Ad ogni modo è sempre stato cagionevole. Tra peritonite e tubercolosi, spagnola e bronchite cronica, il suo corpo affaticato non è mai stato robusto, anche se sta dritto come un fuso strizzato in abiti adeguatamente attillati. E neppure la sua mente, sommersa dalla tristezza e dalla noia benché lui non lo dia a vedere, e incapace di abbandonarsi anche un attimo a un sonno che ha divieto di soggiorno. Ma adesso è tutta un'altra cosa, non riesce a trovare il pettine posato lì sulla toeletta, non sa più annodarsi la cravatta da solo né fissare, se non lo aiutano, i gemelli.
Cercano di distrarlo, di portarlo finché possibile ai concerti, ma lui se ne sta come assente in poltrona, immobile e quieto quasi fosse altrove, già morto. Quando Toscanini torna a Parigi, Ravel, sebbene riluttante, accetta di andarlo a sentire dirigere una sua opera: sembra commosso quando orchestra e direttore vengono acclamati ma, rintanato in fondo al palco, rifiuta di andare a congratularsi con lui. Il fatto che non voglia andarci e risolvere così, mostrando il suo compiacimento, la vecchia disputa sul Bolero, riempie tutti di rammarico e stupore: No, dice, non ha mai risposto alla mia lettera. Poi, all'uscita, una coppia gli si avvicina. I loro volti gli dicono qualcosa, già ma cosa? Caro maestro, fanno, si ricorda di quando, qualche anno fa, suonava Daphnis sul nostro pianoforte? Sì, sì, sì, dice Ravel con voce atona, che non fa eco al pensiero, senza riuscire a identificarli.
Sono pochi ormai quelli che riconosce, ma si rende conto di tutto. Capisce benissimo che i suoi movimenti non vanno a segno, che prende un coltello per la lama, che avvicina alle labbra la sigaretta dalla parte accesa per poi subito correggersi - no, mormora allora come a se stesso, non così. Capisce benissimo che le unghie non si tagliano in quel modo, che gli occhiali non si infilano in quel verso e, quando poi riesce a inforcarli nel tentativo di leggere «Le Populaire», che i muscoli degli occhi non gli permettono neppure più di seguire le righe. Vittima di quel declino e suo spettatore attento, sepolto vivo in un corpo che non risponde più all'intelligenza, vede tutto distintamente, e contempla un estraneo vivere in lui.
E' tragico però quel che mi succede, dice a Marguerite. Porti pazienza, gli risponde lei invariabilmente, passerà, bisogna solo aspettare. E poi prenda Verdi, ha dovuto aspettare di avere ottant'anni per comporre il Falstaff. Ma poiché lui non smette di affliggersi gli fa notare che, se anche non può più produrre niente, la sua opera c'è. La sua opera è compiuta, gli ripete, è vasta e stupenda. Ravel non le lascia finire la frase: Ma come fa a dire una cosa simile? la interrompe disperatamente. Io non ho scritto nulla, non lascio nulla, non ho detto nulla di quel che volevo dire.
E' solo nella sua casa di Montfort, e non si fa illusioni. E' sempre stato solo, ma sospeso alla musica. Ora non ne può più di questa vita inutile, non serve più a nulla, è prigioniero di se stesso - e invano si ribella. Sapendo che è finita, tenta di organizzare la solitudine. Ogni giorno, dopo aver percorso a piedi in lungo e in largo la foresta di Rambouillet, che malgrado le sue condizioni conosce ancora a memoria, passa ore e ore seduto accanto al telefono nell'attesa, nella speranza che Edouard, spesso via per affari, chiami, fumando senza tregua benché gli sia proibito, alzandosi ogni tanto per svuotare il posacenere - un posacenere pieno è triste come un letto sfatto. Per fortuna, ogni giorno alle cinque Jacques de Zogheb viene a fargli visita. Non appena Zogheb suona, Ravel si precipita alla porta e cerca di aprirla. Ma in lui, ormai, nulla più funziona: le sue dita torpide scuotono ritmicamente il saliscendi in ogni direzione e il catenaccio in quella sbagliata, finché si rassegna a convocare la governante. Attraverso la porta Zogheb sente le imprecazioni sempre più furiose di Ravel e le strida desolate della signora Révelot, sinché finalmente il battente si apre.
