolasticismo si arriva sia per comodo, sia per avarizia, sia per disperazione. Ci si può arrivare anche per spirito di obbedienza e amore dell'ordine. Non per nulla scolasticismo è in certo modo sinonimo di cattolicismo. Nessuno in partenza si prefigge lo scolasticismo come meta. Lo scolasticismo come soluzione non appare se non a metà del cammino, sotto il peso degli ostacoli accumulati e davanti alla siepe irsuta delle difficoltà. Allora ci si volta a guardare a destra e a sinistra, si trema all'idea di doversi dichiarare vinti o addirittura di dover tornare indietro, e si è ben felici di trovare la traversa ma più comoda, più facile via dello scolasticismo, invitante e tentatrice: questo ripiego, ma che la sua aria saputa e grave rende tanto più accettabile e gradito. Mi son divertito una volta a cercare per quali vie Amedeo Modigliani arrivò a quello stile che lo ha reso celebre e amato; e trovai che Modigliani in principio tendeva a una rappresentazione naturalisticamente compiuta ma difficile, e che soltanto l'accumularsi delle difficoltà e l'incapacità di sormontarle lo determinarono a fermarsi a mezza strada e ad accettare come meta ciò che in principio non doveva essere se non una semplice tappa. Come se un sarto incapace di portare gli abiti a una forma compiuta, ci convincesse con scolastici argomenti che ben meglio per noi è indossare abiti notomizzati dalle cuciture bianche dell'imbastitura, con una manica sola e questa pure appuntata con gli spilli. In fondo, è per incapacità che si arriva allo stile: segno questo pure della tragica condizione dell'uomo. Certuni troveranno strano che io chiami scolasticismo la maniera di Amedeo Modigliani, ma la parola è tanto propria che lo scolasticismo di Modigliani «ha fatto scuola».
I mezzi, voglio dire il tempo e la pazienza, mi mancano di cercare documenti ed eruditi esempi per dimostrare che lo scolasticismo dei musici del Settecento, del Seicento, del Cinquecento risponde alle medesime ragioni dello scolasticismo di Amedeo Modigliani. Ma della identità di queste ragioni così lontane le une dalle altre io non dubito affatto. Senza dire che in musica bisogna tenere conto soprattutto dei mezzi esteriori, ossia della condizione meccanica degli strumenti musicali: ragione prima della evoluzione musicale. Come prova mi basta il carattere guidato, comandato, ornamentale di quelle musiche («musica a terrazze» è espressivamente chiamato il modo del Concerto Grosso); il loro «timor di Dio»il loro tono laudativo e osannante, la loro insistenza affermativa; il loro perpetuo «», più avverbio in questo caso che ultima delle sette note; il loro passo aristotelico (di quell'aristotelismo che per suo comodo inventò la Chiesa); il loro biancore cattolico, nemico così di ogni ombra come di ogni fessura per cui un dubbio, un perché, una delle oscure e profonde ragioni custodite dalle Madri possa farsi strada; la loro ripugnanza a mischiarsi alle faccende umane, la loro cura a evitare il dramma e soprattutto i motivi psichici del dramma (unica eccezione la musica di Bonporti, rivelazione di questa recente Settimana Senese, forse perché Bonporti è trentino e dunque vicino all'anima settentrionale - del che parleremo un'altra volta); a rimanere nell'aura chiara e generica di un ipotetico Paradiso Terrestre; a evitare il problema del male.
Quale prudenza e quale fiuto! Il giorno che i musici italiani vollero dare ascolto alla voce del male, la musica italiana cominciò a precipitare.
Guardare al male è per la musica italiana peccato, e, punita, essa precipita come il fulminato Lucifero. La musica italiana, come la più semplice delle spose italiane, esiste per la sua innocenza e cessa di essere non appena fa tanto di buttare un occhio nei segreti del bene e del male.
Perché distinguere dunque fra antichi e moderni, magnificare quelli e vilipendere questi se entrambi mirano a un fine solo, cioè a dire a «salvarsi» per mezzo della scolastica e, per mezzo della scolastica, edificare con scarsi mezzi un edificio dignitoso? (Si pensi per contrasto al1'assurdo di un Dostoevskij, di un Ariosto, di un Böcklin, di artisti «di grandi mezzi» che cercassero forza e salvezza nello scolasticismo!)
