"Peccato, è un vero peccato", dice Irvine Arditti quando capisce che, per ragioni squisitamente linguistiche, il personaggio intervistato del Quartetto Arditti non sarà lui, ma il violoncellista Rohan De Saram che parla un italiano fluente. In realtà lo spiritato Irvine, che mi perdona dell'affronto a fatica soltanto quando scopre che fumiamo lo stesso tipo di sigari, non può sapere che, in onore dell'originale configurazione moderna del complesso da lui fondato nel 1974, e di cui è rimasto con il violista Levine Andrade il simbolo (rispetto alla formazione originale, nata tra compagni di corso alla Royal Academy of Music di Londra, ci sono stati due avvicendamenti nel 1977 s'è aggiunto De Saram e, tre anni fa, il secondo violino David Albermann), l'intervista si configura come una sorta di dialogo multimediale, a distanza.
Con lui aveva già parlato, a Hong Kong qualche mese fa, la nostra collaboratrice Luciana Galliano che aveva incontrato il Quartetto Arditti al locale Festival di Musica Contemporanea. Con De Saram abbiamo invece completato il quadro a Torino, in settembre, tra la prova e l'esecuzione della seconda tranche dell'integrale dei Quartetti di Carter (nonostante i problemi tecnici che stavano mettendo a repentaglio il Quartetto n.3, non abbiamo avuto problemi a chiacchierare: siamo grati alla disponibilità e alla simpatia dei quattro che sanno usare humor e professionismo per sdrammatizzare anche questioni tutt'altro che rassicuranti).
Quindi il nostro profilo risulta completo e duplice. Ma tenendo come indicazione di comportamento giornalistico una dichiarazione di Irvine - "la mia opinione è quella di quattro, e in un quartetto, cioè in questo quartetto, sono davvero voci uguali. Qualche volta hanno bisogno di essere messe assieme (in quel caso tocca a me farlo), e i gusti musicali singoli possono non coincidere, ma per quel che riguarda l'attività quartettistica agiamo come una sola persona. E' la nostra forza" - abbiamo scelto di non personalizzare le risposte dell'uno e dell'altro. In effetti, per altri versi, Irvine che malgrado il cognome non ha parentele con la madre di Elias Canetti - ha tutte le ragioni per offendersi un pochino. Il Quartetto Arditti "è" lui. E non soltanto in quanto porta il suo cognome. La passionaccia contagiosa per la musica contemporanea, la dedizione quasi maniacale allo studio e alla scoperta (o la commissione) di nuovi lavori per quartetto d'archi è quasi tutta farina del suo sacco. L'avventura di un quartetto una formazione "antica", quindi abbastanza rigida nelle possibilità esecutive, e non aggrappata a un'istituzione pubblica come l'Ensemble InterContemporain o emanazioni strumentali del genere - impostato per la missionaria esclusività alle composizioni d'oggi, e quindi mai pago del piccolo repertorio, insistente procacciatore di partiture inedite o appositamente scritte, poteva sembrare quindici anni fa senza futuro. Una semplice bizzarria. La trovata d'un tifoso a oltranza della musica moderna, con tendenze masochiste. Forse solo un modo per farsi largo nell'ambito del camerismo interpretativo evitando i confronti con i complessi «classici» oramai storici.
In molti devono averlo pensato. E per molte stagioni l'Arditti era il quartetto-kamikaze delle rassegne elitarie, dei più ristretti e poco frequentati festival di musica contemporanea. Gradatamente la bravura assoluta, la disciplina strumentale abbagliante e la carica interpretativa persuasiva (anche quando si è davanti a una musica mai ascoltata, certe qualità si avvertono) hanno riscattato qualsiasi prevenzione. Una prima assoluta o una programma tutto-Dopoguerra degli Arditti è diventato un classico irrinunciabile anche per le società concertistiche d'impostazione non spregiudicata. La scommessa di Irvine è una nostra grande realtà musicale: insostituibile per la vita musicale, come su altri fronti la Filarmonica di Vienna, i Solisti Veneti o la London Sinfonietta. Oggi non possiamo che ringraziare il Quartetto Arditti. Il contributo alla conoscenza e all'arricchimento del repertorio nuovo dato in quindici anni di attività non ha confronti. La storia della musica contemporanea deve a questo straordinario complesso londinese tutta una sezione di se stessa. Bussotti, Boulez, Carter, Dillon, Ferneyhough, Harvey, Henze, Kagel, Kelemann, Ligeti, Lutoslawski, Nono (Fragmente Stille l'hanno suonato alla Scala qualche settimana fa), Gubaidulina, Penderecki, Scelsi, Rihm, Xenakis, oltre a tutti i musicisti che stanno scrivendo per loro ... : la storia del quartetto d'archi è debitrice agli Arditti d'un'imprevedibile stagione creativa e ora, con un'attività discografica meno casuale, un buon numero di questi pezzi verranno anche registrati - proprio in tempi teoricamente sfavorevoli alla sopravvivenza di organici e modi esecutivi legati alla stagione del classicismo.
