Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

mercoledì, giugno 21, 2006

50° Maggio Musicale Fiorentino

CONTRO LA PIGRIZIA CULTURALE
Emozioni e ricordi, testimonianze e motivi di riflessione alla cinquantesima edizione della rassegna fiorentina.

Fu al Maggio Musicale Fiorentino la mia prima trasferta da critico musicale. Eravamo nel 1969, c'era Il ratto dal serraglio, il palcoscenico e la cavea dell'orchestra al Teatro della Pergola erano tutti foderati d'argento. Non sapevo la trama, e si cantava e recitava in tedesco; mi ritrovai vicino ad un'amica milanese, la feci complice: se c'è abbastanza chiaro, io tengo d'occhio il libretto, tu dammi un colpettino sul gomito ogni volta che c'è qualche cosa in scena che deve assolutamente essere guardata. Lo spettacolo era pieno di luce, ma dopo pochi minuti avevo già accusato quattordici colpi normali e sette urtoni al gomito. Rinunciai a sbirciare nel libretto, capii tutto lo stesso, inneggiai alla fine a Strehler, a Damiani, anche un po' a Zubin Mehta. Dietro le quinte, qualcuno gridò a Strehler che era un genio. "Lè lü, il genio", rispose vagamente indicando il piano superiore, e capii che alludeva a Mozart. Ero un po' come Snoopy quando si sente il Barone Rosso: "Ecco il famoso critico che corre a telefonare al suo glorioso quotidiano la cronaca d'una grande serata". Dovevo scegliere un luogo adatto, andai al Bar delle Giubbe Rosse. Mi sentii nella storia di Firenze. Chiamai Il Giorno, chiesi del mio caposervizio, Franco Belli. "Dovrei scrivere domani, ma qui ci son state trentacinque chiamate. E' uno spettacolo storico". "Se è storico", osservò Belli placido, "sarà buono anche domani". Ogni tanto nei teatri, fino ai nostri giorni, torno a incontrare Il ratto, a recensirlo; e penso sempre a quella Primavera.
Ognuno ha i suoi Maggi, i ricordi di qualcosa di straordinario; ed il profumo della sera fiorentina e il tremolio alto dei grilli. La memoria naturalmente bara: i grilli sono coperti dal baccano dei turisti vocianti e degli indigeni motorizzati; l'odore dei tubi di scappamento non è quello che faceva cantare le stornellate. Ma qualcosa di indefinito e necessario si mescola, nelle serate riuscite, alla musica, al teatro. Non è un festival che si svolge a Firenze, è un festival che cerca di catturare qualcosa del vernacolo e dell'internazionale confusione che è Firenze. Come Puccini, l'artigiano toscano, che parlava in un'opera di Signa e di Fucecchio, e respirava in anticipo la musica dell'Europa più avanzata, nascosta nel suo gioco degli effetti teatrali e delle spontanee melodie, Firenze è fascinosa, immediata, quasi irritante ed imprevedibile. Il Maggio Musicale, nella sua storia, la rispecchia proprio perché è a sua volta disordinato, geniale, cittadinesco, universale, balordo, luminoso, profetico. Cinquantaquattro anni e cinquanta edizioni non ci danno tracce d'una vicenda precisa, d'una fisionomia riconoscibile; non ci danno soprattutto ricette per gli anni futuri. Che cos'è il Maggio Musicale Fiorentino? Perché è importante? Qual è la ragione per cui, senza avere motivazioni specifiche, viene considerato un bene irrinunciabile, una tradizione da portare avanti con gloria?

Cerco nella memoria e nella storia dei Maggi se mi riesca di trovare una cifra, una tinta, una tensione. Fu tradizionalista e avvenirista, affollato e desertico, fieristico ed autarchico, consacratore di valori e propizio ai giovani talenti. Fece litigare con furia e con brio, in una città dove la battuta che altrove chiuderebbe una disputa è considerata un inizio di discussione. Ebbe il coraggio di presentare agli inglesi ed agli americani alla caccia di scontate sensazioni italiche invenzioni e problemi arditi; a volte travolgendo gli uditori, a volte neanche un po'; qualche altra volta fu assai più corrivo ed anche in questi casi piacque o no. Cerco all'interno temi ricorrenti, idee guida, stili. Non è facile diagnosticarli.
Lo aveva detto, in occasione della quarantatreesima edizione, Massimo Bogianckino, non ancora sindaco di Firenze, ma sovrintendente del Teatro Comunale: "Il Maggio, insomma, è una stagione intensa ed inquieta, dove raro è lo spazio per le abitudini mentali, per la celebrazione ed il rito"; e si augurava: "spero che ogni avvenimento di esso non ci lasci uguali: che la modernità possa sorprenderci e catturarci, o perfino irritarci, e che sia possibile vedere in una luce nuove cose che crediamo di conoscere compiutamente perché sono mutevoli, com'è appunto di ogni cosa viva".