Il critico di un quotidiano ha visto un segno della presente incongruenza musicale nel fatto che Casella, che ingenuamente egli considera «avanguardista» e «futurista», abbia dovuto battere il tempo, nel Salmo di Claudio Monteverdi, a ben diciassette cadenze perfette. Ma l'incongruenza dov'è? Il tono della musica di Casella è ancora quello della musica di Monteverdi, con quel solo arrochimento in più che richiedono i succhi gastrici di uno stomaco moderno; e simile pure è la forma, quel tanto di tremolante in più delle figure riflesse nell'acqua.
Alberto Savinio
originale su "Oggi", 20 settembre 1941
(in "Scatola Sonora", Einaudi Letteratura 53, 1977)

martedì, luglio 22, 2025

Gustav Mahler / Dmitri Shostakovich

ECM New Series 2024
L'idea di accostare l'Adagio della Decima Sinfonia di Gustav Mahler e la Quattordicesima Sinfonia di Dmitri Shostakovich non è casuale. Non solo sono entrambe opere tarde, ma esiste anche una profonda affinità interiore tra le composizioni. La Decima Sinfonia, del 1910, è l'ultima opera incompiuta di Gustav Mahler. Dmitri Shostakovich avrebbe scritto un'altra sinfonia due anni dopo la Quattordicesima, ma nel 1969, durante un periodo di grave malattia, lavorò con la ferma aspettativa di concludere la sua sinfonia con questa.
L'idea dell'addio e della morte collega entrambe le opere. Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, intellettuali e artisti si confrontarono con questo tema in modo particolarmente intenso, e questo tema gioca un ruolo centrale nell'opera di Mahler. Nella sua opera, egli risponde alla domanda sul senso della vita in modi molto diversi. La Seconda Sinfonia culmina nell'idea di resurrezione, mentre le battute finali della Sesta stroncano sul nascere ogni speranza di salvezza. "Il Canto della Terra" si conclude con un "addio" che interpreta la sera della vita come una fase di un ciclo naturale.
L'Adagio della Decima Sinfonia costituisce il primo movimento di una sinfonia in cinque movimenti, incompiuta, scritta per una grande orchestra sinfonica con fiati tripartiti. Nel 1971, il direttore d'orchestra Hans Stadlmair preparò un arrangiamento per archi dell'Adagio per la München Chamber Orchestra, che Gidon Kremer e la Kremerata hanno ora ampliato. Nuovi arrangiamenti di opere di Mahler erano già stati realizzati negli anni '20; ad esempio, nel 1923, l'allievo di Schönberg Erwin Stein arrangiò la Quarta Sinfonia per ensemble da camera, e Arnold Schönberg arrangiò una versione ridotta di "Das Lied von der Erde", completata da Rainer Riehn nel 1981. Mentre negli anni economicamente difficili del dopoguerra, tali arrangiamenti per piccoli ensemble erano in gran parte limitati finanziariamente, oggi Gidon Kremer è semplicemente guidato dal desiderio di poter eseguire una delle opere più brillanti di Gustav Mahler con la sua Kremerata Baltica. Considerata la grande abilità strumentale di Mahler, la giovane orchestra da camera si trova ad affrontare una sfida ardua.
Sebbene le parole di Alban Berg in una lettera alla moglie Helene Nahowski si riferissero al primo movimento della Nona Sinfonia, esse catturano ugualmente l'atmosfera dell'Adagio della Decima: "Il primo movimento è... l'espressione di un amore inaudito per questa terra, il desiderio di viverci in pace, di goderne, la natura, fino in fondo, prima che sopraggiunga la morte. Perché giunge inesorabile". Il tema dell'addio, ricorrente anche nelle precedenti sinfonie di Mahler, qui assume un'importanza centrale con ancora maggiore intensità.
