Che sia solo una pura coincidenza?
L'anno scorso, di questi tempi, Andras Schiff, interrogato sulle proprie radici musicali, con sguardo nostalgico tornava a Budapest, alla bella casa dove ogni giorno di festa diventava pretesto per ritrovarsi insieme, e fare musica. Soprattutto i bambini: "Cantavamo diceva Schiff lentamente, quasi assaporando ancora quel piacere lontano - ah, i bambini quando cantano...".
Coincidenza? Nell'incontro con Trevor Pinnock, appena sfiorato il tasto dei ricordi, la prima fotografia che è venuta tra le mani era l'immagine di Trevor bambino, cantore presso la Cattedrale di Canterbury: "La scuola di coro è il miglior training per accostarsi alla musica - l'anima concreta, il pragmatismo ìnglese di Pinnock esce immediatamente; ma è subito temperato dalla poesia Cantare era allora per me una ragione di vita".
Uno nasce a Canterbury, e di necessità finisce nel coro della Cattedrale: è andata così Maestro?
"Non propriamente: è vero che la mia prima esperienza musicale è stata il coro dei bambini, ed è stata una palestra meravigliosa: non si può immaginare il piacere che si prova a sette-otto anni, quando si può già produrre musica in modo professionale. Cantavamo per tutte le funzioni della cattedrale, quindi avevamo un repertorio ben determinato di canti da chiesa; ma facevamo anche tanto Bach: ricordo l'emozione dell'incontro con la Passione secondo Matteo. Però, se devo ritornare con la memoria al mio primo, vero, forte impatto con la musica, allora l'immagine non è quella di Canterbury, con le ore di studio in quelle aule chiuse (la scuola è sempre stata un grosso problema per me: non trovavo la ragione di stare fermi in una stanza; comunque sono sopravvissuto), dunque niente Canterbury, ma una spiaggia di fronte al mare. Ero molto piccolo, passava una brass-band: il mare dietro, la banda davanti, questa sovrapposizione di suoni, di ritmi... Ero incantato. Ricordo la fatica dei miei genitori per portarmi via".
E' una sorpresa scoprire questo suo animo ribelle alla scuola, alla disciplina: eppure il curriculum del giovane Trevor Pinnock sembra quello del più diligente allievo-modello: prima le regole del coro dei bambini, poi le borse di studio al Royal College di Londra...
"Calma, calma. Precisiamo. Al Royal College ho avuto un sacco di problemi: intanto io volevo solo studiare il clavicembalo, e loro - che veramente oggi posso dire guardavano alla musica con il paraocchi - fecero di tutto per convincermi che solo con quello strumento non avrei avuto un futuro. Alla fine mi costrinsero alla resa, cioè a diplomarmi anche in organo, con il ricatto della restituzione della borsa di studio, che mi ero guadagnata con i risultati sul clavicembalo".
Ma cos'era questa fissazione del clavicembalo?
"Era - è - un'attrazione. A molti sembra uno strumento meccanico, senza anima: ecco, lì stava la sfida eccitante: immettergli vita, estrarre dal clavicembalo la musica".
Mai la tentazione di un bell'affondo sul pianoforte?
"Sì, per divertimento. Ma ci sono pianisti migliori! Non ho mai avvertito il senso della limitazione legata ad uno strumento: io credo che sia possibile fare musica senza pregiudizi con qualsiasi oggetto che la musica del passato ci ha consegnato. E' questo, in fondo, il nostro job: cercare la musica, che va al di là della stretta filologia. Non mi sento un oggetto da museo. Se mi chiedete di indicare l'epoca in cui vorrei vivere, scelgo il presente".
Perché allora questa predilezione per i timbri antichi?
"Io trovo bella anche la musica fatta su strumenti moderni. Però so che una pagina del passato lì, in qualche modo, non è a posto: è il tempo che separa lo strumento moderno dalla musica antica. Sapevo, allora, agli inizi degli anni Settanta, che bisognava trovare a new road, una strada nuova, che forse poteva essere anche pericolosa (e, in effetti, ci furono anche risultati deludenti, all'inizio), ma si doveva proseguire, per scoprire insieme i segreti di strumenti e partiture del nostro passato. E adesso c'è la grande gioia di suonare; la coscienza di poter usare lo strumento senza inibizioni, perché è proprio la musica antica, su strumenti antichi, che non pone limiti".
