Alberico e le figlie del Reno (Arthur Rackham 1867-1939) |
Prologo elementare e divino. Già la terra galleggia, isola verde, sul Ginnungagap, sullo smisurato Abisso, cinta dall'azzurro anello dell'Oceano, e il sole, la luna e le stelle roteano intorno a lei donandole luce e calore, misurando giorni e stagioni, vestendola di erbe tenere; già moltiplicata si è la famiglia degli dèi e sorta dal tremendo diluvio di sangue è la seconda generazione dei giganti e formicola entro gli oscuri profondi recessi la stirpe industre dei nani; ma l'uomo non è ancora nato. Ancora non è nato l'eroe dalla spada lucente, nè la bionda Walkiria lancia stridi selvaggi dallo scalpitante cavallo, nè il superbo Wallhalla accoglie ancora gli dèi. Essi si aggirano per roridi prati, per erte montane, per selve profonde; e le zolle erbose e gli scabri sassi sono ancora letto ed origliere alle loro membra affaticate. Ma nel mondo è già nata la colpa e con essa il dolore: dacchè le opposte correnti - acqua fredda di Hvergelmir, acqua calda di Muspellsheim - insieme incontrandosi e mescendosi, hanno dato la vita al primo essere, al gigante Ymir, ed hanno così rotto, con la prima individualizzazione, la pura innocenza della monade acquea universale. Il gigante con la procreazione agamica di esseri a lui simili ha continuato l'errore, e la mucca Audumla, nata anch'essa dall'incontro delle due correnti, l'ha cresciuto ed aggravato, chiamando alla luce, dalla brina salsa leccata sulla superficie dei sassi, il primo dio Buri, procreatore agamico, alla sua volta, della stirpe degli dèi.
Dèi e giganti, per il fatto stesso che sono nati e vivono, errano e soffrono: dov'è separazione e distacco, dov'è affermazione di volontà individuale che si proietta sulla volontà universale e le si oppone, è anche necessariamente peccato e travaglio. Tale il profondo senso della cosmogonia nordica, che sfuggito - appena pare credibile! - così agli storici e interpreti di quel mito, come ai critici dell'arte e del pensiero wagneriano, doveva prodigiosamente rivelarsi alla divinatrìce inconsapevolezza d'un musico-poeta; e che, togliendo quella cosmogonia dall'isolamento o dalla stretta sudditanza biblica in cui era stata costretta, la collega con alcune fondamentali concezioni del mondo buddistico, la imparenta con le più antiche tradizioni. del pensiero greco (Talete, Anassimandro), e la innesta al medesimo tempo sul tronco vivo del misticismo cristiano.
Colpe, dunque, ed errori sono le azioni che dèi, giganti e nani compiono, mossi da un'inpurità originaria e congenita. Gli dèi, che godono di bellezza e di giovinezza, della luce del giorno e della luce dello spirito, aspirano invano ad una potenza che li liberi dalla alterna, vicenda della diuturna lotta contro i gigariti ed i nani; esseri elementari, insofferenti della vita dura e oscura che sono costretti a condurre. Questi, alla loro volta, cercano - con la violenza e con l'astuzia, a seconda della natura loro peculiare - di rovesciare l'impero dei luminosi; e non riescono. Sugli uni e sugli altri, logorante, spaventevole, indeprecabile, incombe la minaccia del Crepuscolo, dell'annientamento. Tutti gli esseri particolari dovranno infatti espiare con la distruzione l'allontanamento dalla monade primordiale, l'ingiustizia della loro esistenza separata. Mai più amaro, più desolato, più disperato pessimismo risonò in poesia ed in musica sotto le stelle!
