Il nuovo disco del Kronos Quartet è un'antologia di pezzi brevi, short stories appunto, una macedonia di umori e di spirituali lontananze in agrodolce rapporto fra loro, che solo la consumata sensibilità del quartetto americano di riconoscere la border-line della creazione riesce a giustificare. Gli spiriti che albergano nei racconti sono buoni e cattivi. Cominciamo da quelli cattivi che infestano il brano più impressionante, Spectre di John Oswald. Si tratta di un lungo crescendo su note tenute, simile a quello sul si naturale del Wozzeck di Berg, a cui man mano si sovrappongono centinaia di elaborazioni del computer, fino a un climax nel quale siamo trapassati dal vento gelido della follia e delle forze del Male. Oswald è un canadese quarantenne che da vent'anni sta chiuso dentro alle sue sperimentazioni bizzarre e inquietanti, ma estremamente suggestive.
Un altro mattacchione, ma piu alla Benigni, è John Zorn, che scatena i suoi folletti in Cat O'Nine Tails a dar pizzicotti e a sbeffeggiare Beethoven e Paganini, ma soprattutto chi li prende troppo sul serio.
Poi ci sono gli spiriti africani che pregiedono il delizioso brano d'apertura, Digital di Elliott Sharp, tutto tamburellato con le dita e col legno, con quel suono trasparente che hanno le percussioni dei Masai.
Fantasmi a stelle e strisce vagano nella musica di Steven Mackey, un compositore di cui sentiremo ancora parlare. Mescola al suono di quartetto la chitarra elettrica, impugnata da lui stesso, con un'apertura degna di Alvin Lee o Jimmi Page, per poi gettarsi in un dialogo ritmico col Kronos montato con la furia di uno spot pubblicitario. Altro omaggio di Mackey alla cultura del blue è l'arrangiamento della celebre Spoonful di Willie Dixon. Altre lontananze, altre voci si odono nel Quartetto n.2 di Sofia Gubaidulina, il cui canto di terracotta si espande da un centro immobile e silenzioso, un grembo antichissimo il cui sesso genera in modo misterioso. Gli spiriti buoni infine sono nella musica santa di Pandit Pran Nath, che canta in Brijbashi la sua preghiera a Dio con la confidenza di chi gli sta vicino, e in Soliloquy di Scott Johnson, che monta in modo intelligente un brano di un discorso radiofonico di I.F. Storie, uno di quei santoni laici che dai tempi di Thoreau e di Emerson ricrescono periodicamente negli Usa.
Per ultimo il vero ghost writer di questo disco, Henry Cowell, colui che disse "Voglio vivere nell'intero mondo della musica", californiano come il Kronos Quartet, che negli anni Venti inventava i clusters e sperimentava il serialismo con l'ingenua intuizione dell'autodidatta; la storia più breve è la sua, Quartet Euphometric, neanche due minuti, ma è come se da lì partissero tutte le storie: "C'era una volta un ragazzo a cui piaceva tutto quello che suonava nuovo e originale..."
Un altro mattacchione, ma piu alla Benigni, è John Zorn, che scatena i suoi folletti in Cat O'Nine Tails a dar pizzicotti e a sbeffeggiare Beethoven e Paganini, ma soprattutto chi li prende troppo sul serio.
Poi ci sono gli spiriti africani che pregiedono il delizioso brano d'apertura, Digital di Elliott Sharp, tutto tamburellato con le dita e col legno, con quel suono trasparente che hanno le percussioni dei Masai.
Fantasmi a stelle e strisce vagano nella musica di Steven Mackey, un compositore di cui sentiremo ancora parlare. Mescola al suono di quartetto la chitarra elettrica, impugnata da lui stesso, con un'apertura degna di Alvin Lee o Jimmi Page, per poi gettarsi in un dialogo ritmico col Kronos montato con la furia di uno spot pubblicitario. Altro omaggio di Mackey alla cultura del blue è l'arrangiamento della celebre Spoonful di Willie Dixon. Altre lontananze, altre voci si odono nel Quartetto n.2 di Sofia Gubaidulina, il cui canto di terracotta si espande da un centro immobile e silenzioso, un grembo antichissimo il cui sesso genera in modo misterioso. Gli spiriti buoni infine sono nella musica santa di Pandit Pran Nath, che canta in Brijbashi la sua preghiera a Dio con la confidenza di chi gli sta vicino, e in Soliloquy di Scott Johnson, che monta in modo intelligente un brano di un discorso radiofonico di I.F. Storie, uno di quei santoni laici che dai tempi di Thoreau e di Emerson ricrescono periodicamente negli Usa.
Per ultimo il vero ghost writer di questo disco, Henry Cowell, colui che disse "Voglio vivere nell'intero mondo della musica", californiano come il Kronos Quartet, che negli anni Venti inventava i clusters e sperimentava il serialismo con l'ingenua intuizione dell'autodidatta; la storia più breve è la sua, Quartet Euphometric, neanche due minuti, ma è come se da lì partissero tutte le storie: "C'era una volta un ragazzo a cui piaceva tutto quello che suonava nuovo e originale..."
Oreste Bossini (Musica Viva, Anno XVII n.7/8, luglio/agosto 1993)
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