Tutti a sentire il grande direttore : non in tournée, per una volta. Sir Georg Solti che dirige il Requiem di Verdi a Bologna è occasione doppiamente rara e importante anche perché il divo non arriva con il concerto precotto, l'orchestra lucente nel cellofan della sua perfezione, il poker d'assi dei solisti d'alto pregio e d'altissimo prezzo, il coro prestigiosissimo a denominazione d'origine controllata (preferibilmente dall'Est: voci potenti e morbide); ma lavora con i complessi del Comunale, rinforzati dal coro Rai di Milano, come fosse un concerto di routine affidato a uno di quei buoni (o meno buoni) professionisti cui pare ristretto pressoché del tutto il parco direttori a portata dei nostri teatri, perlomeno di quelli non considerati ufficialmente di categoria lusso.
In circostanze di questo genere uno non deve magari aspettarsi magie particolari di suono e di virtuosismo. In parole povere deve sperare non di ritrovare il disco che ha a casa ma di sentire un concerto vero. Contrariamente a quel che si può credere sono proprio queste le occasioni in cui si capisce se il divo è anche un grande direttore, cioè, anzitutto, un buon direttore.
E come dirige bene, Sir Georg. Intendiamoci: non è che Orchestra e Coro del Comunale di Bologna con annessi rinforzi Rai siano una schiera di meschini musicanti, pigra e torpida al punto che solo un genio possa sottrarla alla turpitudine di una routine miserabile.
Al contrario, soprattutto per quel che riguarda l'orchestra siamo davanti ad una delle pochissime formazioni italiche capaci di garantire uno standard apprezzabile. Con una grande coscienza professionale, a quel che sembra di capire. E molto corretti, tutti, con file compatte e con corposa solidità di suono. Però allo stato delle cose la crescita di questi ultimi anni, indubbiamente rapida e notevole, non rende ancora i complessi di Bologna concorrenziali per smalto, virtuosismo e quant'altro con la Chicago Symphony di cui si serve abitualmente Sir Georg, o con altra primaria ditta orchestrale di qua e di là dall'Atlantico.
C'è quindi l'obbligo per il direttore, fra l'altro perché lavora con complessi che non gli sono familiari, di montare da zero un'esecuzione soprattutto dirigendo: servendosi di tutte le risorse della sua tecnica per farsi capire e anche per ottenere la sicurezza di appiombo, gli equilibri fonici, la condotta dinamica voluti. E come dirige bene, Sir Georg, torniamo a dire. Il gesto nervoso, sempre più tagliente via via che l'età lo avvicina alla vecchiaia, è parco ma chiarissimo, incalza l'orchestra, la tiene cucita insieme con una lucidità fulminante, a briglia corta verrebbe fatto di dire. Il risultato, anche dal puro punto di vista tecnico, è esaltante, perché la cifra dominante dell'esecuzione resta il ritmo. Senza far troppi complimenti in fatto di abbandono o di spettacolarità sonora, Solti corre lungo tutto il Requiem con una sicurezza invidiabile. Incatenando un episodio all'altro con un gran senso della sintesi, senza per questo tirar via sui particolari: che anzi sono curati minuziosamente, sebbene non imposti all'attenzione dell'ascoltatore con sottolineature specialmente insistite.
E questo della sintesi resta il dato saliente della prova interpretativa di Solti. Che è grande direttore perché è bravo, ma è anche bravo perché è grande. Infatti il codice dei gesti tutto sommato anziché la base delle sue idee di interprete sembra esserne la conseguenza, l'applicazione pratica.
In principio c'è la musica, per Solti. Che pure nelle nostre classificazioni critiche viene catalogato come direttore drammatico (l'opposto di "lirico". Etichette comodissime a suo tempo soprattutto per contrapporre la sua Tetralogia a quella di Karajan: ma un tantino scemerelle). Solti non è interprete drammatico nel senso che in lui i riflessi emotivi del momento musicale siano oggetto di speciali attenzioni. Perlomeno lo è molto meno di quanto non succeda, Requiem contro Requiem, con Muti: il quale lavora alla parola e sulla risonanza espressiva assai più puntigliosamente di lui. L'idea di dramma viene alla mente dell'ascoltatore soprattutto per l'impulso quasi violento impresso dal ritmo. Ma probabilmente si tratta soprattutto di un'esigenza, di un'ansia anzi, di unità, di coerenza di logica.
