Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, settembre 21, 2006

Alan Curtis: pioniere ed esteta

Alan Stanley Curtis nasce il 17 novembre 1934 a Mason, nel Michigan. Studia prima alla Michigan State University (nella cui biblioteca scopre l'edizione di Chrysander delle opere complete di Händel) e in seguito con Gustav Leonhardt (1957-59) ad Amsterdam. Il dottorato lo prende all'Università dell'Illinois, dopo di che egli entra a far parte del corpo docente a Berkeley, in California. Per un certo periodo si divide tra Europa ed America, poi sceglie l'Italia, dove vive in una bella casa alle porte di Firenze. Musicologo, clavicembalista e direttore d'orchestra Curtis ha scritto pagine significative nella storia dell'interpretazione. E' stato uno dei primi ad occuparsi seriamente della problematica dei tempi nella musica per tastiera di Couperin; il primo a dirigere l'Incoronazione di Poppea tentando un'autentica "ricostruzione" dell'orchestra seicentesca. Altrettanto pionieristica è stata la sua volontà di restituirci, insieme al suo Complesso Barocco, un repertorio teatrale pressoché sconosciuto: titoli come La Schiava liberata di Jommelli, l'Erismena di Cavalli, La Susanna di Stradella, La Liberazione di Ruggero dall'isola di Alcina di Caccini, Giustino e, ora, Montezuma di Vivaldi. Infine c'è stato un interesse costante per le opere di Händel. Un interesse che ha motivato sia il direttore (che dall'inizio della carriera è stato molto attivo anche in sala d'incisione) sia lo studioso: è riuscito a comporre le parti mancanti di alcune opere con una tale adesione stilistica che persino gli specialisti faticano a distinguere la sua mano da quella del compositore. La casa di Curtis è scrigno di raccolte d'arte: dimora di un uomo affascinato dal bello. Nella vita privata come nella professione è il Settecento il periodo che ama, e gli piace contornarsi di oggetti di quell'epoca. Qualche volta potrebbe sembrare distratto, ma in realtà è attentissimo a tutto quello che gli accade intorno, e si applica al lavoro con dedizione maniacale, pretendendo molto dai suoi co-interpreti.

Chi è Alan Curtis?
Sono un musicista americano, ammiratore di tanti aspetti della vita italiana. Spero di finire i miei giorni in questo paese.
Viene da una famiglia musicale?
No.
Come ha scoperto, da ragazzo, la passione per la musica?
Con grande difficoltà!
Perché?
Perché vivevo in un luogo dove la cultura musicale era... un po' come in Italia ora: altre cose erano più importanti della musica! Mia madre era contenta che amassi la musica, anche se non se ne intendeva molto; mio padre, invece, si preoccupava delle mie possibilità far carriera.
Ha studiato musica a Mason, la sua città natale?
Sì, però non offriva molte opportunità. Non molto distante tuttavia c'era l'università di Michigan State: lì insegnavano persone del calibro di Hans Nathan, un musicista ebreo che era fuggito dalla Germania nazista ed era finito in quel postaccio! Si era creata lì un'oasi di cultura in mezzo al deserto.
Parla di «postaccio» e «deserto»: sembrerebbe che sia stato molto contento di poter scappare da quei luoghi.
Si! Quando ci sono tornato per i funerali di mio padre, ho notato che la campagna era molto bella: più bella di quanto ricordassi. Però sempre deserto culturale è!
Non sarebbe più stimolante per un direttore specializzato nel repertorio barocco vivere in un paese dove questa musica è ancora più apprezzata, come la Francia o la Germania?
Si, però mi piace di più stare in Italia e contribuire alla promozione della musica barocca in questo paese. Secondo me, il pubblico c'è, anche se in questo momento, rispetto almeno ad altri paesi, la musica del Sei-Settecento non è così vistosamente di moda. Voglio però continuare a combattere, facendo delle cose buone che possano stimolare e eventualmente cambiare la moda.