Nell'Adagio della Decima Sinfonia, l'inno alla vita è interrotto da due improvvisi culmini. Il primo – un idiosincratico memento mori – evoca associazioni con i servizi funebri in chiesa. Risuonano accordi tutti rigorosi e sostenuti, prima che il motivo dell'addio riappaia e continui a svolgersi. Il secondo culmine può essere descritto come un "finis": un unisono penetrante, tollerante alle contraddizioni, che precede ogni cosa nel registro acuto che contrasta un accordo dissonante di dieci note dalla struttura inedita. Il compositore Boris Tishchenko scrive: "L'accordo più terribile di tutta la musica... e la punta dell'iceberg... non è come un infarto?". Questa metafora della malattia è diventata un simbolo di sventura nel XX secolo, riferendosi non solo a una singola vita umana, ma al mondo intero. Dopo questo sfogo, l'Adagio di Mahler torna al flusso della vita in estinzione. Il movimento si conclude con un'energia melodica morente, carica di rassegnazione.
La Quattordicesima Sinfonia di Dmitrij Shostakovich per soprano, basso e orchestra da camera con percussioni fu completata il 2 marzo 1969. Poche settimane dopo, il compositore scrisse a Isaak Glikman: "La Quattordicesima Sinfonia... è una pietra miliare per me. Tutto ciò che ho scritto negli ultimi anni è stata una preparazione per quest'opera". Nella stessa lettera, spiegò la selezione delle poesie: "...Mi sono reso conto che ci sono temi eternamente attuali, problemi eternamente attuali. Tra questi ci sono l'amore e la morte... Alla vigilia del mio ricovero in ospedale, ho ascoltato i Canti e Danze della Morte di Mussorgsky, che finalmente mi hanno spinto a considerare la morte". Shostakovich scrisse la sinfonia durante un ricovero ospedaliero di un mese; lì selezionò anche poesie di Federico García Lorca, Guillaume Apollinaire, Wilhelm Küchelbecker e Rainer Maria Rilke, alcune delle quali adattate e abbreviate. A seconda del gusto dell'ascoltatore, gli undici movimenti possono essere raggruppati in vari modi. Il compositore stesso suggerì di raggrupparli in quattro sezioni: 1-4, 5-6, 7-8 e 9-11. Dedicando la sinfonia a Benjamin Britten, Shostakovich rispose alla dedica del compositore inglese della sua parabola biblica "Il figliol prodigo" a Shostakovich.
La prima ufficiale ebbe luogo il 29 settembre 1969 a Leningrado, sotto la direzione di Rudolf Barshai, con Galina Vishnevskaya ed Evgenij Vladimirov come solisti vocali. Tuttavia, la "vita concertistica" dell'opera era già iniziata il 21 giugno dello stesso anno nella Sala Piccola del Conservatorio di Mosca, con una "specie di prova generale", come definì Shostakovich questa esecuzione. In realtà, si trattò di una prima "a porte chiuse" della sinfonia, sotto la direzione di Barshai. La sinfonia ebbe un profondo impatto sul pubblico. La potenza evocativa della musica innescò un evento sconvolgente: uno degli ascoltatori, Pavel Apostolov, membro del Comitato centrale del partito e ideatore delle campagne diffamatorie retoriche contro Shostakovich, si ammalò improvvisamente e morì in sala mentre lo spettacolo era ancora in corso.
Sebbene la musica avesse generalmente scosso emotivamente gli ascoltatori, si levarono anche voci che non riuscivano a conciliarsi con il rifiuto ateo dell'idea di salvezza nella vita eterna. "Death is great" di Rilke nell'ultimo movimento suscitò reazioni particolarmente negative. Alcuni ascoltatori furono infastiditi dal fatto che il testo, con i suoi dettagli a volte sconvolgenti, come in "The Suicide", offuscasse la bellezza della musica. Numerose dichiarazioni di Shostakovich di quel periodo testimoniano il suo orrore per la morte, che egli intendeva come "l'agonia senza fine del morire" (Genrich Orlov).
Nelle sue riflessioni sulla sinfonia, tuttavia, Shostakovich omise qualcosa di essenziale: le prove compositive che lo affascinavano. In quegli anni, Shostakovich si interessò alle questioni strutturali della forma sinfonica su larga scala e alle loro conseguenze sulle tecniche di orchestrazione e sulla strumentazione. La concezione di un ciclo sinfonico interamente vocale risale senza dubbio al Das Lied von der Erde di Mahler, che Shostakovich teneva in particolare considerazione. Aveva già adottato questo modello quando orchestrò i Songs and Dances of Death di Mussorgsky nel 1962. Sebbene da giovane potesse essere interessato alle idee innovative di Schönberg, la sua tecnica dodecafonica non ebbe alcuna influenza diretta su di lui. Tuttavia, quando studiò le partiture di Schönberg nel 1926, potrebbe aver rivolto la sua attenzione agli ensemble sperimentali del Pierrot Lunaire. In "Suicide", ad esempio, i dialoghi scarsamente orchestrati tra soprano e violoncello solista, o tra contrabbasso solista e soprano, ricordano "Der kranke Mond" dal Pierrot Lunaire di Schönberg, con il suo dialogo tra soprano e flauto. Shostakovich era certamente affascinato da una nuova idea di orchestrazione: la combinazione di archi e percussioni. (Rodion Shchedrin aveva probabilmente già sperimentato una simile combinazione indipendentemente da Shostakovich nella sua Suite Carmen del 1967.)