La coscienza dell'errore, del peccato, della colpa si proietta, così nella tradizione antica come nel dramma wagneriano, in Loge (Loki). Quanto a torto la critica germanica e nordica altro non vede in lui, che una copia più o meno contraffatta del Lucifero semitico e del demonío cristiano! In realtà Loge, è, come démone, il primo elemento sceveratore e individualizzatore - la scintilla di Muspellsheim che riscalda le acque agenti sulle correnti fredde di Hvergelmir - il fuoco insomma creatore, e, come tale, già implicitamente distruttore (non si crea se non ciò che è destinato a perire, nè altro è la nascita, se non il cominciamento della morte); come dio, accolto tra gli dèi, tra gli Asen, per la fratellanza giurata con Wotan (Odino), é il loro perenne stimolo e il loro tormento, l'esca che li induce, li trascina all'azione, ed al medesimo tempo, il rimorso, il pianto, il dolore, che miseramente trovano nel fondo dell'azione stessa.
Il mondo è nato da ben poco, che già corre, dunque, alla sua perdizione. Eppure c'è ancora un tesoro, una segreta riserva di innocenza, che, se non riesce a fermare quella corsa, sembra tuttavia allontanarne indefinitamente il termìne e disperderne la catastrofe. C'è l'Oro, non ancora tolto dall'elemento primordiale - l'acqua -, e però ancora sereno ed incolpevole splendore di quell'elemento stesso; l'Oro, non ancora pervenuto tra le mani dei mortali - siano essi dèi, o nani, o giganti - e però non ancora suscitatore nel loro petto di una fame esecranda. Esso riposa nel fondo del Reno, lavato dalle sue lucid'onde, cullato dal suo ritmo dolce ed eguale, guardato dalle Nixe, dalle Ondine, la cui vita individuale (tanto vale dire: la cui colpa) appena si profila, così esse vivono immerse e sommerse nell'elemento originario. Finchè l'Oro non sarà toccato da terrena mano sacrilega, lontano e pressochè inarrivabile apparirà il tramonto di tutti gli esseri. Ma la mano sacrilega - quella d'Alberico re dei nani interviene; essa contamina l'Oro della sua stretta impura, lo conquista con lo sforzo di una volontà malvagia, lo rapisce col prorompere di una violenza, che maledice all'amore. Tutto è ormai tolto all'elemento primordiale; tutto da lui separato, segregato. L'amore universale, già spezzato dalla creazione degli esseri singoli, si frantuma ormai in frammenti minutissimì, in infinite «contese». Alla passione si sostituisce ora il calcolo, alla «matta bestialitate», già colpevole, si sostituisce ora la frodolenza, ancora più colpevole, Il furto dell'Oro rappresenta il fiore ed il frutto del primo germe del male; il peccato originale di Adamo ribadito e approfondito dal tradimento venale di Giuda. Se non che qui non è luogo a redenzione per l'intervento di un Salvatore che prenda su dì sè la colpa di tuttì; qui tutti espieranno per tutti e ciascuno per sè, e solo con la consunzione e distruzione di tutti e di ciascuno sarà restaurata la monade. Al principio ed alla fine c'è unità, quiete, innocenza, c'è l'acqua, amore, gioia che si nutre dì silenzío; nel mezzo, c'è molteplicità, mobilità, colpa, c'è urto di singoli esseri, c'è l'odio e il dolore che prorompono e che gridano. Senza questo filo conduttore, la Tetralogia wagneríana rimane, drammaticamente e musicalmente, un labirinto impercorribile, reso più che mai pauroso ed oscuro dall'intrico delle contrastanti interpretazioni.