Come spiega il grande interesse negli ultimi decenni per le opere di Händel?
Le sue opere comunicano qualcosa al pubblico di oggi che non riuscivano a comunicare trent'anni fa. E' cambiata la mentalità del pubblico. Un ruolo maschile cantato da una donna non dà più fastidio, e si riesce ad apprezzare di più la drammaturgia un po' nascosta delle opere di Händel. Una drammaturgia che sta dentro la musica e che psicologicamente è assai sottile. Per dare un esempio: una volta veniva criticata quell'aria di Alceste in Admeto nella quale la donna esprime speranza, piuttosto che lamentarsi, quando scopre che Admeto è infedele. Oggi, invece, si apprezza meglio la psicologia di una moglie che, comunque gelosa a causa di una rivale, reagisce grintosamente nel tentativo di riconquistare il marito. Prima si pensava insomma che Händel avesse soltanto scritto della bella musica senza badare alle parole. Un errore di percezione che impediva di capire bene anche la musica. Adesso stiamo gradualmente imparando ad apprezzare la sua straordinaria capacità di interiorizzare nella musica le emozioni molto forti che alimentano i suoi drammi, e di sviluppare un complesso intreccio emotivo che, alla fine, a volte viene risolto, a volte no. E' una cosa che pochi compositori sanno fare. Il pubblico oggi non è più condizionato da una forte esigenza di realismo: accetta benissimo il fatto che un personaggio che dichiara di essere in partenza per la guerra si lanci poi in una lunga aria tripartita. Oggi siamo assolutamente coscienti che ciò che è importante in un'opera non sia il realismo ma la verità delle emozioni. E in Händel questa verità c'è quasi sempre. La percezione di questa verità dipende però anche moltissimo dagli interpreti. Oggi ci sono cantanti in grado di convincere il pubblico più di vent'anni fa.
Il revival della musica barocca è dovuto anche alla ricerca filologica?
No, penso semmai che avvenga il contrario. Quando c'è l'interesse di sentire un'opera, allora è facile trovare qualcuno che sia stimolato a fame un'edizione critica. L'esistenza di un'edizione ben realizzata di una partitura non stimola necessariamente l'esecuzione di quell'opera. Tante sono le opere in biblioteca, anche in edizioni meravigliose, che non vengono mai sfogliate da nessuno! Per me, del resto, la filologia non deve essere una meta in sé. E' interessante sapere quale musica Händel usasse in una determinata opera nel 1724, e quale in una ripresa del 1726. Alla fine però dobbiamo decidere noi quale versione sia la migliore per il pubblico moderno. Un'edizione critica può aiutarci in questo, ma non risolvere i problemi. Ci vuole un po' di tutto: filologia, storia, musica pratica. L'ideale sarebbe una stretta collaborazione tra musicologi e interpreti, ma ciò avviene raramente, purtroppo.
Roberto De Simone ha affermato che non è possibile fare un'interpretazione «filologica» delle opere barocche perché non sono più disponibili le voci dei castrati...
Conosco bene De Simone; so che anche lui come me ama la musica del Settecento. Sono d'accordo che non sia possibile riproporre qualcosa esattamente come fu in origine. Nella vita però non c'è soltanto il bianco e il nero: anche le zone grigie possono essere interessanti! Dal mio punto di vista è molto importante capire perché nel Settecento scrissero esattamente in quella maniera per i castrati. Noi naturalmente non disponiamo di castrati ma abbiamo bravi cantanti capaci di restituirci questa musica in modo interessante.
Nei decenni scorsi impiegava tanti controtenori nelle Sue esecuzioni. Ha usato persino quattro nella stessa opera...