Eravate dei pionieri, in quegli anni, a Londra?
"Avevamo alle spalle la grande esperienza della Academy of Saint-Martin-in-the-Fields di Neville Marriner e Gardiner aveva da qualche anno fondato il suo coro. Era il 1973: mi sembrò naturale ampliare l'esperienza del trio, con il flauto e il violoncello, che portavo avanti da tempo e funzionava molto bene, estendendo l'organico a quello di una piccola orchestra. Sulle orme di Marriner, anche l'English Concert ebbe a Londra una sede stabile in una ex-chiesa, a navata unica, una costruzione molto bella, esemplare acusticamente e dalla capienza di ottocento persone".
Ma insomma avete da subito vissuto bene, voi, con strumenti e musica antica, oppure c'è stato dissenso nei vostri confronti?
"Eravamo visti assolutamente come rivoluzionari, avevamo contro gli stessi musicisti, che disapprovavano questo modo di fare musica diverso rispetto all'uso comune. Il mondo della musica è conservatore per natura: noi lo sconvolgevamo. Ora siamo più integrati. Abbiamo molti incontri con i migliori interpreti: ricordo le discussioni con Kremer, con la Argerich, Zimerman... Parliamo, ci confrontiamo, magari giusto per il tempo di un aperitivo insieme, nella hall di un albergo in giro per il mondo. Ma sono confronti che ben chiariscono la caduta di certe barriere".
L'English Concert, Trevor Pinnock, voi vi sentite depositari dei segreti dell'interpretazione di un certo repertorio?
"Onestamente devo dire che non ho idea se il nostro suono coincida con quello del passato: come suonava questa musica antica rimane un mistero. Però possiamo cercare di capire, di leggere queste partiture, di interrogare gli strumenti che la tradizione ci ha consegnato, di indagarne le accordature, l'uso. Quello che a me interessa è sottolineare lo spirito di questa musica, e credo che possa avere un forte effetto sulla vita degli uomini l'essere esposti alle arti a questi alti livelli. Comunque non mi sento un maestro, perché non credo all'educazione intesa in questi termini, di uno che parla e gli altri ascoltano. Educazione è mettersi con i pugni alle tempie, e cercare individualmente di capire".
Ma lei è anche direttore, quindi in un certo senso sta nel posto di uno che detta dall'alto.
"Io governo la musica. Diventare direttore non era la mia prima ambizione. E poi, se dirigo, mi piace anche molto la musica del ventesimo secolo".
Governare la musica. In effetti il suogesto come quello di Harnoncourt, di Gardiner, di Brüggen - non ha nulla, o almeno ha ben poco, da spartire con la tradizione del podio. Qual è il vostro segreto per far tornare ugualmente i conti con le orchestre?
"Il mio segreto? E' lo stesso di quando affronto la musica antica. Tento di immergermi nella musica, la interrogo, non mi metto mai sopra di lei. Così anche alle orchestre non chiedo di seguire me, perché direttore, ma di fare quello che la musica vuole. E' un po' un cambiamento di prospettiva. Ma i musicisti fanno meglio, si sentono creativi, ciascuno con la propria personalità. E la musica salta fuori, fresh and living.
Fresh, new, living: questi termini saltano continuamente fuori, parlando con lei. Però adesso lei abbandona i suoi dell'English Concert e se ne va a Ottawa, a dirigere stabilmente questa orchestra, di cui peraltro da noi si sa ben poco...
"Innanzitutto io non lascio l'English Concert. Ho solo scelto di svolgere con maggiore continuità un lavoro che già faccio da tempo con l'Orchestra di Ottawa. Sono stato direttore ospite da loro negli ultimi sette anni, ma non mi piace la carica di direttore ospite; non mi piace nemmeno saltare da un'orchestra all'altra; diventa uno show del direttore, più che un reale rapporto che fa crescere e maturare le orchestre Perché cì vuole un lungo tempo di collaborazione per creare l'intesa giusta tra direttore e orchestra. lo ho comunque una massima: devo essere io a credere nei miei musicisti, più di quanto loro credano in me. Da questo rapporto di fiducia nasce la musica nuova. Guardate, ad esempio, il gruppo di Count Basie: erano musicisti assolutamente normali, non migliori di altri, eppure c'era un'atmosfera diversa tra di loro, e crearono un nuovo modo di suonare".