Nella superba «vigilia» dell'Oro del Reno - così Wagner volle chiamarla e sarebbe bene che ci abituassimo anche noi a chiamarla così - assistiamo, dunque, al tragico irrompere del peccato in piena consapevolezza. Nel, primo quadro, Alberico rapisce l'Oro alle Figlie del Reno maledicendo all'amore; nel secondo, Wotan, fatta costruire dai giganti la regale dimora, si arrende al frodolento consiglio di Loge, che i giganti stoltamente accolgono, di rapire alla sua volta l'Oro ad Alberico, per sostituirlo alla dolce Freia nel pattuito compenso, nel terzo, il dìvísamento è mandato ad effetto, ed Alberico viene derubato dell'Oro, ma anche dell'elmo magico che rende invisibilì e dell'anello, che con quell'oro s'è costruito e cbe dona potenza in tutto il mondo (ma la potenza è figlia della violenza e dell'odio!); nel quarto, tutto il tesoro, compresi elmo ed anello, passa nelle mani avide dei giganti, senza di che essi non renderebbero punto la dea, dispensiera di giovinezza. Wotan, per consiglio di Erda - la terra madre di sagezza - sfugge momentancaniente alla maledizione. che doppiamente pesa sull'anello e che già tristamente germina nel fratricidio di Fafner, e sale con gran trionfo all'eccelsa nuova eggia. Amaro trionfo: che le oscure parole di Erda velano di tristezza, e che il sarcasmo di Loge e il pianto delle Ondine feriscono e cont aminano. Wotan stesso, d'altronde, nel fondo del suo animo non è davvero tranquillo. Egli già pensa con un prodigioso sforzo di volontà di dar vita ad una stirpe di liberi spiriti, di uomini-eroí, che possano meglio degli dèi, non solo difendere contro nani e giganti il Wallhalla, cui daranno il nome, ma anche e sopratutto distrarre da sè stessi e dagli dèi la condanna ineluttabile. Le tre «giornate » che seguiranno - la Walkìria, il Siegfried e il Crepuscolo degli dèi - ci diranno della maravìgliosa potenza, ma anche della miseranda vanità del sogno di Wotan.
Chi potrebbe intanto riconoscere nella nuova figurazione drammatica i due così rudi e grossi e apparentemente così poco sígníficanti episodi contenuti nei Reginsmal e Falnismal eddici e nella Gylfaginning di Snorre? Ancora una volta Wagner ha sentito rabdomanticamente la limpida fonte sotto la dura scorza terrestre, e l'ha chiamata con possente magia ad irrigare ed a rínverdire una landa desolata e petrigna. Comunque, non il tardo ed ormai del tutto cristianizzato poema dei Nibelunghi - che solo e non tutti gli italiani conoscono, ed a cui male a proposito usano richiamarsi non appena s'accingano alla critica della Tetralogia - ma con le narrazioni ed i canti di Norvegia e d'Islanda abbiamo qui a che fare; anzi, ancora più profondo: con le tradizioni wikinghe e prewikinghe e antico-germanìche, che sotto di quelli s'agitano e fermentano oscuramente. Oggi ancora la critica si affanna indagando e combattendo intorno a loro: un colpo d'ala poetica è bastato, or è un settantennio, e disperderne le nebbie ed a farle risplendere, terse come brillanti, sotto il sole.
S'è detto dell'Oro del Reno, che manca di vera e propria azione drammatica. Ed è sostanzialmente vero. Come prologo, come vigilia d'un dramma, esso è soprattutto antefatto, narrazione, epos. I suoi personaggi, se cosi è lecito esprimermi, amano, odiano, agiscono «elementarmente»; l'effusione lirica ed il contrasto degli spiriti verrà poi; verrà quando all'epoca degli dèi succederà vichianamente l'epoca degli eroi e degli uomini. Nell'attesa, l'«elementare», di cui la natura stessa degli dèi è ancora tutta impregnata, domina sovrano. Sono rmaravigliosi sfondi di gioghi alpestri e selvaggi e selvaggi poeticamente portati dalle solitudini del Nord sulle sponde del Reno, di gorghi profondi dove i raggi del sole giungono filtrati in una luce crepuscolare, di ardenti fucine sotterranee, di nembi ruggenti, di arcobaleni scintillanti e roridi a traverso cieli boreali. Colori, anch'essi, elementari e crudi: rosso di fiamma, di rame, d'oro sanguigno, secondo che vuole la tradizione scaldica, e bianco d'argento, e giallo di vapori sulfurei, ed azzurro di ìncantamentì magici; senza sfumature, senza trapassi, così come la vista non incora educata di esseri primitivi può cogliere e ritenere. E passioni in tutti, prorompenti con la rapidità della folgore e col fragore del tuono. Wotan viandante risente ancora della mobilità eraclitea dell'elemento da cui deriva, i giganti, costruttori alla, maniera dei Ciclopi, tengono ancora del monte e del macigno, e tengono i nani, fabbri alla maniera di Efesto, ancora della terra entro le cui viscere vivono e del fuoco che piegano alla loro industria. L'amore luminoso e gioioso in Wotan, torbido e torinentoso in Alberìco, grossolanarnente nostalgico in Fasolt non oltrepassa ancora la sfera del senso. Se in Frìcka riveste le espressioni della gelosia borghesemente coniugale, non è che fugace e per niente felice spunto anacronistico, che l'incorreggibile temperamento di Wagner inserisce, quanto mai male a proposito, in un dramma dallo spirito e dalle forme eschilee.