Si, nell'Erismena di Cavalli: un'opera che ho fatto un po' dappertutto. Il debutto credo che fosse in Olanda con quattro controtenori molto diversi: c'era René Jacobs ma anche John Ferrante, che fece la sua audizione con una rosa in bocca cantando l'Habanera di Carmen! L'hanno preso proprio per il suo senso dell'umorismo. Erismena è piaciuta al pubblico proprio perché era un'opera buffa: o più precisamente una tragi-commedia, molto più commedia che tragedia. Per me era molto interessante finalmente poter mettere in scena un'opera barocca con tutti i diversi ruoli senza dover fare delle trasposizioni per nessuno. Ma adesso, se ci fosse la possibilità di rifare un'opera simile, probabilmente la farei con delle interpreti femminili. Non sono contrario all'idea di usare controtenori. Si presentano in tanti a fare delle audizioni con me, e non tanto tempo fa, nel Giulio Cesare che ho diretto a Monte Carlo, ho usato addirittura tre controtenori! Quasi come in Erismena.
In che cosa consiste la sua «reconstructed performing edition» di Rodrigo?
Il motivo perché nessuno aveva affrontato quella partitura prima di me è che fu pubblicata incompleta, senza inizio e senza fine. Dopo averla letta, però, mi sono molto incuriosito; in seguito ho parlato con lo studioso händeliano Winton Dean che mi ha detto di aver ritrovato il coro finale. Poi, in un'opera tarda di Händel, è stata trovata un'aria che molto probabilmente deriva dal Rodrigo. Così, a poco a poco, cominciavano a ricomparire i pezzi mancanti. Ciò che sembra perso per sempre è l'inizio dell'opera. Allora ho deciso di riscriverlo io seguendo lo stile che Händel adoperava in quegli anni.
Ho anche ricostruito pezzi mancanti per opere di Cavalli e di Monteverdi: nella mia edizione del Ritorno di Ulisse c'è un ballo e dei ritornelli mancanti... E' interessante comporre in stile ma si tratta di un esercizio di utilità limitata se si considera quanta musica bella aspetta di essere riscoperta. Per me ha una sola funzione, la stessa che adotta un restauratore di mobili o quadri: ricostruire qualche cosa di mancante per far vedere quanto sia bello l'originale.
Le parole c'erano già?
Sì, certo! Non avrei mai tentato di ricostruire le parole... Però c'è chi fa anche questo: ho un amico che scrive sonetti nello stile del Cinquencento.
Chi ama Verdi e Puccini pensa talvolta che nella musica barocca non ci siano vere emozioni.
Io al contrario non direi mai che Puccini e Verdi siano privi di emozioni... Recentemente però ho sofferto parecchio quando ho accompagnato un'amica a vedere una rappresentazione di Butterfly. Devo dire che l'ho trovata molto noiosa, e con poca varietà emotiva! Le emozioni in un'opera di Händel sono molto più sottili e raffinate e anche più musicali, direi: c'è dietro ogni nota qualcosa di sorprendente, mentre in Puccini ho trovato poco di nascosto!
Verdi è un altro paio di maniche, ma anche lui ha i suoi momenti noiosi. Mentre persino quelle opere di Händel che erano considerate noiose o almeno non di grande qualità oggi vengono rivalutate. Delle quarantadue opere che ha scritte, pochissime sono noiose. Forse solo tre o quattro. E anche quelle hanno almeno qualche aria che meriti di essere salvata! Ma ci sono almeno trenta opere di Händel che sono di livello altissimo, direi.
Quale sono le opere che considera noiose?
Silla è una delle peggiori, e anche una delle più corte. Pure l'atto che Händel scrisse per Muzio Scevola ha due o tre arie belle, per il resto non è gran che. Comunque preferisco lodare le opere meravigliose che egli compose, piuttosto che parlare delle meno riuscite.
Una delle sue ultime incisioni è quella del Floridante.