Ha in progetto di plasmare il suono di questa Orchestra di Ottawa, dandole caratteristiche timbriche perfettamente individuabili, così come è successo per l'English Concert?
"Non so: il suono delle orchestre resta sempre un mistero. Certo, questi di Ottawa usano strumenti moderni, non so se arriveranno alla fine ad assomigliare all'English Concert, e non parlo solo di timbri... Intendo anche il modo di lavorare insieme, di studiare... Di certo l'Orchestra di Ottawa ha tre caratteristiche: la flessibilità, il virtuosismo e un suono molto caldo".
Si suonerà - come è tradizione - anche molta musica contemporanea a Ottawa?
"Certo. L'Orchestra ha un composer in residence, che è Linda Bouchard. Confesso che le prime volte che mi hanno messo di fronte alle sue partiture mi sembrava cinese. Poi è successa una cosa strana: guardando e riguardando tutti i giorni quelle musiche, improvvisamente mi sono sembrate diverse. Riuscivo a capirle. Avevano dei significati. E' stato come studiare un pezzo di Bach".
Lei dunque non crede che sia importante specializzarsi nell'esecuzione di un determinato repertorio?
"Credo che sia naturale che un musicista scelga, nel repertorio sconfinato che abbiamo di fronte. E che anche la specializzazione sia per certi versi un bene. Ma siamo uomini del ventesimo secolo, non oggetti da museo. A me piace suonare la musica scritta nel mio tempo. E comunque non faccio mai un problema di date con la musica: io non ho affatto il senso della storia, non mi interessa indagare date e numeri. Per me l'importante è riconoscere in un pezzo di carta il senso della musica, il miracolo di ritrovarla, ogni volta, fresh and living".
E dunque mai cambierà l'English Concert?
"No, non cambierà. Anche a dispetto delle grandi evoluzioni del mondo di oggi. Noi crediamo in questo modo di suonare. Non ci sono motivi per lasciarlo. E poi c'è ancora talmente tanta musica da suonare: da Purcell a Mozart abbiamo un repertorio sconfinato. E' una tremenda ricchezza. Abbiamo il dovere di salvaguardarla".
L'anno scorso, di questi tempi, Andras Schiff, interrogato sulle proprie radici musicali, con sguardo nostalgico tornava a Budapest, alla bella casa dove ogni giorno di festa diventava pretesto per ritrovarsi insieme, e fare musica. Soprattutto i bambini: "Cantavamo diceva Schiff lentamente, quasi assaporando ancora quel piacere lontano - ah, i bambini quando cantano...".
Coincidenza? Nell'incontro con Trevor Pinnock, appena sfiorato il tasto dei ricordi, la prima fotografia che è venuta tra le mani era l'immagine di Trevor bambino, cantore presso la Cattedrale di Canterbury: "La scuola di coro è il miglior training per accostarsi alla musica - l'anima concreta, il pragmatismo ìnglese di Pinnock esce immediatamente; ma è subito temperato dalla poesia Cantare era allora per me una ragione di vita".
Uno nasce a Canterbury, e di necessità finisce nel coro della Cattedrale: è andata così Maestro?
"Non propriamente: è vero che la mia prima esperienza musicale è stata il coro dei bambini, ed è stata una palestra meravigliosa: non si può immaginare il piacere che si prova a sette-otto anni, quando si può già produrre musica in modo professionale. Cantavamo per tutte le funzioni della cattedrale, quindi avevamo un repertorio ben determinato di canti da chiesa; ma facevamo anche tanto Bach: ricordo l'emozione dell'incontro con la Passione secondo Matteo. Però, se devo ritornare con la memoria al mio primo, vero, forte impatto con la musica, allora l'immagine non è quella di Canterbury, con le ore di studio in quelle aule chiuse (la scuola è sempre stata un grosso problema per me: non trovavo la ragione di stare fermi in una stanza; comunque sono sopravvissuto), dunque niente Canterbury, ma una spiaggia di fronte al mare. Ero molto piccolo, passava una brass-band: il mare dietro, la banda davanti, questa sovrapposizione di suoni, di ritmi... Ero incantato. Ricordo la fatica dei miei genitori per portarmi via".
E' una sorpresa scoprire questo suo animo ribelle alla scuola, alla disciplina: eppure il curriculum del giovane Trevor Pinnock sembra quello del più diligente allievo-modello: prima le regole del coro dei bambini, poi le borse di studio al Royal College di Londra...