Vista la specializzazione dei quattro cavalieri inglesi, l'intervista al Quartetto Arditti si fa soprattutto sguardo penetrante alla situazione della musica contemporanea degli Anni Ottanta. Al repertorio e ai problemi esecutivi legati alle nuove musiche. Per cominciare vediamo come funziona l'attività d'un complesso che in pratica cambia repertorio concerto per concerto. Ad esempio i quartetti di Carter insieme non li eseguivano da un paio d'anni (da quando li hanno registrati per la Etcetera): il bellissimo Quartetto n.2 da sei-sette mesi. E quanto studio occorre per suonarlo in pubblico?
Quello che ha sentito di prova questa mattina. Mi sembra venga abbastanza bene, che ne dice?
Col nostro repertorio non c'è proprio il tempo di provare di più; ma a differenza
da un quartetto classico che magari per certi pezzi non ha nemmeno più bisogno di provare, noi dobbiamo farlo prima di ogni concerto.
Proviamo a quantificare questo repertorio ?
Più di trecentocinquanta partiture...
Di cui moderne?
Il novantacinque per cento sono contemporanee. In buona parte le abbiamo chieste agli autori, altre sono entrate in repertorio per curiosità o per rispettare impegni festivalieri (come quando eseguiamo pezzi scelti da giurie di concorsi). Il resto è dedicato al Novecento storico: Janacek, Ravel, Zemlinsky, Schoenberg, quattro di Bartok.
Solo quattro?
Il secondo e il quinto non li abbiamo mai eseguiti in pubblico, non sono ancora pronti...
Non avete trovato il tempo per studiarli...
... forse. Al di fuori di questi, soltanto la Grande Fuga di Beethoven.
Soltanto... ?
Beh, sì, in effetti il nostro repertorio è più vasto di quanto potrebbe sembrare: ci sono gruppi che suonano soltanto alcuni lavori del Settecento...
Anche voi avete qualche Haydn, se non sbaglio.
Una sola volta, ma non siamo molto soddisfatti quando suoniamo il repertorio classico
Esiste una ragione per questa singolare considerazione?
Alla base c'è un interesse personale per la musica contemporanea che attraverso Irvine - che ha una formazione da compositore, che a quindici anni era già a Darmstadt nelle stagioni d'oro - ha contagiato tutti. Certo, da quando il Quartetto Arditti ha iniziato a suonare (l'occasione fu nel 1974, quando Penderecki venne a Londra per ritirare un Premio e lo si voleva festeggiare con un programma di musiche sue: il gruppo nacque così), l'interesse per la musica contemporanea è stato esclusivo.
L'anno scorso ci hanno invitato al Festival di Salisburgo; ci chiedevano un programma suddiviso tra Mozart e i moderni. Abbiamo declinato l'invito. Ci sono molti Quartetti che nel classico riescono meglio di noi: perché dovremmo rinunciare alla nostra immagine più autentica? Poi non va dimenticato che il nostro modo di studiare la musica nuova è diverso da quello che occorre per Mozart... .
Vediamo da vicino questo problema. Come ci si avvicina a una partitura nuova?
Intanto c'è un lavoro preventivo, quello di decifrazione della musica, di immedesimazione nello stile dell'autore: e sono tutti diversi, spesso ogni partitura anche se dello stesso compositore rappresenta un problema diverso di lettura delle note. La prima fase è collettiva, con la partitura: e non è sempre facile «sentire» alla semplice lettura il pezzo, capire quali sono i punti di riferimento costruttivi e isolare gli episodi tecnicamente ostici. Per tentare una visione d'assieme, è necessario impadronirsi di ogni dettaglio prima ancora di mettere mano allo strumento.
Dopo di che inizia la fase del montaggio vero e proprio: separatamente o insieme?
A differenza dei classici che si possono lavorare singolarmente, con le nuove musiche bisogna entrare subito nella fase a quattro. Ci sono parti che devono essere risolte da soli, ma di solito la linea musicale non esce finché non suoniamo tutti e quattro.
Una percentuale enorme spetta alle composizioni scritte appositamente per voi. In questo caso, quale rapporto si instaura con l'autore?