E' un'opera che conosco già da molti anni ed è tuttora molto negletta. Non l'ho mai vista in scena. L'avevo portata in tournée nell'America del Nord con il complesso Tafel Musik e dei bravi solisti, circa quindici anni fa. Ebbe grande successo, ma è sempre stata fatta in forma di concerto oppure semi-scenica, mai in teatro con i costumi. Da tempo avevo in animo di ritornare su quest'opera, perché non ero soddisfatto della registrazione parziale già effettuata. Cercavo anche dei ruoli ideali per Joyce DiDonato e per Marijana Mijanovic: due cantanti bravissime che volevo unire in un'opera di Händel, e questa mi sembrava l'ideale...
Com'è l'esperienza di lavorare con Joyce DiDonato?
Oh, molto bello! Una persona squisita. E molto facile dal punto di vista delle relazioni umane, ma musicalmente assai esigente... e ha ragione di esserlo!
Farà altri dischi con il soprano Simone Kermes, che è stata una Sua stretta collaboratrice?
Non lavoriamo più insieme!
Posso chiedere perché?
Sembra che lei non voglia... forse lei direbbe la stessa cosa di me, ma è così!
Quale fu l'atteggiamento di Händel nei confronti dei libretti? C'è una sorta di distacco culturale dovuto al fatto che i libretti erano scritti in italiano mentre Händel lavorava in Inghilterra?
No. La mia impressione è che l'italiano fosse per Händel una seconda lingua, mentre l'inglese era la terza, il francese la quarta, lo spagnolo la quinta! Egli scrisse in tutte queste lingue, ma bisogna ricordare che la cultura nella quale un artista cresce tra i diciotto e i ventidue anni tende a risultare particolarmente formativa. Credo che questo sia vero per tutti. E Händel trascorse quegli anni per la maggior parte in Italia! Scelse di andare in Italia perché amava molto la musica italiana... E lì comprese che quello era il suo genere e che il suo talento naturale di compositore drammatico aveva bisogno di svilupparsi in Italia.
Si possono e si devono tagliare le opere di Händel? Meglio tagliare un intero brano oppure i da capo?
Mah... dipende. Io non sono contrario a nessuna forma di taglio, tranne i tagli fatti male! Non sono d'accordo che per principio il da capo non si tagli mai oppure che il recitativo non si tagli mai. Si taglia quando si deve per forza accorciare. Però, si deve essere molto attenti anche nel recitativo a non interrompere l'armonia, la progressione melodica: non bisogna accorgersi, quando si ascolta, del punto di sutura. Si devono eliminare queste cesure, anche se ciò significhi trasporre, oppure modificare il ritmo o la linea. In un'aria naturalmente non si fanno cambiamenti del genere: o si taglia una ripetizione o si taglia la parte B e il da capo. Io sono contrario ad una pratica diffusa: quella di trasformare un'aria di Händel in un'aria di Bach! Perché Bach spesso scriveva la parte B e il ritornello senza voce: il da capo è solo per gli strumenti. Invece Händel e tutti gli altri compositori teatrali fanno il contrario, semmai: se tagliano, tagliano la parte strumentale nel dacapo, ma non la parte vocale!
Nelle opere serie di Händel c'è una componente ironica?
A volte sì! In Deidamia, molte scene sono piene di ironia... quasi buffe! E' un'idea di oggi quella di separare l'opera seria da l'opera buffa; non devono essere per forza due cose distinte. L'esempio classico è Don Giovanni: è un dramma giocoso dove ci sono scene buffe come il «catalogo» di Leporello e poi ci sono quelle tragiche come la morte di Don Giovanni. Ma rimane nella tradizione di questo genere misto. Ci sono alcune opere serie di Händel che non hanno scene esplicitamente buffe ma contengono sempre una vena di ironia: qualche esagerazione che fa quasi ridere senza però diventare una parodia. E' come la vita stessa: la prendiamo sul serio, ma vediamo delle cose buffe anche nelle situazioni tragiche!
Che cosa pensa delle messe in scena che trasformano l'azione in parodia?
