Anch'io, come tanti altri, sono un sopravvissuto dai campi di concentramento, dove ho avuto la sfortuna di soggiornare per ben tre anni.
Sono note le condizioni disumane alle quali i prigionieri erano sottoposti; non mi soffermerò quindi su dei particolari di "vita" di questi luoghi. Piuttosto, vorrei sottolineare la colossale importanza che avevano le scarpe per la nostra sopravvivenza. Finché, durante i controlli, le scarpe apparivano ancora in buono stato, il prigioniero veniva considerato abile per il massacrante lavoro e quindi risparmiato. Finite le scarpe, finiva con esse anche la speranza di rimanere ancora un po' in vita, giacché gli aguzzini non ne distribuivano mai un secondo paio.
Per questa ragione, stavamo molto attenti allo stato delle nostre calzature alle quali dedicavamo cure che non avevamo nemmeno per noi stessi.
C'era fra di noi un ragazzo che, improvvisatosi calzolaio, per qualche mozzicone di sigaretta o per un po' di brodaglia avanzata faceva dei miracoli con toppe, stracci o pezzi di gomma, trovati chissà dove. Il ragazzo, piuttosto taciturno, non si rifiutava mai di venirci in aiuto lavorando nella baracca fino a tarda notte a lume di candela e noi l'avevamo soprannominato "Salvatore".
Da allora sono passati tanti anni. Ogni tanto il mio pensiero andava con tenerezza alla figura di questo angelo, al quale forse molti di noi devono la vita.
Non molto tempo fa, passeggiando per una strada di Gerusalemme, fui fermato da un vecchietto, grigio e dimesso. Lo guardai e riconobbi in lui il "nostro" Salvatore.
"Cosa fai nella vita?" gli chiesi.
"Faccio sempre il calzolaio, ma ora non rattoppo più zoccoli e scarponi, bensì riparo scarpe di lusso", disse con orgoglio "E tu, Raffaele, cosa fai? Cosa lavori?".
"lo... canto", proferii timidamente.
"Va bene, ho capito canti ... Anch'io quando lavoro, canto. Ma che lavoro fai?".
Forse aveva ragione Salvatore: Il canto è lavoro?
Sono note le condizioni disumane alle quali i prigionieri erano sottoposti; non mi soffermerò quindi su dei particolari di "vita" di questi luoghi. Piuttosto, vorrei sottolineare la colossale importanza che avevano le scarpe per la nostra sopravvivenza. Finché, durante i controlli, le scarpe apparivano ancora in buono stato, il prigioniero veniva considerato abile per il massacrante lavoro e quindi risparmiato. Finite le scarpe, finiva con esse anche la speranza di rimanere ancora un po' in vita, giacché gli aguzzini non ne distribuivano mai un secondo paio.
Per questa ragione, stavamo molto attenti allo stato delle nostre calzature alle quali dedicavamo cure che non avevamo nemmeno per noi stessi.
C'era fra di noi un ragazzo che, improvvisatosi calzolaio, per qualche mozzicone di sigaretta o per un po' di brodaglia avanzata faceva dei miracoli con toppe, stracci o pezzi di gomma, trovati chissà dove. Il ragazzo, piuttosto taciturno, non si rifiutava mai di venirci in aiuto lavorando nella baracca fino a tarda notte a lume di candela e noi l'avevamo soprannominato "Salvatore".
Da allora sono passati tanti anni. Ogni tanto il mio pensiero andava con tenerezza alla figura di questo angelo, al quale forse molti di noi devono la vita.
Non molto tempo fa, passeggiando per una strada di Gerusalemme, fui fermato da un vecchietto, grigio e dimesso. Lo guardai e riconobbi in lui il "nostro" Salvatore.
"Cosa fai nella vita?" gli chiesi.
"Faccio sempre il calzolaio, ma ora non rattoppo più zoccoli e scarponi, bensì riparo scarpe di lusso", disse con orgoglio "E tu, Raffaele, cosa fai? Cosa lavori?".
"lo... canto", proferii timidamente.
"Va bene, ho capito canti ... Anch'io quando lavoro, canto. Ma che lavoro fai?".
Forse aveva ragione Salvatore: Il canto è lavoro?
dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Ariè
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