Ogni movimento della Quattordicesima Sinfonia è progettato in modo completamente individuale in termini di timbro, grazie alle diverse combinazioni di strumenti a corda e a percussione, nonché al trattamento estremamente espressivo degli archi. L'unità interiore di questo ciclo estremamente contrastante è creata dall'uso di topoi musicali attorno al tema della morte, con Shostakovich che abbraccia numerosi simboli della morte provenienti dalla storia della musica: il suono del violino, questo attributo popolare della morte, determina (analogamente allo Scherzo della Quarta Sinfonia) il fascino inquietante della "Malagueña", che inizia con i cori "La morte entrò e uscì". Il suono della grande campana, che ricorda un corteo funebre, squarcia il silenzio improvviso nei momenti culminanti de "The Suicide" e "Loreley". Lo xilofono, anch'esso simbolo musicale della morte, appare in varie forme: una volta in una danza grottescamente glamour con tre tamburi ("On the Alert"), a volte in ensemble con percussioni "asciutte" senza coro, e in un duetto "surreale" di risate con il soprano. La sfera della morte è evocata anche attraverso il timbro: in "At the Santé Jail", un fugato per archi inizia con la frase "Qui la tomba si dispiega sopra di me, qui sono morto per tutti", in cui le corde vengono percosse col legno dall'archetto. L'effetto sonoro di questo stile esecutivo trasporta l'ascoltatore in un mondo di esistenza opprimente e senza vita.
Il finale della sinfonia, tuttavia, è un'ispirazione originale di Shostakovich: invece di una cadenza tradizionale o di un riflusso progressivo nel senso di "addio", gli archi risuonano con un movimento inarrestabile e crescente, al termine del quale è concepibile solo una pausa, un salto nell'abisso, per così dire.
Inna Barsova
(translation: Heinrich von Trotta)

venerdì, luglio 11, 2025

Paul Hindemith: Kammermusik

Paul Hindemith (1895-1963)
Le sette opere di Paul Hindemith intitolate 
Kammermusik nacquero negli anni Venti. Frutto della sua prima maturità artistica e di un periodo del dopoguerra dominato da una forte reazione verso gli eccessi emozionali del tardo romanticismo e dell'espressionismo, con esse Hindemith cercò di ritornare agli ideali di chiarezza formale e al modesto orgoglio nell'abilità artigianale, ideali che sembravano rappresentati nella maniera più perfetta dall'epoca barocca. Nelle sue prime opere Hindemith aveva incominciato a giocherellare con un cromatismo di stampo regeriano, col culto del bizzarro, persino (come nell'opera Sancta Susanna) con un'intensa emozione espressionistica. Ma istintivamente si era sempre sentito attratto dai valori musicali 'oggettivi' di forte tendenza polifonica, da una solida struttura, e dalla stabilità emozionale caratteristica del barocco. La Kammermusik portò alla piena maturità questi aspetti della sua personalità musicale, e determinò allo stesso tempo un impulso neoclassico nella musica contemporanea della Germania, non diversamente da Igor Stravinski il quale a Parigi aveva lanciato il grido di battaglia "di ritorno a Bach!". In effetti si può dire che le sette composizioni della Kammermusik di Hindemith - la prima è una suite per 12 strumenti, le altre sono concerti per una varietà di strumenti solisti con orchestre di dimensioni e organico diversi - è una specie di equivalente contemporaneo dei Concerti brandeburghesi di J.S. Bach.