E troppo facile al giorno d'oggi prendersi gioco di una cosa antica. Mi sembra molto noioso, per esempio, pensare che sia un'idea nuova quella di prendere in giro l'aristocrazia. Semmai, ora che sono passati più di due secoli dalla Rivoluzione Francese, possiamo tranquillamente rivalutare il concetto di nobiltà. Personalmente ammiro molto quei personaggi nelle opere serie di Händel che hanno un senso di onore o di dovere portato all'esagerazione. Non sono da prendere in giro.
Un discorso simile vale per Monteverdi. Se Nerone viene presentato come un uomo d'affari e Poppea come una prostituta costosa ma molto volgare, l'opera - e perfino la musica stessa - diventa molto banale. In realtà è impossibile distruggere la musica di Monteverdi, ma perché i registi di oggi insistono nel tentativo di ridurre tutto al livello banale della televisione? Perché non continuano a guardare la televisione, e lascino a noi il teatro?
In che modo lavora con i cantanti sugli abbellimenti e sulle variazioni?
A volte lascio fare ai cantanti e poi dico «Questo sì, questo no! ». L'ideale però è sempre collaborare dall'inizio: aiutare loro nello stile e anche negli abbellimenti. Non ci si può aspettare necessariamente che un interprete vocale conosca lo stile appropriato per ogni epoca. Se nel Settecento i cantanti sapevano variare bene, era perché quello stile era l'unico che conoscevano...
Le piace avere l'ultima parola su simili questioni?
Si, debbo confessare che mi piace! Ma mi prendo anche la responsabilità. E per questo che ho studiato per tutta la vita e che continuo a studiare... Il prossimo anno, per esempio, mi prenderò qualche mese per ristudiare tutte le fonti sul «recitativo», perché trovo che i recitativi siano molto importanti. E in un'opera come quella che abbiamo appena finito di registrare [Motezuma, n.d.r.], ho visto quanto è difficile farli vivere. Ho dovuto per esempio insistere molto con Vito Priante per ottenere un determinato effetto, quasi facendolo arrabbiare! Quando infatti pensava già di aver fatto del suo meglio, l'ho spinto a tentare qualcosa di più azzardato, e sono riuscito ad ottenere quello che volevo... è stato infine bravissimo!
Lei è stato il primo direttore a reintrodurre nell'orchestra uno strumento che era caduto in disuso: l'arciliuto, la cui presenza è oggi considerata normale.
Feci ricostruire il primo arciliuto in America da un liutaio molto bravo per un allestimento dell'Incoronazione di Poppea che realizzammo negli anni sessanta in California. Da allora sono rimasto innamorato di questo strumento. Mi sembrava illogico che improvvisamente nel Seicento questo strumento fosse caduto in disuso, soprattutto nell'accompagnamento dei recitativi. E, infatti, Winton Dean ha ritrovato una lettera di un francese che aveva sentito un'opera händeliana a Londra (non ricordo esattamente quale, probabilmente l'Admeto). Nella lettera riferisce che c'erano ben due arciliuti: cioè un chitarrone ed un arciliuto. Dopo si sono scoperti anche altri documenti che testimoniano la presenza di questo strumento nelle orchestre delle sue opere. Oggi si sa, infatti, che la rappresentazione dell'ultima opera di Händel fu probabilmente l'ultima occasione in cui si suonasse l'arciliuto in teatro a Londra nel Settecento.
Come è nato il Suo ensemble il Complesso Barocco?
In Italia cominciai a lavorare con un gruppo di madrigalisti, strumentisti e cantanti che si chiamavano I Febi Armonici: così si chiamava infatti un gruppo itinerante di musici del Seicento. Ma successivamente un altro ensemble ha utilizzato questo stesso nome e io, invece di fargli causa, ho scelto un nome al quale avevo già pensato quando ero in Olanda: il Complesso Barocco. Mi sembra che questo nome, essendo talmente comune, non possa essere rubato! Per Complesso Barocco intendo qualsiasi gruppo per la musica del Sei/Settecento che diriga io. In questo complesso gli orchestrali naturalmente vanno e vengono. Tanti iniziano con me, poi si dedicano ad un altro repertorio. In Italia c'è sempre un po' il rischio di cadere in una certa routine, e cosi, invece di concentrarsi sulla musica, si perde del tempo discutendo di cose stupide! Per evitare questa tendenza è meglio avere un certo ricambio. Tuttavia certi solisti mi piacciono così tanto che vorrei sempre collaborare con loro. Per fare Monteverdi naturalmente è sufficiente un piccolo complesso, ed è meglio che non siano gli stessi utilizzati per un'opera di Händel.