Quindi il Requiem come pezzo sinfonico; come partitura da direttori. Da pensare anzitutto sul podio, nella realtà delle note, anziché nelle sue valenze teatrali, nelle suggestioni storiche. Il che spiega abbastanza bene anche il ricorso a un quartetto di solisti più che buono, ma senza nessuno speciale lustro sul piano della vocalità o della capacità dì protagonismo. Fra Alessandra Mare soprano, Jard vari Nes mezzosoprano, Bruno Beccaria tenore e Ferruccio Furlanetto basso ciascuno di noi avrà fatto le sue valutazioni; meglio questa, peggio quello, gli altri benino. Non ha molta importanza, al di là del qui ed ora dei due concerti di Bologna: potreste benissimo scambiarli con altri quattro; magari, però, stando attenti a non inseguire le voci spaventosamente grandi e belle che arricchiscono altre letture del Requiem. Perchè qui quel che conta, e conta tanto, è la visione del direttore, il suo modo stesso di dirigere. E come dirige bene, Sir Georg.
Daniele Spini
Ricevere una laurea honoris causa da questa università, tra le più eminenti ed antiche del mondo, ha per me un particolare significato. L'Italia è la mia seconda casa; quella dove mi è stato dato il privilegio di trascorrere ventisette estati tra i pini di Maremma. I positivi risultati di ogni mia stagione concertistica sono in larga misura il frutto della tranquillità e dell'atmosfera rigenerante che mi circonda ogni estate nella mia casa italiana.
E sono lieto oggi di avere la possibilità di ringraziarvi tutti di un dono per me tanto prezioso.
Quando ho saputo che avrei dovuto fare questa prolusione, ho riflettuto per qualche tempo sull'argomento. Avrei dovuto parlare di Verdi, del Requiem e di Manzoni? No: decisi che dovevo parlare di due grandi uomini di musica che hanno influenzato i miei primi anni e i cui scopi e ideali ho cercato di seguìre lungo tutta la mia carriera.
Entrambi abbandonarono i paesi in cui erano nati e che profondamente amavano per attestare pubblicamente la loro condanna del nazismo e del fascismo. Il loro gesto diede forza e sostegno a molti ed anche a me, quando nei primi anni del mio esilio spesso disperai di poter ritornare alla mia famiglia, ai miei amici e alla mia terra.
Parlo di Arturo Toscanini e di Bela Bartok.
Conobbi Toscanini nel '37, ero maestro collaboratore all'Opera di Budapest e avevo ricevuto una lettera di presentazione per recarmi a Salisburgo ed assistere alle prove del festival. Per un'epidemia influenzale il fato mi offrì l'occasione di suonare ad una prova del Flauto Magico. Sedevo ancora al pianoforte nella buca d'orchestra quando, alla fine della prova, una figura minuta guardò giù verso di me e disse: "Bene!". Quel "Bene!" ebbe per me più significato di qualsiasi altra lode mai ricevuta, e da allora nessun plauso ha avuto per me più valore che quell'unica parola pronunciata dal mio idolo.
Ebbi il privilegio di lavorare con il Maestro per l'intero Festival e potei osservare ed apprendere la sua sconfinata brama di perfezione, la sua inarrestabile ricerca dell'eccellenza. Fui scritturato per il successivo 1938; ma fu quello l'anno dell'Anschluss e nulla se ne fece. Toscanini odiava il nazismo ed insieme con i suoi amci Bruno Walter e Adolf e Fritz Busch fondò in Svizzera il Festival di Lucerna. Col tratto suo tipico, di mai accettare compromessi, né di temere la pubblica espressione delle proprìe opinioni, egli troncò ogni rapporto con l'Italia, la Germania e l'Austria, accettando l'incarico di direttore della NBC Orchestra di New York.
Qualche amico mi consigliò di cercare lavoro in America, ma io ero uno sconosciuto; e per di più sprovvisto di permesso. Per ottenerlo mi serviva una raccomandazione. Raggiunsi perciò in treno Lucerna da Budapest per chiedere a Toscanini una lettera di referenza. Dovetti aspettare una settimana prima di trovare il coraggio di chiedere una raccomandazione a una simile divinità della musica. Attendevo ogni giorno il suo passaggio vicino alla porta degli artisti. Alla fine trovai animo quanto bastava per parlargli. Mi ricevette con grande gentilezza, dicendo che al mio arrivo a New York mi avrebbe volentieri aiutato. Ero al settimo cielo. Ma non vi rimasi a lungo. La guerra scoppiò il giorno dopo e mia madre mi inviò un telegramma che diceva: "Non tornare a casa". Mi trovai un musicista senza denaro, né fama, né casa.
Trascorsero quindici anni prima che raggiungessi l'America, ma Toscanini indirettamente aveva salvato la mia vita: se fossi rientrato un Ungheria in quel momento, dubito che sarei sopravvissuto.