C'è chi parla con noi prima ancora di iniziare il pezzo. Xenakis, ad esempio ha costruito il suo Quartetto n.2 con molti «soli» dopo che avevamo discusso a lungo su quello precedente che ci pareva troppo denso. Altre volte ha seguito delle indicazioni più tecniche...
Al di là di queste imbeccate tecniche, in molti casi anche lo studio della partitura avviene col compositore. Cosa succede in questa fase?
Ci sono musicisti che lasciano il campo libero agli esecutori, altri seguono da vicino ogni dettaglio nel momento della preparazione. Carter è uno di questi, ma la sua musica è talmente precisata e tecnicamente giusta che è sufficiente fare quello che è scritto per ottenere il risultato migliore. Come accade con Ligeti, che realizza lavori perfettamente fissati sulla carta, ma che sa anche intervenire nella fase preliminare con assoluta competenza strumentale, come un concertatore di fascinosa esperienza. Altri invece scrivono abbastanza astrattamente, e lasciano agli esecutori carta bianca.
E capita che la collaborazione porti l'autore a modifiche del suo lavoro?
Non spesso, ma succede. In questi giorni stiamo imbastendo un nuovo pezzo di Lachenmann: abbiamo già fatto alcune sedute insieme, ma nei prossimi giorni dovremo riprendere in mano una buona parte del lavoro perché Lachenmann è intervenuto in molte parti della stesura originale. Non sappiamo nemmeno come e dove: lo vedremo da domani.
Le cose filano sempre lisce con questi autori?
Generalmente si. A volte capita che il compositore non apprezzi le scelte interpretative e si senta tradito. Ogni compositore, per se stesso, è il più importante; cerchiamo di non dimenticarlo quando suoniamo.
Ma può accadere di approdare a un'idea opposta dalla sua?
Penetrare lo stile personale significa essere a tre quarti della buona interpretazione: ciò avviene attraverso lo studio ma anche nel rapporto musicale e personale. Nel nostro caso abbiamo un vantaggio in più, l'esperienza, che ci permette di evitare gli errori d'un quartetto normale che cerca un accostamento «classico» anche alle partiture moderne e quindi equivoca su questioni che riguardano la produzione del suono, l'uso dell'arco e del vibrato, la diversa concezione della tecnica strumentale.
Non affermiamo di essere un modello, ma siamo convinti - e il pubblico spesso ce lo conferma - di poter suonare certe musiche in modo completamente diverso da altri quartetti. E con una misura esecutiva di avvicinamento alle intenzioni dell'autore che fa parte della nostra fisionomia musicale.
Anche perché suonare certi pezzi si configura più simile all'analisi che all'esecuzione in senso tradizionale.
Come s'è detto prima, molte opere non possono nemmeno essere suonate se non c'è un grosso lavoro teorico alle spalle. E' necessario capire la musica prima di suonarla e, semmai, di interpretarla... E non dimentichiamo che suonare è molto diverso che ascoltare, nel senso che nel momento in cui siamo impegnati con lo strumento ci si lascia coinvolgere maggiormente dalla musicalità, dalle tecniche del suono.
Ascoltato e basta, un pezzo può piacere o no. Suonato è un'esperienza musicale e strumentale completa, che giustifica spesso scelte non convincenti per il pubblico.
E l'esecutore diventa co-autore a tutti gli effetti.
Certo, non c'è nulla di scontato, vanno creati i punti di riferimento volta per volta. Il lavoro non è mai ripetitivo: il fascino di operare su musica nuova consiste anche in questo. Ci capita molte volte di partecipare profondamente alla «prima volta» d'una partitura.
Ma quanto spesso si arriva alla «seconda volta»?
E' sempre la più difficile. Tra le nostre trecentocinquanta opere le «seconde volte» sono in effetti poche, anche se negli ultimi tempi ci siamo imposti di creare un piccolo repertorio tra i pezzi nuovi. Si tratta anche d'una questione di sopravvivenza: non è possibile continuare a suonare ogni sera tre-quattro pezzi nuovi come quando abbiamo iniziato.
Con che criterio create questo «repertorio»? Quali sono gli autori che preferite?
Non c'è un criterio preciso né vogliamo dire che un compositore ci interessa più di altri (qualche altro potrebbe pensare che la sua musica non la suoniamo volentieri, o col medesimo impegno... ). Lo stesso vale per il termine «qualità» che ha una valenza diversa a seconda di chi lo usa. Se siamo convinti che una certa musica sia spazzatura non la suoniamo; se un certo stile non ci convince ma un brano in quello stile ci pare interessante, lo mettiamo di certo in cantiere (anche per non creare altri ghetti nel ghetto della musica contemporanea).