Parliamo di Motezuma. Messa ad acta tutta la questione su a chi appartenessero i diritti sulla partitura...
Che non è ancora risolta! Vedremo...
Adesso esce la prima incisione: quella di Alan Curtis. Qual'è l'importanza dell'opera?
E' molto importante, secondo me. Non conosco un altro Vivaldi di questa qualità o di questo interesse drammatico. Recentemente ho diretto a Genova Orlando, che musicalmente si può paragonare a Motezuma, anche se ci sono molti numeri deboli nel terzo atto: li ho tagliati. Ma drammaticamente non c'è paragone! Inoltre, c'è un aspetto di particolare attualità: Motezuma è l'unica opera di quell'epoca nella quale si racconta la conversione al cristianesimo di un popolo indigeno da un punto di vista che non segue pedissequamente i dettami del Cattolicesimo. Il librettista Girolamo Giusti si dichiara «Cattolico» nella prefazione e definisce Fernando Cortez come «valorosissimo». Ma nel corso dell'opera lo stesso Cortez viene presentato in una luce ben diversa. La prima reazione di Asprano, Generale dei Messicani, quando lo incontra è: «Che orgoglio!». E Mitrena, moglie di Motezuma, descrive gli eccidi compiuti da Cortez; gli inganni per appropriarsi dell'oro. Insomma, ci sono molte similitudini tra l'invasione del Messico e la recente invasione dell'Iraq. Per me, è molto commovente questa visione di un poeta del Settecento che dice qualcosa di molto ardito per l'epoca, criticando in modo obiettivo l'idea allora diffusa che ogni mezzo è giustificato purché si riesca a convertire un popolo al cattolicesimo. Il che è molto simile all'idea di convertire l'Iraq alla democrazia: non importa se si devasta il paese, l'importante è imporre la cosiddetta «democrazia»! Ma in realtà si capisce che altrettanto importante è il petrolio, così come all'epoca di Cortez la vera motivazione era l'oro.
Non ebbe problemi di censura un'opera così poco allineata?
Non ci sono state riprese al di fuori di Venezia: città nella quale tutto o quasi era permesso... non c'era una forte censura. Non a caso, la città era stata bandita dal Papa all'inizio del Seicento! A Galileo era stato proposto l'asilo a Venezia, ma stupidamente egli scelse Roma dove fu quasi ucciso... dal Papa.
Il cast che ha scelto per l'incisione è ottimo. C'è il rimpianto di non essere riuscito ad avere Cecilia Bartoli?
Ho parlato con il suo agente, il quale mi ha detto che era interessata. Ma poi alla fine ha deciso che non aveva tempo... e in fine dei conti è stata una cosa molto fortunata per noi perché, se la Bartoli avesse inserito Motezuma nella sua agenda, l'incisione sarebbe avvenuta tra due anni, e nel frattempo l'opera sarebbe stata incisa due o tre volte da altri! Pare invece che saremo i primi. E devo dire che l'abbiamo realizzato nel migliore dei modi.
Quali sono i Suoi prossimi progetti discografici?
