Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, marzo 31, 2006

Il Quartetto Kronos: quattro archi senza confini

Dei quattro componenti del Kronos che pensavo di incontrare ne arriva uno solo, il leader e primo violino David Harrington, testa pensante del gruppo e a quanto riferiscono anche testa parlante, da sempre colui che traccia la rotta. Ho scoperto in seguito che sono persone molto piacevoli e disponibili, ma anche munite di una logica professionale inflessibile, secondo la quale i compiti sono rispettati, sia che si tratti di rapporti con la stampa, sia che si tratti del soundcheck rigoroso in teatro prima di ogni concerto.
Giubbotto da caccia, felpa gialla e scarpe da ginnastica ai piedi, Harrington mi viene incontro da perfetto "alternativo" in un incredibile hotel di Ferrara, dove sono affastellati in un'unica sala i lampadari a goccia di Murano, le finestre all'inglese, i tavolini in stile barocco viennese. Lo stridore del suo modo di essere, della musica di cui parliamo, dei percorsi attraverso i quali passano i loro vaticini sulla cultura del nostro tempo trovano qui una cornice assurda e coerente al tempo stesso. Il dio greco Kronos mangiò i propri figli per timore di una profezia. La nostra curiosità è sapere quale divorante impulso spinga loro invece a nutrirsi della musica dei propri fratelli, di coloro che il Kronos elegge a proprio simile.