Le Kammermusik furono composte in tre gruppi che non corrispondono esattamente ai tre numeri d'opera separati sotto i quali furono pubblicate. La Kammermusik n.1 fu scritta nel 1921 e unita come op.24 al brano per quintetto di fiati (Kleine Kammermusikche generalmente non viene considerato come parte della serie. I primi tre concerti dell'op.36 seguirono nel 1924-25, mentre l'ultimo dell'op.36 e i due concerti dell'op.47 furono tutti composti nel 1927. Hindemith stesso era un violista di calibro internazionale: fu lui a eseguire la parte solistica nelle premières dei concerti per viola (Karnmermusik n.5) e per viola d'amore (Kammermusik n.6). Ma le sue abilità come esecutore e musicista 'tuttofare', pratico e versatile si manifestano in maniera impressionante attraverso tutte le opere, e vengono dimostrate dalla sua affermazione che, in tutti i concerti dell'op.36, nell'insieme non aveva composto alcuna parte strumentale che non avrebbe potuto suonare personalmente, con un po' di esercizio!
Kammermusik: la parola significa "musica da camera "; la maggior parte di queste composizioni - se non addirittura tutte - prevede un organico che può essere definito adeguatamente come un'orchestra, sebbene di dimensioni ridotte. Tuttavia, le richieste poste agli strumenti sono certamente 'cameristiche' in confronto alle orchestre stravaganti del repertorio prima del 1914: e la serie nacque nell'ambito del primo festival di "Esecuzioni di musica da camera perla promozione della musica contemporanea" svolto nel 1921 a Donaueschingen nella Germania meridionale. Dal 1921 al 1930 Hindemith fu responsabile di questo festival annuale che ebbe luogo sotto il patronato del Principe Max Egon zu Fürstenburg, al quale dedicò la Kammermusik n.1. L'opera è per così dire una celebrazione del nuovo spirito dell'epoca. Un aspetto importante della scrittura, che rimane valido attraverso tutta la serie della Kammermusik, è che ciascun suonatore viene trattato come solista - almeno fino al punto in cui lo sono ad esempio i membri di un quartetto d'archi. L'organico ha una formazione diversa in ciascun'opera; il peso e la sonorità sono scelti con cura per equilibrare e contrastare lo strumento solista che viene posto in primo piano.
Ciononostante la Kammermusik n.1, op.24. n.1, e di concezione alquanto diversa dalle composizioni successive. I 12 strumentisti (che Hindemith sperava - con poco senso di realtà - di poter tenere nascosti dal pubblico durante l'esecuzione) sono il flauto, clarinetto, fagotto, tromba, fisarmonica, pianoforte, xilofono, quintetto d'archi e una batteria di percussione che comprende elementi esotici come una sirena e una scatola di latta riempita di sabbia. Questa suite spensierata dallo spirito irriverente presenta un chiaro riferimento alle prime esperienze di Hindemith quando suonava in orchestre da ballo e nei complessi che accompagnavano le commedie musicali a Francoforte e nei dintorni: l'opera è infatti caratterizzata da ritmi vigorosi, una strumentazione scintillante e un'impudenza incorreggibile. I primi tre movimenti sono un preludio audacemente dissonante, una marcia frivola e un 'quartetto' pastorale (così indicato da Hindemith) per i tre legni e una singola nota sul glockenspiel. Nel finale - intitolato "1921" a quanto pare in omaggio alla fondazione dei concerti di Donaueschingen - Hindemith scatena l'intero complesso strumentale in un'esibizione di humour anarchico. Il culmine giunge con la citazione nella tromba di un foxtrot contemporaneo in sol maggiore (del noto compositore di musica leggera Wilm Wilm), accompagnato da scale in tutte le altre 11 tonalità maggiori; il tutto conclude con una stretta esuberante degna di una grande commedia del film muto.
