Nei viaggi - tre, in Italia, decisivi, con il padre - l'Europa s'era aperta a Mozart con il suono dell'organo di Rovereto, dove la città tutta s'era data convegno per ascoltare quel "raro e portentoso" tredicenne, per dirla come pochi giorni dopo l'avrebbero celebrato a Verona i sonetti e i ritratti in onor suo. Poi, via per Mantova, nella meraviglia architettonica del piccolo teatro del Bibiena, via alla scoperta di città e paesi, pronto a tutto copiare ed a trascrivere per studiare: i vocalizzi zampillanti della Bastardella, mandati per lettera a Nannerl, il Miserere di Gregorio Allegri, udito a Roma una volta sola alla Cappella Sistina, e messo subito esattamente sul pentagramma a memoria nel suo fitto contrappunto di sette voci. Questa voglia dì capire la musica degli altri lo accompagnerà per tutta la vita. Quando a Lipsia, già famoso, gli cantarono in onor suo un mottetto di Bach, esclamò: "ecco finalmente qualcosa dove c'è da imparare!" e volle tutte le singole parti scritte e le posò attorno a sé, e le guardava e pensava...
"Viva il maestrino!", avevano gridato a Milano dopo il Mitridate. Era la felicità del trionfo. Per Lucio Silla a Milano, invece, c'era stata approvazione, non era mancato il successo in venti repliche; ma anche qualche dubbio, qualche disagio; troppe ombre patetiche, troppe novità dentro i personaggi, per il Teatro Ducale, poco avvezzo ai brividi inaspettati. Era la sfida, la voglia della rivincita completa a stuzzicarlo.
Troppi echi, troppi fremiti del passato verso il futuro, per tener tranquillo l'adolescente Mozart ritornato a Salzburg. Lo spazio della città, non solo quello della tastiera, l'aveva già tutto esplorato; vedeva ormai il padre e il vescovo nelle loro dimensioni reali. Era molto guardato.
Non era alto, ed era mingherlino, biondo pallido con gli occhi d'un azzurro un po' stinto che potevano prendere a volte il colore delle cose vicine, come accade a chi ha gli occhi chiari; ma anche l'aspetto fisico lo staccava dagli altri, la mobilità continua gli dava una sua attrattiva; e quella stessa sua risatina acuta, rapida, che sorprendeva d'improvviso, era il segno d'una sua imprevedibile, nervosa ironia sulle cose. Faceva scherzi, poi, era divertente e spiritoso, e aveva il fascino del predestinato che aveva viaggiato incantando e che avrebbe viaggiato ed incantato ancora.
Era al momento dei primi bigliettini furtivi, delle occhiate più lunghe, delle immagini femminili che prendono senza perché una luce nuova. Una bella fornaia gli apparve bellissima, si dice, o lei trovò troppo attraente lui. Immaginare è facile, ma sapere è impossibile. "Ogni donna mi fa sospirar", avrebbe cantato Cherubino nelle Nozze di Figaro. Ci viene da sovrapporlo, un Cherubino nelle stradette protette dalla roccia a Salzburg, in un mondo senza la leggerezza di battute dei palazzo del Conte e del libretto di Da Ponte. La famiglia Mozart è tutta riunita, non si scrivono l'un l'altro; i ricordi in futuro di questo periodo sono fievoli e rari; nessun altro si interessa ancora di Mozart tanto da tenersi qualche appunto per tramandarlo a noi.