In genere, se prepariamo una novità d'un autore italiano, vorremmo magari che quella stessa musica potesse essere ascoltata lungo tutto la tournée italiana oppure che servisse da base per scambi-travasi europei: suonare giovani autori scandinavi o tedeschi in nazioni differenti da quelle d'origine, far conoscere musiche conosciute soltanto localmente in altri paesi fa parte integrante dei nostro lavoro di ampliamento culturale.
Facciamo allora un'ipotesi: un programma ideale - teoricamente, per illustrare i linguaggi quartettistici più significativi del secolo - quale potrebbe essere?
Quando siamo stati per la prima volta negli Stati Uniti, visto che non c'era un pubblico abituato al nostro repertorio di novità, abbiamo dovuto fare una scelta del genere; cercando di abbinare lavori eloquenti tecnicamente con altri che potessero (sulla base delle nostre precedenti esperienze) interessare immediatamente gli ascoltatori. Si combinavano dunque programmi che avevano come base «storica» i due Quartetti (soprattutto il secondo) di Ligeti, Tetras di Xenakis, il Quartetto n.2 di Ferneyhough: naturalmente anche in questo caso una parte del concerto era dedicata ai giovani autori americani.
Tre autori molto diversi. Ma la loro «storicità» dipende anche da fattori tecnici?
Malgrado le apparenze hanno molti elementi formali e compositivi in comune: ad esempio la concezione del quartetto d'archi non come gioco indipendente di quattro parti (come avviene dall'ultimo Mozart in poi) ma come piccola orchestra. Ovvero, per questi autori il quartetto d'archi non è più configurabile come autentica «musica da camera» secondo la concezione classica... E forse in questo atteggiamento compositivo, che del resto si riconosce anche in altri autori, c'è una sorta di aggancio metaforico con la vita sociale odierna: viviamo in una società globale, massificata, che non crea spazi all'individuo.
C'è da dire che l'osservazione non vale soltanto per il repertorio cameristico.
Certamente. Basta analizzare molti concerti con solista: quasi sempre si tratta di composizioni che solo nominalmente lasciano uno strumento in primo piano...
Ma con che criterio scegliete gli autori cui chiedere nuovi lavori per quartetto?
Ci interessano tutti... quelli interessanti. Vogliamo suonare. Fare musica, non autori: suoniamo tutti i quartetti e tutti gli autori, senza esclusione, basta non sia musica qualsiasi.
Può però capitare che un compositore non sia stuzzicato dalla formazione quartettistica: Birtwistle, ad esempio, ha finora rifiutato sostenendo di non avere idee per noi. Altri hanno aderito, pur non riuscendo a dare nel quartetto la stessa impressione di genialità evidente in altri generi.
Il quartetto è un confronto molto impegnativo: ci vogliono molte idee, materia musicale interessante e varia che consenta di arricchire una formazione che ha una grande gamma dinamica ma poco colore.
Da almeno dieci anni aspettiamo il terzo Quartetto di Ligeti...
Dal vostro osservatorio privilegiato come giudicate il pubblico?
Per cominciare, le differenze tra pubblico «normale» e pubblico specializzato... Penso sia importante avere entrambe le esperienze. Il pubblico in genere non è mai interessato alla musica contemporanea, a meno che non la senta, ma la compilazione dei nostri programmi impone agli ascoltatori questa prova - se non è possibile qualcosa di più avanzato, anche Zemlinsky rappresenta spesso una provocazione salutare: in Giappone accostavamo Janacek, Berg, Xenakis e Ives - e spesso è proprio da questo pubblico che vengono le reazioni più autentiche.
Comunque non c'è maggior soddisfazione che avvertire di essere riusciti a interessare al repertorio contemporaneo il normale pubblico di una stagione concertistica d'impostazione classica.
Il pubblico specializzato invece è itinerante, non cambia. Si sposta da un festival all'altro, è sostanzialmente intollerante e di parte: per cui sa riconoscere gli stili per contestarli, soprattutto se appartengono a nuovi autori. In questo caso facciamo il possibile per realizzare programmi in cui i contrasti linguistici siano calcolati, ma non è sempre possibile.
E non ci sembra che si noti - nonostante qualche segnale di effimero entusiasmo, e i nostri sforzi - un significativo movimento spontaneo degli spettatori: la musica contemporanea tende a rimanere una faccenda per addetti.
E se doveste giudicare l'inclinazione della musica nuova sulla scorta delle reazioni del pubblico?
