Festival del Quartetto pare una contraddizione di termini, un ossimoro classico. Come conciliare l'idea spettacolare, da emporio sonoro, sensazionalistica, spesso più eccentrica che autenticamente motivata culturalmente, d'un festival, con l'inclinazione aristocratica, vagamente solipsistica e selettiva del repertorio del quartetto? E poi, che bisogno c'era d'un festival? Seppure onorato dall'interessamento artistico di Salvatore Accardo, che negli ultimi tempi dedica sempre più (troppo?) tempo alle consulenze e all'organizzazione.
La letteratura per quattro archi - considerata sia dal punto di vista esecutivo che dal modo di assaporarla - è una sorta di prolungamento storico-stilistico del madrigale cinquecentesco o della lirica vocale da camera del Seicento. Musica cameristica per antonomasia, ovvero musica che dà piacere soprattutto a chi la fa. Musica che non vuole spettatori, tant'è privata nella sua configurazione strumentale e grafica. La storia del consumo in musica - prima dell'era nostra della riproducibilità casalinga - ci insegna infatti che la progressiva prostituzione pubblica venne avviata dal melodramma, quindi toccò il sinfonismo e concertismo: soltanto poco più d'un secolo fa si imposero il recital solistico (accanto alle residue esibizioni degli autori-interpreti) e le prime stagioni a pagamento in cui c'era spazio anche per la musica da camera non agìta in prima persona. Per quel che riguarda lo specifico quartettistico, basterebbe ricordare che soltanto in questo secolo la pratica concertistica ha favorito la costituzione di formazioni stabili: prima del Quartetto Busch o del Quartetto Italiano (lo stesso vale per il classico trio), i gruppi quand'anche eccellenti erano occasionali e precari, segno che lo sfruttamento del repertorio quartettistico, quindi la familiarità d'ascolto nei non-praticanti, era ancora minima. Oggi qualcosa è cambiato: e se un Festival del Quartetto forse può sembrare un lusso, rimane però un bel segnale di maturazione del pubblico (ma non possiamo fare a meno di ricordare che il nuovissimo Dizionario della musica e dei musicisti Utet, nella sezione biografie che cita, con criteri di difficile comprensione, innumerevoli esecutori di oggi, non elenca nemmeno un Quartetto). Un pubblico che si sperdeva un po' tra gli stucchi dorati del Teatro Valli, ma che ha esaurito gli appuntamenti decentrati, i quali hanno unito interesse musicale per i programmi e i giovani complessi portati in passerella alla curiosità per le originali sedi: per il Quartetto di Fiesole, ultimo prodotto eccellente della bottega di Piero Farulli, la Chiesa di San Giorgio a Rio Saliceto pareva perfino troppo piccola. Ma un pubblico che negli intervalli disquisiva delle interpretazioni appena ascoltate e dell'edizione critica di lavori programmati, con competenza impressionante e soprattutto con una passione rara.
Del resto, che il repertorio quartettistico non intimorisca più l'aveva dimostrato l'integrale beethoveniana regalata dal Piccolo Teatro di Milano qualche mese prima (protagonista il Quartetto Melos) e quella annunciata per il prossimo anno dalla Società del Quartetto alla Scala, affidata al Quartetto di Tokyo. Anche a Reggio Emilia spiccava nel programma l'integrale dei Quartetti di Beethoven, accanto alla proposta completa di quelli di Schumann e di Brahms. Il Festival, giunto alla seconda edizione, è una sorta di integrazione spirituale della vocazione quartettistica di Reggio Emilia, già espressa dal "Concorso Borciani ". L'edizione 1992, avviata dal Quartetto Borodin e conclusa dal Quartetto Stauffer, ha dato spazio anche alla prima esecuzione assoluta di Un segno nello spazio di Marco Stroppa, pezzo d'obbligo alla futura edizione del Concorso, e ha battezzato una nuova coreografia di Mauro Bigonzetti (scene e costumi di Claudio Parmeggiani), Pitture per archi, creata per l'Aterballetto sulla beethoveniana Grande Fuga op.133.
Noi abbiamo ascoltato le due esibizioni contigue dell'americano Quartetto Emerson, cui sono toccati i quattro capolavori dell'estrema stagione compositiva beethoveniana: l'op.131, l'op.132 e l'op.130 come ultimo movimento. Esecuzione di non comune efficienza strumentale, ma poco interessante. Il "democratico" Quartetto Emerson, famoso per l'avvicendamento al primo leggio dei due violinisti - ma Eugene Drucker non possiede l'autorevolezza di Philip Setzer - ha una visione squisitamente astratta della scrittura d'autore. Che è metafisica ma non esangue, anzi vive d'una specie di fosforescenza irresistibile svelata dal ricchissimo repertorio di soluzioni timbriche e dinamiche, nonché dal ricorso disarmante a sottili raccomandazioni poetico-espressive come di parole delicate quali sentimento e tenerezza. Che in esecuzione non si sono avvertite mai.
