Spettacolo preventivo e gratuito la vista di campo dei SS. Giovanni e Paolo, all'imbrunire. Già in abito scuro da concerto una parte degli esecutori, soprattutto coristi, in maniche di camicia addentando panini messi a piramidi sui tavolini di un bar o neghittosamente passeggiando inseguendo l'ultimo sole in attesa di sistemarsi per l'esecuzione. Un'aria estiva, da festa e appuntamento particolare che non poteva lasciare indifferenti.
Il festeggiato era Mahler, con la sua Sinfonia più monumentale e popolare, quell'Ottava, «dei Mille» che mette in pista un numero spaventevole di interpreti, e non li pretende per puro gusto estremistico.
Un po' di gesto di sfida c'è comunque. E la Fenice ha raccolto immediatamente il guanto assemblando un esercito di esecutori (circa seicento) in una delle basiliche cittadine più emozionanti: due orchestre e sei cori affidati a Eliahu Inbal, direttore mahleriano di casa. Il miracolo s'è ripetuto, davanti al pubblico entusiasta che ha preso d'assalto le due serate.
Personalmente dell'Ottava amiamo il senso riassuntivo. La verità mahleriana è più rilevabile allo stato puro (quello delle Sinfonie Settima, Nona e Decima), ma in questa dispersiva Ottava sentiamo lo sforzo immane del musicista, del poeta, dell'utopico ideologo e le conquiste del musicista moderno: tutto assieme, crogiolato in una costruzione che toglie il fiato e conquista, anche al primo ascolto, perché generosa e problematica, decorativa e inquieta, teatrale e filosofica.
L'affrescatura corale e vocale, che rappresenta quanto di tradizionale esiste nella concezione religiosa di Mahler, va al di là di ogni immaginazione anche squisitamente fonica. Ma la decorazione così esposta non è che un aspetto del medesimo problema: l'altra faccia della religiosità mahleriana è prettamente ideologica e intima. Da una parte una componente per così dire affermativa - esattamente sintonizzata sulla monumentalità degli episodi corali - che però esaurisce se stessa nel gesto dei proporsi talmente levigata e perfetta architettura; quindi mette in seria discussione la presunta ortodossia religiosa di Mahler. Sul versante opposto la componente cinicamente critica che segue il cammino della sperimentazione linguistica (esemplare di questa tensione ideologica lo struggente comporsi timbrico dell'episodio strumentale che avvia la seconda parte) e quello della metafora letteraria - la scelta della scena finale del Faust di Goethe non suona provocatoria, laica e poeticissima intrusione che turba le certezze escatologiche, date per scontate prima? - ponendoci violentemente di fronte a una problematicità tuttaltro che circoscritta a pura esperienza individuale, carica di significati e dubbi.
Su questa prospettiva s'è mosso spregiudicatamente Inbal, firmando un'esecuzione esemplare e un'interpretazione di rara bellezza e intensità. Il direttore non ha temprato il bagliore degli episodi corali (va detto che il livello di amalgama dei cori di Amburgo, Monaco, Colonia, Stoccarda e Venezia, appariva superiore a ogni aspettativa) traendone massima espansione, giostrando la drammaticità delle situazioni musicali con spavalda sicurezza. Ma non ha smarrito il senso inquieto, e disperato malgrado tutte le apparenze, che innerva nel profondo la Sinfonia: ricercando nitori strumentali preziosi (con l'orchestra della Fenice era quella di Radio Francoforte) ed esaltando le infinite melanconie, le sfumature crepuscolari che pure intridono più pagine di partitura e gettano suggestioni poi sviluppate nella Nona. Il tutto tenuto in piena chiarezza da una calcolatissima trama di rapporti agogici e di smerigliature dinamiche; la nota professionalità di Inbal ha ottenuto risultati esecutivi notevoli, l'originale e asciutto approccio mahleriano ci sembra abbia trovato proprio in questa partitura discontinua e affascinante la massima espressione di maturità artistica. E, per la Fenice, una scommessa in più vinta.
di Angelo Foletto (Musica Viva, Anno VII n.9, settembre 1983)
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