La Kammermusik n.2, op.36 n.2 è un concerto per pianoforte e 12 strumenti: non si tratta degli stessi strumenti della Kammermusik n.1 ma di una disposizione più convenzionale, se vogliamo più 'cameristica', di flauto, oboe, clarinetto, clarinetto basso, fagotto, corno, tromba, trombone, trio d'archi e contrabbasso. Fu dedicato alla pianista Emma Lübbecke-Job che ne eseguì la première a Francoforte sotto la direzione di Clemens Krauss nell'ottobre 1924. E' ancora presente qualcosa dello spirito anarchico dell'opera precedente - soprattutto nell'impertinente "Piccolo potpourri" che Hindemith inserisce tra il movimento lento e il finale - ma in generale l'opera ha più carattere di un concerto 'atletico' neobarocco, in cui ciascun movimento viene spinto in avanti da un irresistibile polso fondamentale. La scrittura pianistica è quasi sempre dominata dal contrappunto e intensamente ritmica, soprattutto nel primo movimento che ricorda una toccata con la sua vivace figurazione motoria. Il movimento lento è costruito su un modello estremamente bachiano: nelle sezioni esterne il pianoforte elabora alcune variazioni melodiche sopra un tema ostinato del basso, mentre la sezione centrale è un dialogo lirico a due parti per lo strumento solista. Dopo il "Potpourri" che ha la funzione di piccolissimo scherzo con le sue aspre giustapposizioni strumentali, il finale ritorna allo stile energico del primo movimento, ma con ritmi di danza 'contrari' e una maggiore varietà nella tessitura.
La terza Kammermusik, op.36 n.2, forse la più conosciuta della serie, è un concerto per violoncello in miniatura scritto per il fratello di Hindemith, Rudolf, con un accompagnamento di soltanto 10 strumenti (la medesima disposizione della Kammermusík n.2 ma senza il clarinetto basso e la viola). La successione dei quattro movimenti, lento-veloce-lento-veloce richiama alla mente la sonata barocca, e il primo movimento introduttivo, che esordisce con un nobile ed espressivo assolo del violoncello, affascina per il suo carattere rapsodico e lirico. Il secondo movimento è uno scherzo brillante in metro di danza, che deve parecchio all'effetto cumulativo dei ritmi ostinati del violoncello: qui Hindemith ottiene da un numero di suonatori estremamente ridotto un suono straordinariamente pieno e genuinamente 'orchestrale'. Anche il terzo movimento, il più lungo di tutti, è di una profonda espressività. Lo stile appassionatamente melodico e l'intensità seria ed elegiaca dimostrano eloquentemente che l'idioma della Kammermusik non esclude l'espressione di un intenso sentimento. Dopo questo meraviglioso movimento, il breve e rapido finale, pieno di una sicurezza ed humour haydniani, reca uno spirito più leggero e spensierato finché i vari strumenti sembrano 'evaporare' scomparendo dall'immagine e lasciando che il violoncello concluda l'opera da solo con un unico pizzicato.
La Kamrnermusik n.4, op.36 n.3, è un concerto per violino scritto per l'amico di Hindemith, Licco Amar, violino principale del Quartetto Amar del quale Hindemith era violista. In certo modo questo concerto concepito in cinque movimenti è il più ambizioso della serie; e diversamente dai due predecessori in cui lo strumento solista è un prímus inter pares, qui il violino viene trattato più come un tradizionale solista concertante. L'organico dell'accompagnamento, definito come "grande orchestra da camera", è formato prevalentemente da strumenti a fiato (la sezione dei legni comprende 2 ottavini, clarinetti in mi bemolle e clarinetti bassi, mentre gli ottoni sono rappresentati da una cornetta e una tuba bassa), e il corpo degli archi non comprende alcun violino; Hindemith ricorre anche all'impiego di piccoli tamburi - come tamburelli senza sonagli - comunemente impiegati nelle bande jazz contemporanee.
Non che il linguaggio musicale sia particolarmente influenzato dal jazz: in realtà si tratta di un'opera dal carattere prevalentemente strenuo e serio, come appare subito chiaro dal tutti nel breve movimento introduttivo che Hindemith ha intitolato "Signal" (Segnale). Questo viene immediatamente seguito da un atletico ed incalzante primo movimento che nella gamma e nella perfezione del suo sviluppo corrisponde più a un tipico primo movimento da concerto. Il movimento lento centrale è un "Pezzo notturno", che se non altro intensifica ancor di più l'inquieto umore meditativo. La parte del violino si muove principalmente nel registro acuto, mantenendo ed elaborando uno spirito di protesta lirica. Nei primi tre movimenti il concerto sembra invitarci a un paragone diretto con l'ugualmente serio Concerto per violino e orchestra di fiati di Kurt Weill, composto un anno prima nel 1924. Gli ultimi due movimenti sono più leggeri e formano una specie di finale in forma 'bipartita'. Il quarto movimento è una brillante invenzione su un vivace motivo di marcia nella cornetta, mentre il quinto, una specie di stretta conclusiva, è una bizzarra ispirazione che richiede il massimo virtuosismo; il violino rimane con una continua figurazione di moto perpetuo con alcuni commenti di una melodiosità quasi 'surreale' degli altri strumenti.
