Con una battuta si schermiva dal suo mito: «cigno di Pesaro», dicevano, e lui, pesarese di padre lughese, correggeva con «cinghiale di Lugo». Ma tante battute, tanti episodi, tanti aneddoti non fanno che annebbiare l'immagine di Gioacchino Rossini. Chi davvero fosse Rossini non lo dicono nemmeno le sue numerose lettere, spesso piuttosto banali o di gran circostanza. Quando un giovane compositore gli scrisse annunciandogli di star lavorando a un altro Barbiere di Siviglia, rispose gentilissimo, ringraziò della stima accordata, parlò addirittura di «nuove fogge» musicali. Cui non poteva certo credere molto, se tanto, altrove, lamentava oblii e decadenze, e il famoso «Va, pensiero» di Verdi più che un coro doveva sembrargli una grande aria per molte voci. Ma quando gli si chiese memoria e notizia di Elisabetta, regina d'Inghilterra, rispose che dopo vent'anni un'opera come quella doveva stare a riposo, e che al pubblico bisognava dare del nuovo. Dunque, chissà che le lettere più sincere, più spontanee di Rossini non siano quelle in cui discetta di mortadella e gorgonzola. Non era un intellettuale, infatti, il pesarese del 1792, e la penna preferiva usarla più per scriver note che parole. E siccome di note per il teatro ne scrisse solo per la prima metà della sua lunga vita, ecco una quarantina d'anni di inattività che si trovò a congiurare con la grandezza di un mito già assicurato, ed ecco un personaggio talmente zeppo di particolari che l'immagine d'assieme non riesce a montarsi, continua a sfuggire, e in definitiva sembra rimandare all'assolutezza della musica.
Rossini studiò a Bologna, cominciò a comporre giovanissimo e diede la sua prima opera, una farsa, a 18 anni, in quel di Venezia. A vent'anni, conquistava Milano e la Lombardia, e l'anno dopo metteva in ginocchio Venezia e poi l'Italia raccontando la folle vicenda di una bella italiana capitata in Algeri e la storia patetica di un cavaliere di nome Tancredi. Due anni dopo, mentre il congresso di Vienna esultava ballando il valzer, firmò un bel contratto con Barbaja, l'impresario semianalfabeta dei teatri di Napoli che era più lungimirante di qualunque gentiluomo, e per sette anni stette a Napoli, dandovi parecchie opere serie. Intanto aveva il frequente permesso di lavorare per altre città, cui affibbiava invece le opere comiche. Ma la Semiramide veneziana del '23 fu il congedo dall'Italia. Passò da Vienna e disse d'avervi incontrato Beethoven. Fu a Londra, e disse di vergognarsi, quasi, dei compensi guadagnati a dar qualche lezione. E si fermò a Parigi, a bearsi della grigia tranquillità permessa da Carlo X, ma senza più scrivere tre o quattro opere l'anno. Qualche rifacimento di opere precedenti, qualcosa di nuovo, un grandioso Guillaume Tell e poi il silenzio. A 37 anni, Rossini non lo sapeva ancora, ma col teatro aveva chiuso. Visse a Bologna, vivace consulente del Liceo Musicale, e dalla sua seconda patria fuggì quando si ritenne offeso dai rivoluzionari del Quarantotto. Stette a Firenze, in preda a una malattia nervosa che gli impediva anche di vestirsi da solo, e recuperò la salute e la bonomia a Parigi, visitato e omaggiato e importunato da musicisti e curiosi, letterati e sfaccendati, pianisti e aspiranti tenori o soprani. Quando morì, nel '68, era rappresentato in tutto il mondo raggiunto dal melodramma, era ritenuto degno della stampa degli spartiti omnia, era il maggior musicista italiano. Lo disse il ministro Broglio, ahilui, e un Verdi oramai cinquantacinquenne se la legò saldamente al dito.
da "Storia dell'opera lirica" di Piero Mioli (Newton, 1994)
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