Nel recente Dizionario degli interpreti musicali - filiazione del Dizionario Enciclopedico della Utet - il loro nome non compare. Possibile? E' davvero così sconosciuto il Quartetto di Tokyo, da non meritarsi uno spazio tra il Quartetto Tatrai e il Quartetto Ungherese? Sembrerebbe proprio di no. Basta un'occhiata alla discografia nutrita del gruppo, alle agende incredibilmente fitte di impegni in tutto il mondo (ultima prestigiosa chiamata, l'esecuzione dell'integrale dei Quartetti di Beethoven dalla Scala ad Amsterdam, Vienna, Bruxelles, Parigi e New York) e soprattutto basta uno sguardo alla storia affascinante di questo Quartetto venuto dall'Estremo Oriente - solitario, per ora, nell'affermarsi nei circuiti musicali occidentali per concludere che la svista del Dizionario italiano va sanata almeno con immediate scuse.
E' una bella storia, questa del Quartetto di Tokyo. Probabilmente piacerebbe a Kurosawa, perché è una tipica storia giapponese, un equilibrato convivere di tradizione-lentezza-pensiero con i frenetici ritmi di successo-lavoro-rischio. A raccontare la storia dei "Tokyo" sono in due, le due anime del Quartetto, la viola Kazuhide Isomura, che è lo sguardo sottile sul passato, il parlare pacato, in un inglese depurato dal connaturale affanno, e il primo violino Peter Oundjian, arrivato dopo dodici anni di vita del quartetto, cultura mista, divisa tra Canada, Armenia e Inghilterra, passo nervoso, orologio sotto controllo, e un quotidiano americano discretamente a portata di mano, sul divano, per riempire i tempi morbidi della conversazione del compagno di avventure.
Così va l'intervista alle due facce del Quartetto di Tokyo: su due binari, con perfetta divisione del territorio, in concentrazione rispettosa, ma senza interferenze.
Cominciamo da 25 anni fa, da quel 1969 che ha segnato la nascita della vostra formazione: come vi siete incontrati?
Con Kiochiro Harada, Yoshiko Nakura e Sadao Harada studiavamo insieme alla Toho School of Music. Era la scuola di musica più importante di Tokyo e di tutto il Giappone. Nell'elenco degli iscritti, il suo primo allievo era stato Ozawa. La scuola era stata fondata nel 1950, sul modello della Juilliard di New York. Figura centrale alla Toho School era il professor Hideo Saito, allievo di Emanuel Feuermann: terminati gli studi di violoncello, aveva fondato una straordinaria classe di musica da camera. E' stato lui, Saito, ad avvicinarci per primo al fascino del quartetto.
Una scuola su modello americano, un maestro allievo di uno dei più famosi violoncellisti degli Anni '20-40: voi studenti di musica giapponesi non sentivate come importata questa cultura?
No. Noi quattro eravamo tutti nati dopo la seconda guerra mondiale, quando la musica europea era molto popolare. E poi non va dimenticato che l'Orchestra della Radio giapponese ha quasi cent'anni, e il suo repertorio erano i classici della musica occidentale; a tre anni io ascoltavo Mozart, a cinque ho iniziato a studiare violino. Era naturale, per me e per i miei coetanei: siamo cresciuti con la musica dell'Europa.
E la musica giapponese?
E' una musica particolare, non è per i concerti. E' musica nata per il teatro - No e Kabuki - oppure è musica da suonare a corte, per le cerimonie reali. E' comunque musica per piccoli ambienti, da meditare, non da applaudire.
Dunque voi quattro studiate quartetti con il professor Saito a Tokio: ma come siete usciti dal Giappone?
Nel'65 era venuto a Tokyo per un workshop il Quartetto Juilliard e ci impressionò, non solo per il repertorio presentato, ma per il modo in cui lo suonavano. C'erano stati altri Quartetti occidentali in Giappone, prima di loro. Avevamo sentito il Quartetto Italiano, l'Amadeus, il Quartetto di Budapest. Ma il Juilliard dava il primo workshop. Eccitati, lavorammo con loro, ormai decisi a diventare anche noi un quartetto. E loro ci invitarono ad Aspen, dove tenevano dei corsi estivi. Ma solo Harada, il violoncellista, ed io potevamo permetterci studi così lontani. Anche se in realtà soldi ce n'erano pochi. Studiammo con Robert Mann, il primo violino del Juilliard, e intanto arrivammo a conoscere Pierre Ménard, secondo violino del Quartetto Vermeer di Chicago. Lui era anche spalla dell'orchestra di Nashville, un'orchestra che suonava un po'di tutto, classica e country. Avevamo bisogno di soldi e così fummo ingaggiati lì. Presto ci raggiunsero anche i nostri due compagni dal Giappone e fu lì che ci preparammo per Monaco.
Monaco, 1970, con il suo decisivo primo premio al prestigioso Concorso internazionale: come andò?