Zogheb prende sottobraccio Ravel e insieme si trasferiscono nel salotto rosso e grigio. Zogheb prende posto sul divano mentre Ravel si allunga su una bergère accanto alla finestra. E ogni giorno il dialogo è lo stesso. Come va? chiede Zogheb. Male, dice Ravel con voce sommessa, sempre uguale. E poiché l'altro si informa se abbia dormito, Ravel fa segno di no con la testa. L'appetito?, prosegue Zogheb. Quello sì, dice remotamente Ravel, non c'è male. E ha lavorato un po'? Ravel scuote di nuovo la testa, poi le lacrime gli velano lo sguardo. Perché è successo proprio a me?, dice. Perché? Zogheb non risponde. Poi, rompendo il silenzio: Però avevo scritto delle belle cose, vero? Zogheb non risponde. Si trattiene con Ravel fino alle otto e l'indomani, alle cinque, torna a porgli le stesse domande. E così ogni giorno finché la notte scende e pone il problema del sonno.
Tecnica n. 4: Bromuro di potassio, Laudano, Veronal, Nembutal, Prominal, Soneryl e altri barbiturici.
Obiezione: dopo aver fatto egregiamente il loro dovere, gli ipnotici sono ora di scarso aiuto, in realtà non servono più a granché. Alle prime luci del giorno Ravel finisce comunque per assopirsi un po'. Ma questa tregua non è che un gramo sonno, turbato da sogni ostili che non gli concedono riposo: Ravel deve affrontare mostri o, quel che è peggio, fuggirli. Ed è nel momento più aspro dello scontro che di colpo si sveglia, distrutto, ogni volta più stanco della sera prima, neanche più di cattivo umore, senza più umore.
Ce n'è voluta ma, alla presenza di Ravel, danno infine il Concerto per la mano sinistra nella sua redazione autentica, che Jacques Février ha scrostato dagli abbellimenti di Wittgenstein. Durante il concerto Ravel si gira per l'ennesima volta verso la sua vicina e le chiede se ciò che stanno ascoltando l'ha davvero scritto lui, anche se stavolta ha un'attenuante: in questa forma non l'aveva mai ascoltato. Ma quando, tre mesi dopo, assiste a un altro concerto dedicato alle sue opere per pianoforte, sembra non rendersi neppure conto che è lui che acclamano alla fine. Forse è convinto che le ovazioni siano destinate al collega italiano che gli siede accanto, perché si volta e gli indirizza un meccanico sorriso, con uno sguardo vuoto da far paura. Poi lo portano a cena e lui va dietro agli altri senza una parola, fantasma come al solito elegante, tranne che la signora Révelot ha pensato bene di spillargli l'indirizzo a un risvolto della giacca, in caso di necessità.
E' chiaro che bisogna agire e gli amici non fanno che tenere consiglio. Invano Ida Rubinstein batte Inghilterra, Svizzera, Germania per consultare degli specialisti: tutti si dichiarano perplessi. Dei due pionieri della chirurgia cerebrale interpellati a Parigi, il primo sconsiglia di intervenire. L'altro dice in sostanza che neppure lui tenterebbe nulla se si trattasse del primo venuto: basterebbe lasciare le cose come stanno, a costo di vederlo perdersi indefinitamente. Il problema è che si tratta di Ravel. E a questo punto tanto vale fare qualcosa. Se l'intervento riesce, si può presumere che recuperi le sue facoltà, che abbia davanti a sé altri anni di creazione. Nonostante l'esito degli esami, che lasciano sempre un margine di dubbio, non si può scartare l'ipotesi di un tumore, e in questa prospettiva accetta di operare. Clovis Vincent è un neurochirurgo illustre, il suo punto di vista si impone, l'appuntamento è fissato per due giorni dopo.
Poiché è necessario radergli il cranio prima dell'operazione, Edouard e gli altri cercano di rassicurarlo: vedendo i suoi capelli cadere a terra, Ravel supplica infatti che lo riportino a casa. Provano a convincerlo che si tratta solo di una radiografia, di accertamenti più approfonditi, ma Ravel non crede a una parola. No, no, dice sommesso, lo so benissimo che mi tagliano la zucca. E poiché le bende gli avvolgono la testa come un turbante bianco sembra rassegnarsi, e quasi sorridere per primo di questa imprevista somiglianza con Lawrence d'Arabia.
