Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, giugno 27, 2006

Quirino Principe: "Non dò giudizi, però..."

Sono in crisi, lo confesso. Non me la sento più di scrivere. Mi son venuti meno parametri e criteri, regoli e sestanti, bussole e astrolabi. Da anni sto covando questa confessione: non so giudicare. Non è una posa semiseria, quel che dico: è la verità. Per anni ho mascherato la disperazione dietro il sorriso (bella frase, ammettiamolo! me la annoto), ma come si fa a non disperarsi, quando, al termine di un'opera o di un concerto, invece di fuggire dalla pazza folla e di tapparsi le orecchie per non udire i commenti dei maitres à faire le compte rendu, si indugia a conversare? Negli anni dell'adolescenza si era tanto ingenui da dichiarare la propria opinione, subito e apertamente. La regia era così così, mentre l'orchestra era mediocre. Per carità, interveniva questo o quello: la regia era splendida, l'orchestra faceva pena. "Com'era il concerto del tale pianista?", domandava il giorno dopo un tale, lasciando intendere che la domanda era reale, non retorica, e che lui al concerto non era stato presente. Incautamente, si rispondeva: "Molto bello...", poi, all'aggrottar di ciglia dell'interrogante, si correggeva timidamente il giudizio: "Interessante, ad ogni modo...". Sorriso ironico: "Dev'essersi trattato di un miracolo!". Con gli anni, abbiamo imparato a spiare in simili domande le inflessioni nascoste e i sottintesi. Ora mi sono abituato a replicare con una controdomanda: "Quale risposta ti fa piacere che io ti dia?". Chi è tanto temerario da sfidare il rischio della conversazione deve avere la pazienza di compilare, per suo uso personale, una tabella dei gusti e delle idiosincrasie altrui, avendo la massima cura di non parlare mai di un pianista con altri pianisti, mai di un cantante con altri cantanti, e così via.
Ho avuto anch'io, in misura modesta (la misura che mi si adatta) la mia estate di ascolti e di viaggi musicali, ma non è mancata un'alta lezione critica che mi ha sprofondato in un vuoto d'identità semantica e ontologica. L'ultimo giorno della mia unica settimana di vacanza, durante il viaggio di ritorno in treno, mi è capitato di sfogliare due giornali scroccati come di consueto ai vicini di scompartimento, essendo io notoriamente tanto avaro da non comperare mai un quotidiano. Il vicino di sinistra aveva il Corriere della sera. C'era un servizio di Duilio Courir da Salisburgo. Radu Lupu? Brillante, al di là di ogni elogio. Peccato che l'orchestra fosse diretta da Zubin Mehta, sempre piú maldestro e greve, fuori tono. Murray Perahia? Volonteroso ma incerto, ben lungi dall'essere divenuto davvero un grande pianista, e chissà se mai lo diverrà. C'era al suo fianco, per fortuna, sir Georg Solti, vecchio intramontabile mago della bacchetta, e Solti ne sa sempre una piú del diavolo. Il vicino di destra aveva La Repubblica. Secondo scrocco, e lettura da impenitente écornifleur. Ed ecco l'immediata punizione: la pagina con il servizio su Salisburgo, firmato Marcello De Angelis. Radu Lupu mediocre, Mehta grandissimo, Perahia il vero grande pianista, Solti ripetitivo. Al di là dei trauma s'intravede un disegno prestabilito ancorché anonimo, dal momento che i suoi autori ne sono inconsapevoli, e forse questo è il modo con cui il sistema si mantiene in perfetto equilibrio di forze.
Bene. Se devo parlare delle mie rare escursioni musicali dell'estate, mi asterrò, almeno per questa volta, dai giudizi, ma che dico, dalle opinioni sugli esecutori. Dirò soltanto dei progetti, della qualità organizzativa, degli ambienti e del pubblico. Dal 15 agosto al 3 settembre sono stato ospite del Salerno Festival, proposto nel 1987 al Comune della città campana da due giovani, entusiasti animatori musicali, i fratelli Giulia e Vittorio Ambrosio. Gli Ambrosio sono due tipiche figure di provincia, nel senso migliore: dedicano tre quarti delle loro energie a far musica sul serio, non sono, come nelle metropoli, forze di potere in dialettica con altre forze, ma tenaci e pessimisti don Chisciotte che s'incuneano tra forze irrigidite e capaci soltanto di spiarsi a vicenda. Inutile dire (e anche questo fa parte del provincialismo regionale nostrano) che il Salerno Festival non è molto gradito ai centri di potere musicale insediati a Napoli, città nella quale neppure le locandine diffuse a mano dai collaboratori dell'iniziativa salernitana vengono affisse, con mille pretesti, ed è molto se per miracolo se ne trova qualcuna esposta in sedi meno infette da spirito camorristico. Il Festival 1991 si è aperto con due concerti di Uto Ughi e dell'Orchestra Filarmonica di Israele diretta da Zubin Mehta (15 e 16 agosto). Della capacità comunicativa di Ughi è superfluo parlare, ma sottolineiamo anche l'intensità con cui il violoncellista Michael