Pure qualche cosa c'è nel dramma, che romne il cerchio dell'elementarietà: è il nefando baratto che Alberico deliberatamente compie dell'amore con l'oro; è la malafede di Wotan contro quei patti sanciti e incisi nelle rune della sua asta di frassino, di cui dovrebbe farsi assertore e difensore; è, soprattutto, la frodolenza di Loge, spirito che beffardamente, nega come Mefistofele, nemico agli dèi ed ai nemici loro. Ma rompe e trabocca - ormaí ne sappiamo e ne comprendiamo bene il perchè - soltanto per precipitare più a fondo nell'abisso della colpa e per affrettare la corsa degli eventi verso il Crepuscolo.
Elementare il dramma, elementari l'espressione, il verso, la musica. Bandito ogni dolce allettamento di rima romanza ed ogni letterario ossequio alla prosodia ed alla metrica classicheggianti, l'alliterazione, profonda ed originaria parentela di tutte le espressioni verbali, rimane sola aspra e selvaggia norma poetica. Forme rinnovate e deterse da polvere e secolare squallore, radici dissepolte dal profondo e fatte rigermogliare e rinverdire, tesori di voci dialettali avidamente cercati, con piene mani attinti, con prodigalità offerti e donati. La lingua dell'Oro del Reno possiede la luminosità delle aurore boreali, la limpidità delle onde, la lubricità delle alghe e dei muschi, l'opacità squaIlida delle nebbie, il barbaglío della fiamma, il fragore dei metalli martellati. E similmente la musica che, amante tenerissima, accoglie il germe poetico nel suo grembo materno; che, ampia, regale, possente fiumana, mai si lancia in getti lirici, mai si perde in dilettosi meandri, mai si frantuma, giocando, in zampílli. Qui sono le matrici dei motivi che si svolgeranno umanandosi e spiritualizzandosi nel corso dì tutta la Tetralogia: il motivo dell'acqua, puro elemento e innocente monade primordiale, del Walhalla, sogno di potenza e peccato d'orgoglio, dei Giganti fatica enorme oscuramente costruttrice e bruta violenza, dei Nani (Nibelunghi), sottile febbre d'industria e formicolio d'inganni, di Loge, fiamma vivace, saltellante, linguacciuta, e, al medesimo tempo, godimento di spiriti, della Maledizione, squillante fin dalla prima vigilia per monti e per valli, verso l'ancor lontano Crepuscolo, come una tromba apocalittica. E, sotto l'onda iridescente del motivo canoro, un profondo sottilissimo fremere, un musicale silenzio, su su saliente dall'infima lacuna dell'universo, voce sovrasensìbile di tutte le voci che furono, che sono e che saranno. Chi non sappia compiere un prodigioso balzo all'indietro a traverso i millenni della preistoria; chi non sappia piangere col pianto della vite, sussurrare col ruscello e col vento, ardere con l'ardore della fiamma, raggiare coi raggi del sole, perdersi e naufragare con l'oscurità della notte; chi, insomma, non sappia farsi pianta, rupe, fiume, più elementare, più elementare ancora, imperscrutabile, vaneggiante abisso, non s'accosti all'Oro del Reno. Ne rimarrebbe travolto, oppresso, perduto, annientato; come il navigante che osasse avventurarsi su «piccioletta barca» tra le furie paurose e i gorghi profondi dell'oceano; come il viandante che senza cuore saldo e puro osasse attentare alla nivea verginità delle vette dardeggianti sotto il sole.
Guido Manacorda, aprile 1923 (testo riveduto da Giulio Cogni)
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