L'organico del concerto per viola, Kammermusik n.5, op.36 n.4, ha una componente di legni e ottoni ancora più grande della Kammermusik n.4, mentre gli archi sono ridotti a un piccolo gruppo di violoncelli e contrabbassi. Si tratta probabilmente della Kammermusik più nota dopo il concerto per violoncello, e nel suo equilibrio formale e la matura combinazione di allegria e serietà preannuncia inconfondibilmente i concerti più grandi che Hindemith avrebbe scritto negli anni Trenta e Quaranta. Il primo movimento è un'altra vivace struttura neobarocca dal moto rapido, ma viene seguito da un movimento lento di ampio respiro e profondamente sentito (Langsam) in cui un monologo malinconico della viola viene posto contro i ricchi timbri oscuri dei fiati. Il terzo movimento è un abile scherzo polifonico; e il finale conclude il tutto in uno stile burrascoso - una serie di variazioni abilissime su una allegra e alquanto volgare marcia militare bavarese, la cui orchestrazione rende chiara la necessità per la presenza di tanti strumenti a fiato.
La Kammermusik n.6, op.46 n.1, è un concerto per viola d'amore, il caldo e delicato strumento barocco con numerose corde che vibrano per simpatia, quasi andato in disuso ma per il quale Hindemith nutrì un affetto particolare. Dato che la viola d'amore ha ancora pochi esponenti, questo concerto è probabilmente il meno eseguito della serie della Kammermusík, pur rimanendo uno dei più riccamente concepiti e forse il più concentrato. Anche in questo caso l'orchestra da camera è limitata a 13 suonatori, ed è una versione ridotta dell'organico impiegato nel concerto per viola, con meno strumenti a fiato ma anche meno violoncelli e contrabbassi.
La viola d'amore vi aggiunge una sonorità nostalgica tutta particolare, con l'espressione più intima delle sette composizioni. Al vivace - ma pur sempre cantabile - primo movimento con il suo tema introduttivo dal passo fiero, succede un meraviglioso movimento lento (la cui durata è notevole rispetto alla lunghezza de|l'opera) dominato dalla florida linea cantabile dello strumento solista. Segue una serie di variazioni meditative nella maniera di una lunga cadenza accompagnata, che riprende alcuni elementi tematici già ascoltati precedentemente, e il concerto conclude con un breve finale costituito da una variazione più rapida e briosa della musica del movimento introduttivo.
L'ultima composizione della serie, la Kammermusik n.7, op.46 n.2 è un concerto per organo e 11 strumenti a fiato con l'aggiunta di qualche violoncello e un contrabbasso. Hindemith lo compose per inaugurare il nuovo organo alla Radio di Francoforte (allora diretta da suo genero Hans Flesch), alla quale Hindemith dedicò l'opera. La radio mandò in onda la prima esecuzione del concerto nel gennaio 1928 con Reinhold Merten come solista. Si tratta del più grandioso e festivo di tutti i concerti, ed è l'unico concepito nella forma convenzionale in tre movimenti; inoltre Hindemith vi sfrutta pienamente le ampie possibilità polifoniche dello strumento solista. Il primo movimento è una marcia piena di allegria, a volte di un comico senso di importanza; ma vi succede un ampio e profondamente espressivo movimento lento che esordisce con un lungo e meditativo assolo dell'organo. Mentre la musica evolve in una spaziosa fantasia polifonica, le tessiture orchestrali e l'atmosfera quasi religiosa di meditazione sembrano anticipare alcune sezioni della grande opera Mathis der Maler di Hindemith. Il finale è una fuga rapida ed emozionante con un soggetto che tende a salire melodiosamente annunciato dalla tromba. L'organo ben presto conferisce al discorso un tono di grandezza, e il contesto contrappuntistico varia tra il leggero e il serio prima che la serie finale di stretti porti il concerto alla sua conclusione in un'atmosfera di vigorosa festività.
Calum MacDonald
Traduzione DECCA 1992