Procedendo a mani nude, gli segano la scatola cranica per isolarne il lembo frontale destro, che viene poi asportato, e aprono trasversalmente la dura madre per esaminare cosa succede all'interno. Scoprono un cervello lievemente collassato a sinistra ma tutto sommato normale, senza segni di particolare rammollimento, anche se le circonvoluzioni, neppure loro troppo atrofizzate, sono separate da edema. Non rinvenendo alcun tumore, incidono il corno ventricolare perché fuoriesca un po' di liquido: questo infatti appare solo se si fa pressione sulla zona considerata. Iniettano più volte acqua confidando in una dilatazione: il cervello si gonfia, ma dopo un attimo si sgonfia, l'atrofia cerebrale sembra irreversibile, insomma siamo al punto di partenza. Rinunciano, chiudono il foro di drenaggio poi, lasciando aperta la dura madre, riposizionano il lembo frontale e suturano con filo scuro.
Dopo l'operazione, giacché Ravel riprende per un istante conoscenza, sono convinti che ce l'abbia fatta. Si alimenta un po', reclama la presenza di Edouard poi chiede di vedere una signora. Gli chiedono chi è questa signora, suggeriscono nomi che stenta a pronunciare. Ida Rubinstein? Fa cenno di no, con un gesto della mano in direzione del suolo. Hélène Jourdan-Morhange? No, falui. Marguerite Long? Ma no, risponde ripetendo il gesto. Più giù, dice alla fine. Più giù. Finalmente è chiaro, fanno venire la signora Révelot. Si riaddormenta, dieci giorni dopo muore, gli mettono addosso il frac, gilet bianco, collo rigido ad aletta, papillon bianco, guanti chiari, non lascia testamento, non restano né immagini filmate, né registrazioni della sua voce.
Jean Echenoz (da "Ravel", Adelphi, 2007)
Cercano di distrarlo, di portarlo finché possibile ai concerti, ma lui se ne sta come assente in poltrona, immobile e quieto quasi fosse altrove, già morto. Quando Toscanini torna a Parigi, Ravel, sebbene riluttante, accetta di andarlo a sentire dirigere una sua opera: sembra commosso quando orchestra e direttore vengono acclamati ma, rintanato in fondo al palco, rifiuta di andare a congratularsi con lui. Il fatto che non voglia andarci e risolvere così, mostrando il suo compiacimento, la vecchia disputa sul Bolero, riempie tutti di rammarico e stupore: No, dice, non ha mai risposto alla mia lettera. Poi, all'uscita, una coppia gli si avvicina. I loro volti gli dicono qualcosa, già ma cosa? Caro maestro, fanno, si ricorda di quando, qualche anno fa, suonava Daphnis sul nostro pianoforte? Sì, sì, sì, dice Ravel con voce atona, che non fa eco al pensiero, senza riuscire a identificarli.
Sono pochi ormai quelli che riconosce, ma si rende conto di tutto. Capisce benissimo che i suoi movimenti non vanno a segno, che prende un coltello per la lama, che avvicina alle labbra la sigaretta dalla parte accesa per poi subito correggersi - no, mormora allora come a se stesso, non così. Capisce benissimo che le unghie non si tagliano in quel modo, che gli occhiali non si infilano in quel verso e, quando poi riesce a inforcarli nel tentativo di leggere «Le Populaire», che i muscoli degli occhi non gli permettono neppure più di seguire le righe. Vittima di quel declino e suo spettatore attento, sepolto vivo in un corpo che non risponde più all'intelligenza, vede tutto distintamente, e contempla un estraneo vivere in lui.
E' tragico però quel che mi succede, dice a Marguerite. Porti pazienza, gli risponde lei invariabilmente, passerà, bisogna solo aspettare. E poi prenda Verdi, ha dovuto aspettare di avere ottant'anni per comporre il Falstaff. Ma poiché lui non smette di affliggersi gli fa notare che, se anche non può più produrre niente, la sua opera c'è. La sua opera è compiuta, gli ripete, è vasta e stupenda. Ravel non le lascia finire la frase: Ma come fa a dire una cosa simile? la interrompe disperatamente. Io non ho scritto nulla, non lascio nulla, non ho detto nulla di quel che volevo dire.