Haran (l'Orchestra d'Israele ha in sé nuclei di formazioni cameristiche e veri solisti di alta statura) ha interpretato Schelomo di Ernest Bloch il 17 agosto. Quella sera, Mehta ha diretto anche la Prima Sinfonia di Mahler includendo, come secondo tempo, l'Andante detto "Blumine", ed è occasione assai rara di ascolto, soprattutto nel contesto organico della sinfonia. Il 18 e il 19 la rassegna mahleriana è proseguita con due gigantesche partiture, la Quinta e la Nona. I concerti hanno avuto luogo, come di consueto, all'aperto, nel magnifico atrio del Duomo, a pochi metri dalla tomba di Gregorio VII: un luogo di grande splendore architettonico nel cuore di una città fatiscente, abbastanza sporca, economicamente depressa. Ma il pubblico, forse non dei piú agguerriti all'ascolto né dei piú culturalmente preparati, ha reagito con ingenuo, delizioso entusiasmo. Il Festival ha offerto altre cose d'eccezione, che avrebbero meritato un afflusso di ascoltatori non soltanto salernitani o campani. In realtà, mancavano presenze milanesi o romane ma c'erano parecchi stranieri. Eccone la rassegna: un programma palestriniano con i Tallis Scholars diretti da Peter Phillips, un concerto liederistico di Elly Ameling col pianista Rudolf Jansen, il flautista Roberto Fabbriciani con i solisti del Salerno Festival, un'esecuzione in forma di concerto della Damnation de Faust di Berlioz diretta da Marek Janowski con l'Orchestra di Radio France, la rappresentazione in forma scenica di The Rakes Progress di Stravinsky diretta da Ivan Filev con l'Orchestra del Teatro Lirico di Bulgaria.
Dal Sud insolitamente gotico di Salerno all'architettura umbra immersa nella campagna piú verde che mai e chiusa da colline che sembrano sirene pronte a sedurre il visitatore: "fermati qui, non te ne andare!". Sto introducendo l'iniziativa nota con la lunghissima denominazione di "Festival delle Nazioni di Musica da Camera di Città di Castello ". Qui spicca una diversa personalità di animatore: Gabriele Gandini, uno strano musicista che non soltanto suona un numero incredibile di strumenti ma possiede una cultura musicologica e filologica acquisita con passione artigianale. Gandini è un uomo perennemente arrabbiato: con i politici ottusi e pigri, con i musicisti coltivanti ciascuno il proprio feudo di piccoli privilegi, con il pubblico amante della routine. Per giunta, aiuta i giovani, forse perché lui stesso vive quasi con l'irruenza dell'adolescente di fronte agli adulti assuefatti alla dilazione e alla perenne mediazione. Questo Festival 1991, il XXIV della serie, è stato condotto secondo il consueto progetto di grande complessità e multivalenza che a Gandini piace: una rassegna tutta mozartiana, articolata per temi monografici, e un parallelo convegno medico-epistemologico-musicologico accentrato sulla creatività infantile con Mozart fanciullo come esempio supremo.
Ho partecipato direttamente al convegno, ma con l'impressione di essere ultimo fra gli ultimi, data la presenza di Edgar Morin, un uomo per il quale la qualifica di maitre à penser non suona, una volta tanto, ironica. Serate monografiche, dunque, per quanto riguarda i concerti. Memorabile quella dedicata a tutte le musiche massoniche di Mozart, con l'Orchestra da camera di Praga diretta da Josef Hercl. Violando la consegna - tacere della qualità esecutiva - non posso tralasciare qualche segnalazione, poiché c'è stato chi ci ha commossi davvero, noi del pubblico (un pubblico internazionale, attento e criticamente affinato): l'organista Jiri Kotouc, il tenore Miroslav Kopp, il basso Ludek Vele. La serata successiva (3 settembre) ha offerto, accanto alla fulgida Messa solenne KV 337, una curiosità: il Requiem, davvero brutto e sgraziato ma commovente per l'intento cui fu legato, scritto dal compositore boemo Frantisek Antonín Rössler detto anche Francesco Antonio Rosetti o Rossetti o Rosety (ca.1750-1792) ed eseguito il 14 dicembre 1791 nella chiesa di St. Nikolaus a Praga per la commemorazione funebre di Mozart.
Avevo seduto accanto a me Giovanni Carli Ballola, che continuava a deprecare la bruttezza di quella partitura, e con ragione. Che il giudizio di lui, sommo conoscitore di Mozart come dimostra il suo recente, magnifico e sfortunato libro, sia sempre preciso e penetrante, è cosa nota. Tuttavia, credo che Gandini bene abbia fatto a mettere in programma il Requiem di Rössler: è stata, credo, un'occasione unica in vita, e del resto si tratta di una fresca acquisizione della musicologia boema. Si pensi che i repertori e dizionari (il Deumm per esempio), rubricano il Requiem come "perduto".

Quirino Principe (Musica Viva, Anno XV n.10, ottobre 1991

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie per aver trascritto questo bell'articolo! Leggo con fedeltà ed entusiasmo il tuo blog molto di frequente.