Beh, non avevamo più problemi di soldi, di concerti, di agente, di casa discografica. Di colpo la nostra vita cambiò. E diventammo il Quartetto di Tokyo. Il nome nacque proprio lì, alla consegna dei premi. Fu un momento tutto particolare: nessuno, nelle altre categorie del concorso di quell'anno, aveva vinto il primo premio. La giuria scorreva i nomi, e c'erano solo secondi o terzi. Ultima ad essere chiamata fu la categoria quartetto: nominarono noi, e ci fu una reazione entusiastica, anche perché da tanti anni a Monaco non si dava il primo premio al quartetto. In giuria c'era anche Paolo Borciani. Fu lui a parlare di noi a Milano ad Alfredo Amman, l'agente che ci presentò alla Società del Quartetto. Così da Monaco partirono i concerti per l'Europa. Invece in America funzionava - e c'è ancora oggi - un'associazione dedita alla promozione dei giovani, la Young Concert Artist: fu lei a lanciare Zukerman, Emanuel Ax, Richard Goode e tanti altri. E grazie a questa associazione noi debuttammo a New York.
Poi ci fu la separazione del secondo e poi del primo violino.
Che Yoshiko Nakura ci avrebbe lasciati lo sapevamo da tempo: l'esperienza del quartetto doveva rimanere per lei limitata ad un certo periodo, prima della famiglia e dei figli. Le subentrò Kikuei Ikeda, che è con noi dal '74, e veramente ci sembra che sia stato con noi dall'inizio. Ma il vero shock fu il distacco del primo violino. Non sapevamo più che fare: provammo tanti violinisti, ci consigliavano di restare con i giapponesi, per via dell'identità del gruppo. E invece a convincerci fu lui, Peter Oundjian. Lo conosceva la moglie di Ikeda; suonavano tutti e due nell'Orpheus Chamber Orchestra, e poi sapevamo che era un gran violinista, che faceva molta musica da camera.
E' venuto ilsuo momento. Fino ad ora si è limitato ad ammiccare, sprofondando nel divano, incurante della compostezza giapponese.
Dunque, Oundjian, cosa provò nel suonare a Tokio?
Mi sembrò strano; ma soprattutto pensavo che per me sarebbe stato un grosso rischio. Allora godevo di una buona reputazione in ambito violinistico. Se avessi fallito con loro, per me sarebbe finita. E suonare in quartetto non vuol dire solo metter insieme quattro persone che suonano bene. E' un discorso diverso. E comunque, per me, allora, era un rischio. Però ero curioso. Ma avevo anche sogni di carriera solistica. Ero in conflitto. Per convincermi ad accettare, i Tokyo mi dissero che mi avrebbero lasciato tre mesi all'anno esclusivamente da dedicare alla mia personale carriera. Ma poi c'era anche un problema di repertorio: allora conoscevo praticamente tutta la letteratura per violino solo, ma pochi quartetti. Quanti? Mah... cinque, forse. Quanti anni avevo? Venticinque. Nato a Toronto, a quattro anni in Inghilterra, studi al Royal College di Londra, e poi alla Juilliard, con Galamian, Perlman e Delay. Ma fu Zukerman a incoraggiarmi a studiare in America.
Non si è mai sentito un po' straniero nel Quartetto?
No. Abbiamo culture diverse, ma fisicamente ci assomigliamo. Forse se fossi alto due metri e biondo sarebbe diverso... Mi ricordo una volta, proprio prima di iniziare un concerto, una signora delle prime file, in sala, un po' ad alta voce disse: "Guarda, il primo violino è cinese".
Lavorate molto insieme?
Sì, circa dieci mesi all'anno. Viviamo tutti e quattro in America.
Dicono che il quartetto sia la formazione più precaria e litigiosa: è vero?
E' difficile andare d'accordo, ma cerchiamo sempre di prevenire le difficoltà, di
affrontare i problemi prima che esplodano. Nel lavoro cerchiamo la comunicazione, che può a volte essere tanto intensa da aver bisogno di compensazioni: così nella vita siamo molto indipendenti. Ad esempio, prendiamo treni diversi, in aereo chiediamo posti lontani, e se è possibile cerchiamo di evitare di alloggiare tutti nel medesimo hotel.
Avete dei modelli per il vostro quartetto?
No. Vorremmo costruire qualcosa di nuovo. Quando suoniamo siamo in quattro, e su una frase musicale abbiamo sempre almeno tre idee diverse. Certo risentiamo di influenze musicali, ma non necessariamente di altri quartetti.
Come avete affrontato l'integrale dei Quartetti di Beethoven?
Questo è un po' difficile da spiegare a parole. Quando suoniamo, è sempre come fosse la prima volta. E l'importante è che queste sensazioni nuove passino tra tutti e quattro: comunicare è la cosa per noi più importante. Spontaneamente. Senza necessariamente un concetto prefissato. Così non abbiamo obbligatoriamente un disegno su Beethoven da rispettare. E i Quartetti li verifichiamo ogni volta diversi, anche se li avremo suonati in concerto dalle cinquanta alle cento volte.
Il Quartetto di Tokyo ha fatto anche delle commissioni a compositori contemporanei: nel vostro curriculum ci sono quattro pagine appositamente scritte per festeggiare i vostri primi dieci anni di quartetto.