E' solo nella sua casa di Montfort, e non si fa illusioni. E' sempre stato solo, ma sospeso alla musica. Ora non ne può più di questa vita inutile, non serve più a nulla, è prigioniero di se stesso - e invano si ribella. Sapendo che è finita, tenta di organizzare la solitudine. Ogni giorno, dopo aver percorso a piedi in lungo e in largo la foresta di Rambouillet, che malgrado le sue condizioni conosce ancora a memoria, passa ore e ore seduto accanto al telefono nell'attesa, nella speranza che Edouard, spesso via per affari, chiami, fumando senza tregua benché gli sia proibito, alzandosi ogni tanto per svuotare il posacenere - un posacenere pieno è triste come un letto sfatto. Per fortuna, ogni giorno alle cinque Jacques de Zogheb viene a fargli visita. Non appena Zogheb suona, Ravel si precipita alla porta e cerca di aprirla. Ma in lui, ormai, nulla più funziona: le sue dita torpide scuotono ritmicamente il saliscendi in ogni direzione e il catenaccio in quella sbagliata, finché si rassegna a convocare la governante. Attraverso la porta Zogheb sente le imprecazioni sempre più furiose di Ravel e le strida desolate della signora Révelot, sinché finalmente il battente si apre.
Zogheb prende sottobraccio Ravel e insieme si trasferiscono nel salotto rosso e grigio. Zogheb prende posto sul divano mentre Ravel si allunga su una bergère accanto alla finestra. E ogni giorno il dialogo è lo stesso. Come va? chiede Zogheb. Male, dice Ravel con voce sommessa, sempre uguale. E poiché l'altro si informa se abbia dormito, Ravel fa segno di no con la testa. L'appetito?, prosegue Zogheb. Quello sì, dice remotamente Ravel, non c'è male. E ha lavorato un po'? Ravel scuote di nuovo la testa, poi le lacrime gli velano lo sguardo. Perché è successo proprio a me?, dice. Perché? Zogheb non risponde. Poi, rompendo il silenzio: Però avevo scritto delle belle cose, vero? Zogheb non risponde. Si trattiene con Ravel fino alle otto e l'indomani, alle cinque, torna a porgli le stesse domande. E così ogni giorno finché la notte scende e pone il problema del sonno.
Tecnica n. 4: Bromuro di potassio, Laudano, Veronal, Nembutal, Prominal, Soneryl e altri barbiturici.
Obiezione: dopo aver fatto egregiamente il loro dovere, gli ipnotici sono ora di scarso aiuto, in realtà non servono più a granché. Alle prime luci del giorno Ravel finisce comunque per assopirsi un po'. Ma questa tregua non è che un gramo sonno, turbato da sogni ostili che non gli concedono riposo: Ravel deve affrontare mostri o, quel che è peggio, fuggirli. Ed è nel momento più aspro dello scontro che di colpo si sveglia, distrutto, ogni volta più stanco della sera prima, neanche più di cattivo umore, senza più umore.
Ce n'è voluta ma, alla presenza di Ravel, danno infine il Concerto per la mano sinistra nella sua redazione autentica, che Jacques Février ha scrostato dagli abbellimenti di Wittgenstein. Durante il concerto Ravel si gira per l'ennesima volta verso la sua vicina e le chiede se ciò che stanno ascoltando l'ha davvero scritto lui, anche se stavolta ha un'attenuante: in questa forma non l'aveva mai ascoltato. Ma quando, tre mesi dopo, assiste a un altro concerto dedicato alle sue opere per pianoforte, sembra non rendersi neppure conto che è lui che acclamano alla fine. Forse è convinto che le ovazioni siano destinate al collega italiano che gli siede accanto, perché si volta e gli indirizza un meccanico sorriso, con uno sguardo vuoto da far paura. Poi lo portano a cena e lui va dietro agli altri senza una parola, fantasma come al solito elegante, tranne che la signora Révelot ha pensato bene di spillargli l'indirizzo a un risvolto della giacca, in caso di necessità.