La letteratura per quattro archi - considerata sia dal punto di vista esecutivo che dal modo di assaporarla - è una sorta di prolungamento storico-stilistico del madrigale cinquecentesco o della lirica vocale da camera del Seicento. Musica cameristica per antonomasia, ovvero musica che dà piacere soprattutto a chi la fa. Musica che non vuole spettatori, tant'è privata nella sua configurazione strumentale e grafica. La storia del consumo in musica - prima dell'era nostra della riproducibilità casalinga - ci insegna infatti che la progressiva prostituzione pubblica venne avviata dal melodramma, quindi toccò il sinfonismo e concertismo: soltanto poco più d'un secolo fa si imposero il recital solistico (accanto alle residue esibizioni degli autori-interpreti) e le prime stagioni a pagamento in cui c'era spazio anche per la musica da camera non agìta in prima persona. Per quel che riguarda lo specifico quartettistico, basterebbe ricordare che soltanto in questo secolo la pratica concertistica ha favorito la costituzione di formazioni stabili: prima del Quartetto Busch o del Quartetto Italiano (lo stesso vale per il classico trio), i gruppi quand'anche eccellenti erano occasionali e precari, segno che lo sfruttamento del repertorio quartettistico, quindi la familiarità d'ascolto nei non-praticanti, era ancora minima. Oggi qualcosa è cambiato: e se un Festival del Quartetto forse può sembrare un lusso, rimane però un bel segnale di maturazione del pubblico (ma non possiamo fare a meno di ricordare che il nuovissimo Dizionario della musica e dei musicisti Utet, nella sezione biografie che cita, con criteri di difficile comprensione, innumerevoli esecutori di oggi, non elenca nemmeno un Quartetto). Un pubblico che si sperdeva un po' tra gli stucchi dorati del Teatro Valli, ma che ha esaurito gli appuntamenti decentrati, i quali hanno unito interesse musicale per i programmi e i giovani complessi portati in passerella alla curiosità per le originali sedi: per il Quartetto di Fiesole, ultimo prodotto eccellente della bottega di Piero Farulli, la Chiesa di San Giorgio a Rio Saliceto pareva perfino troppo piccola. Ma un pubblico che negli intervalli disquisiva delle interpretazioni appena ascoltate e dell'edizione critica di lavori programmati, con competenza impressionante e soprattutto con una passione rara.
Del resto, che il repertorio quartettistico non intimorisca più l'aveva dimostrato l'integrale beethoveniana regalata dal Piccolo Teatro di Milano qualche mese prima (protagonista il Quartetto Melos) e quella annunciata per il prossimo anno dalla Società del Quartetto alla Scala, affidata al Quartetto di Tokyo. Anche a Reggio Emilia spiccava nel programma l'integrale dei Quartetti di Beethoven, accanto alla proposta completa di quelli di Schumann e di Brahms. Il Festival, giunto alla seconda edizione, è una sorta di integrazione spirituale della vocazione quartettistica di Reggio Emilia, già espressa dal "Concorso Borciani ". L'edizione 1992, avviata dal Quartetto Borodin e conclusa dal Quartetto Stauffer, ha dato spazio anche alla prima esecuzione assoluta di Un segno nello spazio di Marco Stroppa, pezzo d'obbligo alla futura edizione del Concorso, e ha battezzato una nuova coreografia di Mauro Bigonzetti (scene e costumi di Claudio Parmeggiani), Pitture per archi, creata per l'Aterballetto sulla beethoveniana Grande Fuga op.133.
Noi abbiamo ascoltato le due esibizioni contigue dell'americano Quartetto Emerson, cui sono toccati i quattro capolavori dell'estrema stagione compositiva beethoveniana: l'op.131, l'op.132 e l'op.130 come ultimo movimento. Esecuzione di non comune efficienza strumentale, ma poco interessante. Il "democratico" Quartetto Emerson, famoso per l'avvicendamento al primo leggio dei due violinisti - ma Eugene Drucker non possiede l'autorevolezza di Philip Setzer - ha una visione squisitamente astratta della scrittura d'autore. Che è metafisica ma non esangue, anzi vive d'una specie di fosforescenza irresistibile svelata dal ricchissimo repertorio di soluzioni timbriche e dinamiche, nonché dal ricorso disarmante a sottili raccomandazioni poetico-espressive come di parole delicate quali sentimento e tenerezza. Che in esecuzione non si sono avvertite mai.
Angelo Foletto (Musica Viva, Anno XVI n.8/9, agosto/settembre 1992)
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