Toscanini si recò a New York e trasformò la NBC Orchestra nella migliore del mondo. Il suo straordinario genio rimane uno dei grandi fenomeni musicali degli ultimi cento anni. Il compositore ungherese Bela Bartok era docente presso l'Accademia Liszt di Budapest, vi insegnava il pianoforte ed io ebbi modo di ricevere da lui lezioni nel 1925 per alcune settimane, durante le quali egli sostituì un suo collega mio insegnante. Taciturno ed introverso, parlava sommessamente, lo sguardo acceso nei grandi occhi. Interveniva raramente durante le lezioni, preferendo spesso consegnare agli allievi, al termine, i suoi commenti in una nota scritta. Noi giovani musicisti ungheresi degli anni Venti e Trenta lo adoravamo tanto sotto il profilo musicale che politico. Nonostante la fama nazionale della sua figura, partecipe dell'establishment musicale ungherese del secondo e terzo decennio del secolo, la musica di Bartok era poco apprezzata dal vasto pubblico. Era considerata dissonante, troppo all'avanguardia, poco gradevole e le vedute politiche dell'autore non erano certo quelle del regime di Horthy. Ebbi il privilegio di fare il voltapagine alla Signora Bartok quando insieme al marito eseguì per la prima volta a Budapest la Sonata per due pianoforti e percussione. Fu un fiasco assoluto e il fiacco, sarcastico applauso alla fine dell'esecuzione apparve davvero umiliante. Disprezzandone la musica, il pubblico dava segno di disapprovare l'uomo di sinistra. Egli tuttavia non accettò mai compromessi o modifiche delle proprie partiture per adeguarsi ai gusti del pubblico. Non agì mai per il proprio vantaggio personale od economico.
Nel 1937, profondamente sdegnato da quanto andava accadendo in Germania, proibì che vi fossero eseguite le sue musiche. E altrettanto fece per l'Austria nel 1938, riducendo in tal modo la già magra entrata dei diritti d'autore. Da allora in poi rifiutò di esprimersi in tedesco. Preferiva conversare in inglese, nonostante parlasse con difficoltà questa lingua.
Nel 1939 decise di lasciare l'Ungheria in segno di sfida verso il regime, rifugiandosi negli Stati Uniti. Fu questo per lui il sacrificio supremo, poiché amava la propria terra, potente motivo ispiratore di tutte le sue opere. Anche sotto il profilo pratico le sue prospettive di lavoro in America apparivano ridotte. Gli fu offerto un insegnamento di composizione presso diverse Università che egli tuttavia rifiutò, preferendo eseguire le proprie composizioni pianistiche, talvolta insieme alla moglie. Ma questo Accademico, estraneo ai compromessi e al virtuosismo, fu scarsamente apprezzato dagli Americani, abituati a musicisti assai più brillanti. Più di tutto gli mancavano il suo Paese e i suoi amici europei, ma ciò non bastò a distoglierlo dai suoi propositi. Nel 1943 si ammalò di cancro. E proprio durante le cure a cui era sottoposto in un ospedale di New York, accadde una specie di miracolo.
Serge Koussevitsky, direttore della Boston Symphony, venne a trovarlo chiedendogli una composizione per orchestra. Aveva con sé un assegno di 5.000 dollari che Bartok rifiutò di accettare, affermando di non sapere se avrebbe trovato la forza di scrivere. Riuscì invece a riprendersi, a comporre l'intera partitura e a vivere abbastanza da ascoltare l'esecuzione di quella che divenne la sua più importante pagina sinfonica: il Concerto per orchestra, suo primo, vero successo americano.
Al termine della guerra, Bartok avrebbe desiderato rientrare in Ungheria, ma per le difficoltà nei collegamenti ciò risultò impossibile. Purtroppo il cancro ebbe di nuovo il sopravvento, portandolo a morte in poche settimane, lontano dalla terra che amava. La figura di questo grande ungherese non è però caduta nell'oblio. La sua musica è eseguita e acclamata in tutto il mondo.
Fra tre settimane le sue ceneri torneranno in Ungheria per trovarvi l'ultimo riposo. Anche io sarò là, insieme a molti altri, per rendere il mio tributo a quest'anima nobile, ìspirazione di tutta la mia vita. Bela Bartok e Arturo Toscanini: due fiaccole nella notte, perché nessuno di noi possa mai dimenticare il prezzo della libertà, la libertà di parola, che tutti abbiamo il dovere di difendere.
Georg Solti, Bologna 6 giugno 1988
(Prolusione tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa dell'Università di Bologna)
(Prolusione tenuta in occasione del conferimento della laurea honoris causa dell'Università di Bologna)
Musica Viva (Anno XII nn.8/9, agosto/settembre 1988)
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