Parliamo dei vostri inizi...
La storia del Kronos inizia nel 1973. Personalmente, già a 12 anni amavo suonare i quartetti di Beethoven, Haydn, Schubert; dai 16 in poi ho cominciato ad affrontare Bartok e la musica dei compositori che scrivevano cose nuove. Ma nel '73 mi capitò di ascoltare alla radio un pezzo di George Crumb, Black Angel, e mi imbattei nella musica più eccitante, allarmante, inquietante che avessi mai ascoltato in vita mia. Volli suonare quel pezzo. Sa, non è quel genere di musica che puoi mettere sul leggio e lasciar scorrere sotto gli occhi, è necessario l'affiatamento di un gruppo per suonarlo. Così decisi di formarne uno, passando tutto il tempo a suonare insieme, che potesse andare avanti. Ho pensato che mi sarebbe piaciuta questa vita. Ecco la storia del Kronos, dal 1973.
E dove vi siete formati?
Questo fu a Seattle, nello stato di Washington. Da allora mi sento come se non avessi mai cessato di studiare...
Eravate tutti di lì?
No, veniamo da parti differenti dell'America.
E come vi siete scelti l'un l'altro?
C'è voluto un po' di tempo per arrivare all'attuale formazione, che è del 1978. Hank Dutt, John Serba, Joan Jeanrenaud ed io ci siamo trovati a San Francisco, dove adesso viviamo.
Com'è che avete scelto la formazione cameristica più classica per suonare il repertorio meno tradizionale che si possa immaginare?
Per me, il suono di un violoncello, di una viola e di due violini è il suono che sento nel sangue, è il suono dei miei pensieri. Per la maggior parte dei compositori, se lo si chiede loro, la sfida massima è scrivere musica per quartetto, perché è un genere che adopera mezzi essenziali e allo stesso tempo esprime una grande quantità di cose. Nelle mani di un compositore di genio poi il suono è sempre differente in ogni condizione musicale. Per me è un modo anche di andare alla radici di ciascun compositore, perché il quartetto è profondamente rivelatore. Inoltre possiede anche una grande flessibilità, possiamo passare da Webern a John Zorn quasi istantaneamente. Non credo che altre forme permettano una tale flessibilità, o se ne esistono di altrettanto duttili io non le conosco.
L'aspetto più appariscente dei vostro modo di esibirvi è l'uso dei media, vale a dire luci, immagini e soprattutto l'amplificazione del suono. Qual è la vostra idea sul suono acustico naturale e su quello elettrico?
Io considero tutto quello che suoniamo di elettronico una sorta di estensione del suono di cui abbiamo bisogno oggi. Le sale utilizzate per i concerti adesso non sono fatte per il suono acustico, generalmente sono destinate a migliaia di persone, sono molto lontane dalle sale del palazzo Estherhazy del 1750. Il tipo di impatto musicale che noi realizziamo, l'amplificazione, ci permette di portare il pubblico all'interno di ciò che stiamo facendo. Anche all'interno dello stesso concerto, noi andiamo da pezzi interamente acustici ad altri notevolmente amplificati. Secondo noi è quello che dev'essere un concerto.
Ma voi usate il supporto elettrico anche con differenti intenzioni: a volte duplica ciò che state eseguendo, in altre occasioni si sovrappone dall'esterno con materiale preregistrato...
Certo, dipende dalle occasioni. Per esempio, uno dei pezzi che suoniamo molto spesso comincia con la nostra sonorità naturale, mentre al culmine della composizione si sentono migliaia di Kronos che suonano insieme allo stesso tempo. E' un pezzo composto in uno studio di registrazione con l'ausilio di computer; quando lo suoniamo dal vivo frequentemente il pubblico pensa che sia fatto per scherzo. Molti dei nostri pezzi sono nati su nastro.
Pensate di condurre ricerche anche su altri media?
Sì, penso che quello che facciamo abbia in ogni momento a che vedere con l'esplorazione della forma del concerto nel 1992, nel tentativo di capire quale sarà nel 1993. Per me la grande sfida nell'essere musicisti è scoprire come la materia della musica si integri come parte del nostro tempo, e senta di esserne coinvolta.
Pensate anche alla televisione, oltre al vostro programma radiofonico?
Sì, per l'appunto abbiamo terminato di girare un film sul nostro lavoro e dovrebbe essere mostrato, credo, nel prossimo febbraio.
Può dircene qualcosa di più?
E' in parte un video, in parte un documentario; si muove continuamente dall'uno all'altro genere, senza definirsi mai in uno preciso.
Il vostro repertorio assomiglia sempre di più a una cartina geografica, e d'altra parte voi stessi avete un atteggiamento da esploratori. Si sente un'assonanza tra i libri di Bruce Chatwin e i vostri dischi. Quali sono per voi i confini della musica?
Non avverto dei confini, concepisco la musica come una sostanza, un'entità che è libera. Noi non possiamo controllarla, è qualcosa che viene scambiato di continuo tra gli uni e gli altri. Credo che uno dei vantaggi di vivere nel nostro tempo sia la eccezionale opportunità di essere consci che esistono parti del mondo prima ignorate che stanno emergendo. Per esempio, attualmente ci sono 30 compositori che stanno scrivendo nuovi pezzi per il Kronos, più di 30 in effetti, dal Caucaso allo Zimbabwe, fino alla Cina, al Giappone, a tutta l'America e a parti dell'Europa, come l'ex Unione Sovietica. Non credo che sarebbe potuto accadere 50 anni fa. Il quartetto d'archi è una forma d'arte che ha raggiunto una dimensione globale, ma è qualcosa che è avvenuto solo in questi ultimi anni. E' diventata una forma di espressione internazionale, e il Kronos è coinvolto in tutto questo. La nostra grande responsabilità oggi, anzi lo scopo, è di approfittare delle possibilità offerte da questi linguaggi.
E con quali criteri selezionate i nuovi lavori?
Del tutto per istinto, scegliamo quello che sentiamo come giusto, non potrei definirlo altrimenti. Cerchiamo molte occasioni, specie se qualcuno sembri sentire un'urgenza, sembri essere sul terreno giusto per scrivere un capolavoro. Questo mi interessa molto personalmente: voglio che i giovani compositori, quelli che sono pronti per scrivere il loro primo grande pezzo, lo compongano per il Kronos. E' il caso anche di persone come Sofia Gubaidulina, che in questo momento sta scrivendo un nuovo lavoro per noi. Sento che sta attraversando un magnifico momento nel suo lavoro, ora è il tempo per il quartetto giusto. Lo stesso per Gorecki, un polacco, e molti altri compositori.