"Calma, calma. Precisiamo. Al Royal College ho avuto un sacco di problemi: intanto io volevo solo studiare il clavicembalo, e loro - che veramente oggi posso dire guardavano alla musica con il paraocchi - fecero di tutto per convincermi che solo con quello strumento non avrei avuto un futuro. Alla fine mi costrinsero alla resa, cioè a diplomarmi anche in organo, con il ricatto della restituzione della borsa di studio, che mi ero guadagnata con i risultati sul clavicembalo".
Ma cos'era questa fissazione del clavicembalo?
"Era - è - un'attrazione. A molti sembra uno strumento meccanico, senza anima: ecco, lì stava la sfida eccitante: immettergli vita, estrarre dal clavicembalo la musica".
Mai la tentazione di un bell'affondo sul pianoforte?
"Sì, per divertimento. Ma ci sono pianisti migliori! Non ho mai avvertito il senso della limitazione legata ad uno strumento: io credo che sia possibile fare musica senza pregiudizi con qualsiasi oggetto che la musica del passato ci ha consegnato. E' questo, in fondo, il nostro job: cercare la musica, che va al di là della stretta filologia. Non mi sento un oggetto da museo. Se mi chiedete di indicare l'epoca in cui vorrei vivere, scelgo il presente".
Perché allora questa predilezione per i timbri antichi?
"Io trovo bella anche la musica fatta su strumenti moderni. Però so che una pagina del passato lì, in qualche modo, non è a posto: è il tempo che separa lo strumento moderno dalla musica antica. Sapevo, allora, agli inizi degli anni Settanta, che bisognava trovare a new road, una strada nuova, che forse poteva essere anche pericolosa (e, in effetti, ci furono anche risultati deludenti, all'inizio), ma si doveva proseguire, per scoprire insieme i segreti di strumenti e partiture del nostro passato. E adesso c'è la grande gioia di suonare; la coscienza di poter usare lo strumento senza inibizioni, perché è proprio la musica antica, su strumenti antichi, che non pone limiti".
Eravate dei pionieri, in quegli anni, a Londra?
"Avevamo alle spalle la grande esperienza della Academy of Saint-Martin-in-the-Fields di Neville Marriner e Gardiner aveva da qualche anno fondato il suo coro. Era il 1973: mi sembrò naturale ampliare l'esperienza del trio, con il flauto e il violoncello, che portavo avanti da tempo e funzionava molto bene, estendendo l'organico a quello di una piccola orchestra. Sulle orme di Marriner, anche l'English Concert ebbe a Londra una sede stabile in una ex-chiesa, a navata unica, una costruzione molto bella, esemplare acusticamente e dalla capienza di ottocento persone".
Ma insomma avete da subito vissuto bene, voi, con strumenti e musica antica, oppure c'è stato dissenso nei vostri confronti?
"Eravamo visti assolutamente come rivoluzionari, avevamo contro gli stessi musicisti, che disapprovavano questo modo di fare musica diverso rispetto all'uso comune. Il mondo della musica è conservatore per natura: noi lo sconvolgevamo. Ora siamo più integrati. Abbiamo molti incontri con i migliori interpreti: ricordo le discussioni con Kremer, con la Argerich, Zimerman... Parliamo, ci confrontiamo, magari giusto per il tempo di un aperitivo insieme, nella hall di un albergo in giro per il mondo. Ma sono confronti che ben chiariscono la caduta di certe barriere".
L'English Concert, Trevor Pinnock, voi vi sentite depositari dei segreti dell'interpretazione di un certo repertorio?
"Onestamente devo dire che non ho idea se il nostro suono coincida con quello del passato: come suonava questa musica antica rimane un mistero. Però possiamo cercare di capire, di leggere queste partiture, di interrogare gli strumenti che la tradizione ci ha consegnato, di indagarne le accordature, l'uso. Quello che a me interessa è sottolineare lo spirito di questa musica, e credo che possa avere un forte effetto sulla vita degli uomini l'essere esposti alle arti a questi alti livelli. Comunque non mi sento un maestro, perché non credo all'educazione intesa in questi termini, di uno che parla e gli altri ascoltano. Educazione è mettersi con i pugni alle tempie, e cercare individualmente di capire".