Ogni anno per cinque anni dovrei incidere sia un'opera di Händel sia qualcos'altro. Per quanto riguarda il repertorio non-händeliano, vorrei concentrarmi su opere inedite: sto pensando in particolare a Vivaldi e a Caldara. Il repertorio händeliano invece è quasi tutto già pubblicato in disco: rimane, infatti, soltanto Giove in Argo, che è un pastiche e che come tutti gli altri pasticci - tranne Oreste, che è stato fatto a Spoleto due anni fa - non è ancora stato pubblicato. Ma Giove in Argo è un pasticcio che contiene cinque o sei arie nuove, cioè sconosciute, oltre ai cori e ai recitativi... e questo sarebbe un bel progetto. Forse è l'ultima composizione importante di Händel che non sia stata ancora registrata.
In tutta la musica che conosce, c'è una melodia che ama più delle altre?
Difficile dirlo. Un'aria che amo molto è «Ombre pallide» in Alcina, e non solo per la melodia!
Va ad ascoltare la... «concorrenza»?
Si, certo! Non per spiarli, ma per essere aperto ad altre interpretazioni e, soprattutto, per scoprire pregi e difetti dei cantanti ai quali sono interessato.
Chi ammira tra i Suoi colleghi «barocchisti»?
Bill Christie, soprattutto per la musica francese. Anche Minkowski, e non solo per la musica francese. E poi, ci sono anche tanti altri che piacciono per la loro particolarità: René Jacobs, che conosco da moltissimi anni. Diressi il suo debutto in scena (nell'Erismena di Cavalli ad Amsterdam). L'ho ascoltato dirigere a Berlino L'opera seria di Gassmann con libretto di Calzabigi, che in realtà è un opera buffa, una parodia di un'opera seria. Divertentissima!
Un'opera o un compositore che non dirigerebbe mai?
Wagner!
Perché?
Lo odio ...
Che cosa pensa della critica musicale?
Fare recensioni deve essere un'arte. Quando Andrew Porter era il critico musicale del «New Yorker» mi sono abbonato a quella rivista soltanto per leggere i suoi articoli! Ogni settimana c'era una recensione di una o più recite o concerti nella quale egli dava informazioni incredibili che non si trovavano in nessuna enciclopedia. Non scriveva subito, la notte stessa, come spesso si fa. La recensione era il frutto di giorni di studio e normalmente usciva una settimana dopo la recita o il concerto. Questa è una vera arte: non sorprende poi che le sue recensioni siano state raccolte in vari volumi.
di Franco Soda ("Musica", n.74, marzo 2006)

4 commenti:

sergio ha detto...

Sono perfettamente d'accordo con Alan Curtis sul fatto che Wagner sia un compositore che von valga la pena di essere diretto. Anche io lo odio.
Sergio

mozart ha detto...

Ma siete impazziti? Wagner, è uno dei più grandi compositori della storia della Musica

Anonimo ha detto...

Deplorevole che uno che si fregia di essere un grande musicista usi l'espressione ODIO per un compositore ... se poi questi è Wagner, che può piacere o meno, chi lo dice manifesta pochezza intellettuale. Peccato!

Unknown ha detto...

Una cosa è indubbia Alan Curtis, che fu un valido clavicembalista ebbe, anche grazie ai sui studi, una grande conoscenza e dimestichezza della musica barocca. A lui si deve l'aver reso "più vicine al grande pubblico" varie opere di Handel altrimenti ben poco rappresentate. Non da meno la riscoperta d'opere "minori" sino a vent'anni fa praticamente sconosciute. La sua prassi esecutiva, pur con le sue peculiarità, si accosta (specie nel senso più filologico) a quella di altri grandi direttori e musicisti ferrati nella musica rinascimentale e soprattutto barocca. Viste le sue origini musicali vedasi ad esempio, tornando ad Handel, i britannici Gardiner e Parrott. Visto il contesto la sua risposta su Wagner...mhaa! Lascia il tempo che trova. Evitabile !? Probabile. Dimostra un dato di fatto: Curtis fu sia musicalmente che culturalmente molto distante dalla grandezza sotto certi aspetti "dirompente" dell'opera wagneriana e del tardo romanticsimo tedesco