E' stata una storia strana: avevamo contattato quattro compositori: Takemitsu, che ci ha scritto A way a done, che abbiamo registrato, ed è andato tutto bene; Machover, che ci ha presentato Quatuor, un po' in ritardo - pazienza - con scrittura un po' controcorrente, però l'abbiamo suonato. Poi avevamo chiesto un pezzo a Penderecki, che però era troppo occupato e avrebbe potuto fare qualcosa per noi, ma molto fuori dal nostro decennale, e quindi abbiamo rinunciato. E poi c'era Lees: quando ci arrivarono le parti non capivamo quasi nulla, note impossibili da prendere, non so, avrei forse dovuto suonarle con il naso. Allora chiamiamo l'autore, gli spieghiamo che certe cose sugli archi non si possono fare. E lui? Fate come potete - ci risponde cambiate pure le note. Ah no. Così non si fa. Scriva pure per il Kronos, ma non per noi.
Il Kronos? Non vi piacciono? Non fanno musica nuova?
No. Il Quartetto Arditti fa veramente musica nuova: sono fantastici, seri, grandi musicisti. La musica del Kronos è un cross-over. E poi suonano amplificati, si potrebbero discutere molte cose. Comunque, se alla gente piacciono, se li tengano. Meglio loro del rap.
Quali sono i vostri prossimi impegni?
Subito il ciclo Beethoven, in tante città. Il più stimolante è quello che proponiamo a Vienna: undici serate, divise a metà con il Quartetto Borodin, che suona l'integrale dei Quartetti di Shostakovich. Poi avremo un po' di registrazioni: Bartok e Janacek, Debussy e Ravel, poi un pezzo nuovo di Ezra Ladermann per quintetto con pianoforte, che suoneremo con Marc Neikrug, il pianista di Zukerman. E ancora dobbiamo finire il ciclo Schubert, abbiamo i Quintetti di Brahms e Weber con Stoltzman, e con Marilyn Horne registreremo Il tramonto di Respighi e altri brani di Puccini e Verdi, per voce e quartetto d'archi.
Tace la viola Kazuhide Isomura. Ascolta assorto il parlare veloce del compagno. (Tra di loro, in quartetto, la lingua ufficiale è l'inglese: è la minoranza ad averla spuntata).
Ma possibile? Siamo qui, ad intervistare un quartetto giapponese, e il Giapponese chi lo nomina? Si doveva parlare di "tempura", di "sushi" di "sukjaki", e invece ad ogni angolo qui spuntano hamburger e hot-dog. Ma insomma, il Quartetto di Tokyo non torna mai alla madre terra?
Sì, torniamo. Ogni due anni, per concerti, non per vivere. Non teniamo masterclasses. Morto Saito, è molto calato l'interesse per la musica da camera. Il modello per i giapponesi oggi è Midori. Il pubblico locale preferisce interpreti occidentali: meglio l'Alban Berg che il Tokyo. In Giappone ci vedono un po' come se da voi gli attori italiani facessero il kabuki. Purtroppo basta il nome Vienna o Berlino per entusiasmare i giapponesi! Il pubblico lì ha il complesso dell'artista occidentale. Era così anche in America, con i quartetti finché non è arrivato il Juilliard.
Ma la scuola violinistica giapponese è molto rinomata: il metodo Suzuki, per i bambini, ad esempio...
Io ho studiato con Mister Suzuki, ed è stato un buon metodo. Ma è solo una scuola di partenza, non è professionale; è un metodo che rispecchia l'idea di Doctor Suzuki, che crede che in tutti i bambini vi sia sufficiente talento per poter suonare uno strumento.
Quando i complessi italiani vanno in tournée in Giappone, tornano sempre entusiasti della preparazione musicale del pubblico giapponese: non è così?
Il pubblico giapponese è molto attento, ma il Giappone è ancora molto isolato, e non solo geograficamente. A New York le stagioni musicali passano in rassegna tutti i migliori musicisti, con scelte molto sofisticate. In Giappone le scelte sono sempre parziali: si importano artisti alla moda, con programmi quasi sempre conservatori. Cambieranno le cose? E' probabile. I giovani maestri di musica nelle scuole giapponesi hanno quasi sempre ricevuto una formazione internazionale: speriamo insegnino a guardare avanti. Ma non credo che uno studente americano o europeo verrà mai in Giappone a studiare musica.
Così, con una punta di malinconia sul futuro musicale della propria terra, si congeda Kazuhide Isomura. Una stretta di mano leggera, accompagnata da un impercettibile inchino. Peter Oundjian è già scattato impaziente, lo aspetta un viaggio, deve correre, l'orologio lo chiama. Chissà dove porterà i suoi tre compagni, sempre più lontani dal Giappone eppure con quelle custodie dei preziosi strumenti tutte tappezzate di fotografie, con tanti occhi a mandorla - bambini, giovani donne - che sorridono gentili.
Carla Moreni (Musica Viva, Anno XVII n.10-11, ottobre-novembre 1993)
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