Di quale parte del mondo sono i compositori che ritenete di maggior rilievo attualmente?
Non credo si possa dire con precisione. Ho fiducia soprattutto nelle singole persone, dovunque stiano. Ce ne sono di molto interessanti dappertutto. Nella ex Unione Sovietica sta crescendo una generazione di musicisti meravigliosi, come il compositore azerbaigiano Franghiz Ali-Zadeh, al quale abbiamo commissionato un brano.
Non sembrate avere lo stesso interesse verso la musica americana più originale, la musica dei neri, fatti salvi episodi come Jimi Hendrix.
Sinceramente non penso che sia vero. Abbiamo in mente molte idee, che lei potrà notare nel nostro prossimo album. Stiamo vagliando molte possibilità. Ci sono un sacco di cose che si possono fare, e che noi vogliamo intraprendere. Spero che ci sia tempo per tutto quanto.
Per molto tempo la domanda centrale per l'avanguardia artistica è stata: che cos'è il linguaggio? Per voi invece la domanda sembra essere: quanti sono i linguaggi esistenti? Questo implica una radicale scelta di semplicità contro la complessità precedente.
E' un grosso problema. Tempo fa ho sentito dire che, prima dell'arrivo di Colombo, solo nel Nord America si parlavano un migliaio di lingue. Adesso molto poche, circa un centinaio. Io trovo davvero che la diversità nell'espressione sia incantevole, per me è indubbiamente del massimo interesse. Io rispondo alla musica in primo luogo in quanto ascoltatore: né come commentatore, e neppure come esecutore. Prima di tutto è l'orecchio che mi guida, che mi dice se la musica sta andando nella direzione giusta o no. Per combinazione, la musica africana per quartetto è cominciata nel 1984 proprio a Darmstadt, quando il Kronos ha suonato Kevin Volans. Lì sono accadute molte cose di cui non si sa quasi nulla, fatti che hanno più a vedere con l'intuizione che coi libri.
La maggior parte dei vostro repertorio è costituita da musica contemporanea, nel senso pieno del termine. A volte però includete anche autori ormai classici, come Webern o Shostakovic. Che significato hanno le parole passato e tradizione per voi?
L'altro giorno stavo ascoltando un gruppo australiano, chiamato Yothu Yindi, molto interessante. Il cantante leader del gruppo sostiene che le liriche delle loro canzoni sono vecchie di 80.000 anni. La sua idea di classico è in uno schema temporale assai diverso dal nostro per cui classico significa magari 250 anni. Non sono per niente convinto in effetti del nostro concetto di classico. La musica per quartetto è cominciata 250 anni fa più o meno con Haydn, e credo che il nostro lavoro sia connesso in qualche modo a quella fioritura musicale, specialmente a Vienna in quell'epoca. Ma non mi ci sento particolarmente legato, condannato dallo scorrere del tempo. Così di frequente mi accorgo che il mio lavoro è ispirato da musica assai più antica della musica classica del diciottesimo e diciannovesimo secolo.
Avverto però altrettanto frequentemente che il nostro stesso lavoro si potrebbe definire visionario per quanto riguarda il futuro. Molti pezzi interpretati dal Kronos hanno avuto un'influenza su altri compositori.
Tornando all'aspetto teatrale delle vostre esecuzioni, come si è definito il vostro stile sul palcoscenico?
Per molto tempo sono stato convinto che mostrarsi in un concerto con quattro seggiole e una lampadina fosse bello, ma credo che qualche volta ci sia di più che questo per rendere tutte le potenzialità implicite nella musica che suoniamo. Nella forma di un concerto, in ciò che il pubblico può vivere come esperienza, è possibile mettere più pensiero. Abbiamo solo provato a cambiare il nostro punto di vista nel corso degli anni, abbiamo immaginato qualche tipo di situazione particolarmente interessante.
Qual è la differenza tra l'esecuzione dal vivo e quella in sala di registrazione per voi?
Sono momenti totalmente diversi, per me. Possono essere messe in relazione per quel che riguarda il particolare suono del Kronos, ma restano esperienze profondamente diverse. Lo scopo che ho in mente nelle registrazioni è quello dell'uso domestico che ne verrà fatto, nell'intimità della propria casa, o con gli amici, nella vasca da bagno, cucinando o facendo l'amore, nella manipolazione che ciascuno può compiere. Ciò è diverso che andare a un pubblico concerto, dove le aspettative sono totalmente altre. Nelle nostre registrazioni alcuni elementi sono un'estensione di quello che possiamo, vale a dire ciò che non possiamo, fare in un concerto. In qualche modo la registrazione rappresenta la nostra esecuzione ideale.
Ma le vostre esecuzioni richiedono tuttavia un certo apparato tecnico. Non è un condizionamento della libertà espressiva, per esempio per quanto riguarda la scelta dei tempi o delle sonorità?
No, quando siamo sul palcoscenico la nostra concentrazione è dedicata a far musica insieme. In questo abbiamo collezionato molti anni di esperienza e consuetudine comune. Non ci sono scorciatoie, se non l'abitudine accumulata in quindici anni, con centinaia di pubblici e centinaia di compositori.
Ma questo vale anche quando suonate pezzi con nastri pre-registrati?
Dipende dai casi. In pezzi particolari, come Different Trains di Steve Reich per esempio, mentre lo si esegue, noi come chiunque altro lo suoni, c'è il Kronos in tre dei quattro quartetti preregistrati. Fummo noi a incidere il nastro, si parla di molto tempo addietro. Nell'esecuzione, pensiamo di rivivere un'esperienza per il pubblico su quel lavoro, su quel particolare senso delle cose. Noi pensiamo a che l'intero evento musicale sia messo insieme. Possiede tuttavia un suono particolare in ciascuna sala e presso ciascun pubblico, non rimane mai lo stesso.
Lei sa che Steve Reich ha criticato la vostra esecuzione di Different Trains, suppongo...
Presumo che l'abbia fatto, ma ci ha anche chiesto di registrare il prossimo quartetto, che ha scritto per il Kronos. Mi piacerebbe anche poter criticare la sua esecuzione di Different Trains. (Si ferma un attimo, getta uno sguardo luciferino, la bocca disegna un sorrisetto). Tra di noi c'è un'interessante relazione.

Oreste Bossini (Musica Viva, Anno XVII n.1, gennaio 1993)

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