Il grande richiamo rimane la tonalità. Non solo per chi ascolta. Anche da parte dei compositori, quelli stessi che alcuni decenni fa erano in prima fila nel serialismo totale, come Stockhausen o Boulez... Noi lo notiamo più facilmente - gli strumenti ad arco sono per natura melodici e chi scrive per noi deve tenerne conto. E lo fa dopo le stagioni di effetti strumentali artificiosi - ma è un fenomeno più generale, al quale pochi autori resistono ancora: Ferneyhough è rimasto tra gli ultimi rigorosi, ma anche nella sua musica densissima si notano delle schiarite in questo senso. Stiamo aspettando con curiosità il completamento del suo Quartetto n.4, che sarà col soprano, come in Schoenberg.
D'altra parte tutta la musica, soprattutto quella di altre civiltà, molto più antiche di quelle occidentali, dimostra che i centri tonali sono una base da cui non si può prescindere, se non sul piano strettamente teorico: l'uguaglianza assoluta, la mancanza di gravitazione tra le note, in natura non esiste.
Però nel vostro repertorio sono ancora iprotagonisti dello strutturalismo a dominare. Il minimalismo, ad esempio, vi interessa meno.
Lo seguiamo meno, certo. Forse perché ci siamo fatti la reputazione di strumentisti che fanno musica «difficile»... A parte gli scherzi, non è possibile suonare tutto bene e per il minimalismo ci sono complessi, come il Kronos Quartett, che danno il meglio. In generale crediamo che questi due estremi sintattici siano destinati ad avvicinarsi sempre più. Com'è sempre avvenuto nella storia della musica, laddove il celebralismo s'è congiunto alle seduzioni folkloriche (pensiamo all'op.59 di Beethoven, per cominciare) o all'interesse per «altri» materiali: l'attuale concetto di musica globale ha spinto in superficie altri folklorismi, sovrapposizioni stilistiche, infiltrazioni orientali e via dicendo.
Questo continuo correre avanti, inseguendo le novità e gli autori giovani, significa che la musica di oggi non avrà mai un repertorio simile a quello dei secoli passati?
Perché no? Anche noi torniamo sempre su certe musiche, quando avvertiamo che possono sopravvivere oltre la «prima volta». Semmai la preoccupazione è un'altra nell'ambito di questo repertorio: non vediamo molti altri complessi disposti a impegnarsi in un lavoro simile al nostro. Già la disciplina di gruppo, quartettistica, con la mortificazione individuale che procura, non trova molti proseliti al di fuori della cultura musicale inglese e tedesca. E la fatica della musica nuova, ancor meno.
Anche perché evidentemente nel linguaggio contemporaneo c'è ancora qualcosa di irrisolto, di non abbastanza condiviso dagli esecutori. E non è da sottovalutare l'influenza negativa della credenza che la musica moderna rovini la tecnica strumentale (quando non sfrutta le qualità più naturali dello strumento forse accade, ma è un alibi che vale solo per pochi lavori ... ).
Alcuni anni fa abbiamo tenuto dei corsi, in varie nazioni europee, sulla musica contemporanea: tra gli uditori avevamo strumentisti di tutti i generi, mai un quartetto...
Se doveste riflettere su come è cambiato tutto il panorama produttivo della musica contemporanea, cosa ricordereste subito?
L'aumento delle occasioni, la libertà degli stili. Come un albero che abbia germogliato in tutte le direzioni: e questa molteplicità stilistica rende più problematico il riconoscimento della qualità. Alla moltiplicazione degli stili è corrisposta la varietà delle tecniche e delle difficoltà strumentali, prima che interpretative.
E' difficile passare da un episodio aggressivo a uno quieto, da una frammentazione ritmica quasi ineseguibile a un pezzo tutto giocato sulla ricerca timbrica, cambiare il proprio modo di suonare di continuo. Per riuscirci occorre uno studio e una disciplina ferrea...
Viaggiare, studiare, studiare, studiare... ?
E farlo senza perdere l'entusiasmo. Come una missione, faticosa forse, ma che dev'essere vissuta a fondo per poterla veramente godere. Tutti noi abbiamo avuto esperienze d'orchestra: anche in concerto se suoni in orchestra c'è sempre il momento in cui puoi distrarti e riposare. Nella musica da camera sei sempre esposto e sotto pressione: in quella moderna con ancor maggiore tensione. Era ciò che cercavamo.
Angelo Foletto con la collaborazione di Luciana Galliano
(Musica Viva, Anno XIII n.11, novembre 1989)
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