Ma lei è anche direttore, quindi in un certo senso sta nel posto di uno che detta dall'alto.
"Io governo la musica. Diventare direttore non era la mia prima ambizione. E poi, se dirigo, mi piace anche molto la musica del ventesimo secolo".
Governare la musica. In effetti il suogesto come quello di Harnoncourt, di Gardiner, di Brüggen - non ha nulla, o almeno ha ben poco, da spartire con la tradizione del podio. Qual è il vostro segreto per far tornare ugualmente i conti con le orchestre?
"Il mio segreto? E' lo stesso di quando affronto la musica antica. Tento di immergermi nella musica, la interrogo, non mi metto mai sopra di lei. Così anche alle orchestre non chiedo di seguire me, perché direttore, ma di fare quello che la musica vuole. E' un po' un cambiamento di prospettiva. Ma i musicisti fanno meglio, si sentono creativi, ciascuno con la propria personalità. E la musica salta fuori, fresh and living.
Fresh, new, living: questi termini saltano continuamente fuori, parlando con lei. Però adesso lei abbandona i suoi dell'English Concert e se ne va a Ottawa, a dirigere stabilmente questa orchestra, di cui peraltro da noi si sa ben poco...
"Innanzitutto io non lascio l'English Concert. Ho solo scelto di svolgere con maggiore continuità un lavoro che già faccio da tempo con l'Orchestra di Ottawa. Sono stato direttore ospite da loro negli ultimi sette anni, ma non mi piace la carica di direttore ospite; non mi piace nemmeno saltare da un'orchestra all'altra; diventa uno show del direttore, più che un reale rapporto che fa crescere e maturare le orchestre Perché cì vuole un lungo tempo di collaborazione per creare l'intesa giusta tra direttore e orchestra. lo ho comunque una massima: devo essere io a credere nei miei musicisti, più di quanto loro credano in me. Da questo rapporto di fiducia nasce la musica nuova. Guardate, ad esempio, il gruppo di Count Basie: erano musicisti assolutamente normali, non migliori di altri, eppure c'era un'atmosfera diversa tra di loro, e crearono un nuovo modo di suonare".
Ha in progetto di plasmare il suono di questa Orchestra di Ottawa, dandole caratteristiche timbriche perfettamente individuabili, così come è successo per l'English Concert?
"Non so: il suono delle orchestre resta sempre un mistero. Certo, questi di Ottawa usano strumenti moderni, non so se arriveranno alla fine ad assomigliare all'English Concert, e non parlo solo di timbri... Intendo anche il modo di lavorare insieme, di studiare... Di certo l'Orchestra di Ottawa ha tre caratteristiche: la flessibilità, il virtuosismo e un suono molto caldo".
Si suonerà - come è tradizione - anche molta musica contemporanea a Ottawa?
"Certo. L'Orchestra ha un composer in residence, che è Linda Bouchard. Confesso che le prime volte che mi hanno messo di fronte alle sue partiture mi sembrava cinese. Poi è successa una cosa strana: guardando e riguardando tutti i giorni quelle musiche, improvvisamente mi sono sembrate diverse. Riuscivo a capirle. Avevano dei significati. E' stato come studiare un pezzo di Bach".
Lei dunque non crede che sia importante specializzarsi nell'esecuzione di un determinato repertorio?
"Credo che sia naturale che un musicista scelga, nel repertorio sconfinato che abbiamo di fronte. E che anche la specializzazione sia per certi versi un bene. Ma siamo uomini del ventesimo secolo, non oggetti da museo. A me piace suonare la musica scritta nel mio tempo. E comunque non faccio mai un problema di date con la musica: io non ho affatto il senso della storia, non mi interessa indagare date e numeri. Per me l'importante è riconoscere in un pezzo di carta il senso della musica, il miracolo di ritrovarla, ogni volta, fresh and living".
E dunque mai cambierà l'English Concert?
"No, non cambierà. Anche a dispetto delle grandi evoluzioni del mondo di oggi. Noi crediamo in questo modo di suonare. Non ci sono motivi per lasciarlo. E poi c'è ancora talmente tanta musica da suonare: da Purcell a Mozart abbiamo un repertorio sconfinato. E' una tremenda ricchezza. Abbiamo il dovere di salvaguardarla".
Carla Moreni (Musica Viva, Anno XVII n.2, febbraio 1993)
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