E' chiaro che bisogna agire e gli amici non fanno che tenere consiglio. Invano Ida Rubinstein batte Inghilterra, Svizzera, Germania per consultare degli specialisti: tutti si dichiarano perplessi. Dei due pionieri della chirurgia cerebrale interpellati a Parigi, il primo sconsiglia di intervenire. L'altro dice in sostanza che neppure lui tenterebbe nulla se si trattasse del primo venuto: basterebbe lasciare le cose come stanno, a costo di vederlo perdersi indefinitamente. Il problema è che si tratta di Ravel. E a questo punto tanto vale fare qualcosa. Se l'intervento riesce, si può presumere che recuperi le sue facoltà, che abbia davanti a sé altri anni di creazione. Nonostante l'esito degli esami, che lasciano sempre un margine di dubbio, non si può scartare l'ipotesi di un tumore, e in questa prospettiva accetta di operare. Clovis Vincent è un neurochirurgo illustre, il suo punto di vista si impone, l'appuntamento è fissato per due giorni dopo.
Poiché è necessario radergli il cranio prima dell'operazione, Edouard e gli altri cercano di rassicurarlo: vedendo i suoi capelli cadere a terra, Ravel supplica infatti che lo riportino a casa. Provano a convincerlo che si tratta solo di una radiografia, di accertamenti più approfonditi, ma Ravel non crede a una parola. No, no, dice sommesso, lo so benissimo che mi tagliano la zucca. E poiché le bende gli avvolgono la testa come un turbante bianco sembra rassegnarsi, e quasi sorridere per primo di questa imprevista somiglianza con Lawrence d'Arabia.
Procedendo a mani nude, gli segano la scatola cranica per isolarne il lembo frontale destro, che viene poi asportato, e aprono trasversalmente la dura madre per esaminare cosa succede all'interno. Scoprono un cervello lievemente collassato a sinistra ma tutto sommato normale, senza segni di particolare rammollimento, anche se le circonvoluzioni, neppure loro troppo atrofizzate, sono separate da edema. Non rinvenendo alcun tumore, incidono il corno ventricolare perché fuoriesca un po' di liquido: questo infatti appare solo se si fa pressione sulla zona considerata. Iniettano più volte acqua confidando in una dilatazione: il cervello si gonfia, ma dopo un attimo si sgonfia, l'atrofia cerebrale sembra irreversibile, insomma siamo al punto di partenza. Rinunciano, chiudono il foro di drenaggio poi, lasciando aperta la dura madre, riposizionano il lembo frontale e suturano con filo scuro.
Dopo l'operazione, giacché Ravel riprende per un istante conoscenza, sono convinti che ce l'abbia fatta. Si alimenta un po', reclama la presenza di Edouard poi chiede di vedere una signora. Gli chiedono chi è questa signora, suggeriscono nomi che stenta a pronunciare. Ida Rubinstein? Fa cenno di no, con un gesto della mano in direzione del suolo. Hélène Jourdan-Morhange? No, falui. Marguerite Long? Ma no, risponde ripetendo il gesto. Più giù, dice alla fine. Più giù. Finalmente è chiaro, fanno venire la signora Révelot. Si riaddormenta, dieci giorni dopo muore, gli mettono addosso il frac, gilet bianco, collo rigido ad aletta, papillon bianco, guanti chiari, non lascia testamento, non restano né immagini filmate, né registrazioni della sua voce.
Jean Echenoz (da "Ravel", Adelphi, 2007)
2 commenti:
STORIA MOLTO TRISTE DI UN GENIALE COMPOSITORE, CHE LA MEDICINA MODERNA AVREBBE SALVATO. PER ME INDIMENTICABILE IL SECONDO MOVIMENTO DEL CONCERTO PER PIANOFORTE E ORCHESTRA IN SOL MINORE, DEL QUALE VORREI CI SI OCCUPASSE IN QUESTO BLOG.
Che dire, geniale compositore, che gli eventi tragici di una vita distaccata e tutta vissuta per la sua musica raffinamente geometrica e rassegnata...
un grande compositore
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