Se ne interessa, ma a modo suo, l'arcivescovo; per affermare la sua autorità, contrapponendo principescamente e vescovilmente il futile desiderio d'evasione del musicista a lui soggetto ai sani sostanziosi doveri di servitore della nobile cappella. E così gli concede pochissimi permessi, e Mozart resta a Salzburg a onorare l'impiego; e scrive Messe, brevi perché tutto deve stare nei tre quarti d'ora, compone anche altra musica sacra, tanto più che Leopold dirige la cappella della cattedrale, e molta musica strumentale, come i famosi concerti per violino, tra cui quello ammaliante in La maggiore che porta già il numero d'opera K 219. Perché altra è la necessità di trovare occasioni per un armonioso e ricco sviluppo della propria cultura e della propria personalità, altra è la capacità d'un artista di inventare in qualunque condizione, anche la più deprimente. Sarà ad esempio proprio a Salzburg, nel 1779, che licenzierà l'inarrivabile Sinfonia concertante per violino e viola in Mi bemolle K 320, fi cui Adagio è l'elegia più composta e struggente che sia dato d'ascoltare, e, l'anno dopo, i Vesperae solemnes de confessore K 339, in cui il "Laudate Dominum" dall'ampia, innocente, calda frase distesa del soprano, cui fa presto eco il coro, per quello che possiamo ipotizzare del rapporto fra le invenzioni umane e Dio, dovrebbe essere tra le poche sicure credenziali per vantare il diritto naturale al Paradiso.
Un permesso, comunque, fu accordato, nel 1775, per interessamento non trascurabile del Grande Elettore di Baviera Massimiliano III, quando a Mozart fu chiesto di comporre a Monaco La finta giardiniera, che era un'opera buffa e quasi una favola giocosa, su libretto dei grande Ranieri de' Calzabigi. Mozart la scrisse, la rappresentò: piacque a tutti, a teatro strabocchevole: "Se volessi descrivere il baccano alla mamma, non ce la farei", confessò Mozart a Nannerl. Queste vittoriose imprese venivano considerate fino a pochi anni fa, quando dei grandi autori si eseguivano soltanto poche opere (e se si eseguivano le altre si cercava di farle assomigliare a quelle già note), gradevoli momenti senza troppo peso d'un genio capace di rispondere alle attese dei suoi tempi, e si sprecavano aggettivi come "grazioso" e "delizioso ". Ma chi potrà sottrarsi, in una esecuzione intelligente, allo stupore di quel gioco perfetto, di quei sette personaggi che si disconoscono e riconoscono, e si trovano e si disperdono e alla fine degli atti si raggruppano vorticosamente dialogando tutti insieme?
Tornare a Salzburg era sempre più difficile, ogni volta. "Vivo in un Paese dove la Musica fa pochissima Fortuna", "per il Teatro stiamo male", nelle Messe si devono mettere "tutti stromenti - Trombe di guerra, Tympani", scriveva Mozart nel '76 a Padre Martini, in lingua italiana, ma per mano del padre, il che dà subito una patina solenne e ci lascia questa volta senza gli spiragli attraverso cui cerchiamo nelle lettere solite di guardare oltre le parole e le cose. Come avranno eseguito, come avranno capito Il re pastore, opera su libretto del Metastasio, in lingua italiana, data a Salzburg, ancora nel'75, con quell'intreccio a metà tra favola pastorale e omaggio illuministico alla saggezza dei regnanti, in cui così sottilmente si esprime il rovello dentro a tutti i personaggi? Come avranno fatto sentire, nell'ampia, classica, insistente aria "L'amerò, sarò costante" costruita col violino solista concertante, la malinconia saggia con cui il re medita sul conflitto tra amore e ragione di stato, vivendola quasi con distacco, in una pensosa tenerezza? E Mozart stesso sarà riuscito ad imprimere agli strumentisti nelle sue sinfonie, a cominciare da quella affettuosa e suadente in La maggiore K 201, la convinzione per non fermarsi solo al primo aspetto, quello d'una incantevole conversazione? Ancora adesso a volte a Salzburg sembra che una confidenza eccessiva, da indigeni a indigeno, chiuda Mozart nelle quiete soglie dell'intrattenimento, senza chiedere oltre; come se non fosse ormai chiaro che Mozart è un compagno simpatico e leggero, che riserva le sue risposte fonde solo a chi a fondo vuole interrogarlo.
da "Mozart una vita" di Lorenzo Arruga (supplemento a Musica Viva n.12/1990)
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