Eppure, mano a mano che i ricordi e i documenti si accumulano, un'impressione sul passato, un'indicazione sul futuro, viene come un sottofondo ai pensieri, o come un'emozione sottopelle. In qualche modo si potrebbe definire il senso dell'orgoglio del far nascere, per dirla in modo aguzzamente intellettuale; ed è anche però come una sorta di dolcezza primaverile, che invita allo schiudersi naturale delle cose. Firenze sa d'avere creato, non per nulla chi viaggia e cerca l'Italia del mito pensa come città a Firenze (anche un sondaggio dell'Espresso, per quel che può valere, nel marzo scorso confermava il dato): l'Italia del Rinascimento, di Dante, del programma stipulato ed estenuante di meraviglie di secoli da visitare. Chi scende alla stazione e va verso il Teatro Comunale (ahi, questo, non meraviglia fra le altre; se mai meraviglia moderna la stazione, di Michelucci) incontra, tra muri antichi, via Rucellai, via degi Orti Oricellari, e gli vien quasi da fiutar nell'aria se senta ancora un'eco di quel clima che respiravano studiosi e letterati e artisti, nel Rinascimento, proprio negli Orti Oricellari, auspice Bernardo Rucellai nei suoi giardini, rivisitaron la parola antica, ritrovando la classicità greca e consegnando alla Camerata de' Bardi l'ideale da cui sarebbe sorto autonomo il melodramma. Proprio in via Rucellai abitava Riccardo Muti, negli anni della sua direzione fiorentina; e pareva, la storia, di passato e presente, tutta a un passo. Non per nulla, quando diresse Orfeo ed Euridice di Gluck, che era il popolare manifesto dell'opera riformata del Settecento, Ronconi e Pizzi non guardarono al contenuto drammaturgico legato all'epoca fra Arcadia e Illuminismo, ma traguardaron oltre, cercando l'immagine preziosa e antica della musica invocata, della cetra che si ricompone, in un teatro quasi in attesa di compiersi: e fu un successo trionfale, la gente si sentì toccata personalmente. Il tema della nascita, che già diede la vita ad Euridice due volte nella Camerata de' Bardi, tema della vita strappata alla morte e ritrovata nuova (e per la Camerata de' Bardi nel libretto di Rinuccini musicato prima da Peri e da Caccini) poi non più perduta, percorre molto spesso le stagioni del Maggio Musicale, con il simbolo di Orfeo. La fantasia conserva e ingigantisce le stanze multiple, i portali, le scalette,
le figure carezzate dalla luce delle scene di Pasquale Grossi per Euridice di Caccini del 1980, inventare l'antico; ma conserva anche i più cauti tentativi per riproporlo lontano, le colonne e i trofei d'un Orfeo ed Euridice di Haydn, settecentesco, nel 1951, per la regia di Guido Salvini; la figuratività d'avanguardia storica con cui fu, nel 1966, riproposta da Gianfranco de Bosio Orfeide di Gian Francesco Malipiero, o le presenze scarne e solitarie in coni di luce che Aurelio Miloss coreografo inventò per Orpheus di Stravinsky nel 1974, memore da lontano d'un Orfeo alla Pergola del giovane Béjart, presentato nel 1960, l'anno stesso in cui Zeffirelli ai Giardini di Boboli apparecchiò la festa rinascimentale per Euridice di Peri. E suoni d'un Orfeo di Monteverdi ripensato, rivissuto, rigiocato in un perenne suo rinascere, dal gruppo di compositori guidati da Luciano Berio, tre anni fa, con la Firenze di epoche sovrapposte e incantenate e presenti dello spettacolo di Pizzi, e le figure che prendevano vita in mezzo alla gente, nel cortile con statua di Dante ricostruita e messa lì a sorpresa... Il nascere, il rinascere. Il teatro che s'aprì ferito ed orgoglioso, ancora intriso dall'alluvione nel novembre 1966, atto di forza morale spregiudicata voluto da Remigio Paone, ha sempre avuto la sua luminosa energia, in congiura con il pubblico compatto, nei momenti difficili. Anche quando chi dimentica il soffio di vittoria che animò, nel Maggio con il commissario (ma commissario era il provvido e coinvolto Polifroni), le recite di Agnese di Hohenstaufen, che resero Spontini popolare, direttore Riccardo Muti, protagonista Leyla Gencer, regista Franco Enriquez, e la gabbia area spericolata e misteriosa dell'impianto scenico di Corrado Cagli?

Nascere, per Firenze, come vivere, significa prendere subito parte all'avventura delle immagini. Città culla dell'arte, dicono i dépliants, dice la storia, dicono chiese e gallerie e conventi. E il Maggio nacque con le scene affidate a Sironi, a Casorati, a De Chirico, Savinio fu poi fra coloro ch'ebbero la ventura di fare rinascere il Rossini serio, con Armida, e sotto l'occhio vigile ed il suggerimento di Francesco Siciliani con il Macbeth di GrÜndgens s'aprì infine la nuova legge della figuratività, tutta schiusa sulla musica, funzionale all'azione; ed anche quando erano Cagli in Perséphone, Maccari nel Naso o Manzù in Ifigenia in Tauride, ormai la grande classe figurativa aveva comunque il sapore inteso e l'indifesa vertigine del teatro. Anche di questa prospettiva la cultura e la memoria prendono coscienza, anzi si sperdono quasi nell'intrico delle innumerevoli proposte: non esistono festival dove la vita dell'immagine scenica abbia avuto così ricca e mutevole vicenda.
Gli scenografi di professione, tutti i più grandi, hanno gareggiato in fantasia con chi, dei grandi pittori e scultori, si cimentava straordinariamente; hanno fissato insieme ai registi le frontiere del linguaggio.

Poi c'è il pubblico. Estremista, non tanto nel giudizio; nell'adesione o no al programma, o alla gente che lo propone.
Ci sono anni in cui senti che la musica del Maggio è il respiro della gente, e neanche i portieri d'albergo più accorti riescono a catturare più un biglietto d'emergenza; ci sono gli anni in cui anche avvenimenti ragguardevoli non trovano piena adesione, e conti molti posti vuoti. Accanto al senso del creare e del creare bello, la gente di Firenze, esempio trascinante per i forestieri, vuole il creare insieme, vuole cioè sentirsi umanamente interpretata. Per quali vie, forse anche questo è da inventare. Ma si sa che nemmeno ritornassero come un tempo o come appena fuori dalla città, non basterebbero i grilli ed i profumi e gli stornelli, per fare un altro glorioso mezzo secolo di storia.

Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XI n.5, maggio 1987)

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