Il 5 gennaio alle 5 l'organista di Halberstadt, in Germania, ha suonato un nuovo accordo. Poi ha agganciato dei sacchetti di sabbia per tenere premuti i tasti, si è inchinato al gentile pubblico ed è andato via, fino a maggio non ha più niente da fare. L'accordo che ora rimbomba nella chiesetta tedesca, «fa diesis-do-la», è appena il terzo dall'inizio del concerto: e l'inizio del concerto è stato il 5 settembre 2001, mentre la fine è prevista per il 2640. Sempre che nessuno chieda il bis. Forse gesto geniale forse capriccio di un'arte ormai sfibrata, l'esecuzione lunga oltre sei secoli di una partitura per organo di John Cage ha il merito di dilatare, oltre alla durata delle note, anche le possibili riflessioni sul tempo e sulla mortalità. Non soltanto umana: l'opera già sopravvive al suo autore, morto nel 1992, e, cosa ben più originale, rischia di seppellire anche lo strumento sul quale viene eseguita. Chissà se l'organo di Halberstadt resisterà fino al 2640, o cadrà in pezzi prima.
Ma perché proprio Halbqrstadt e perché fino al 2640, quale cabala c'è dietro questa sfida tanto stravagante quanto affascinante - un po' come lanciare nello spazio un messaggio che sarà letto fra un fantastilione di anni in una galassia sconosciuta? John Cage scrisse un pezzo per pianoforte della durata di venti minuti, poi lo trascrisse pei organo con l'indicazione "ASLSP", As slow as possibile: il più lentamente possibile. Ma quanto lento è "lento"? Un apposito congresso di musicisti e teologi decise che la migliore approssimazione all'infinito era il 2640, per una complessa simmetria con il 1361: cioè con l'anno in cui, appunto a Halberstadt, fu inventato il famoso Blockwerk organ dal quale derivano tutte le tastiere, e nacque così la musica moderna. Nel frattempo, mentre i teorici discutono e l'organo attende il prossimo cambio di tonalità, chiunque può acquistare un pezzetto di immortalità: per mille euro, può porre una targa marmorea con il suo nome nella chiesetta. E sperare a sua volta, se crede, in un bis.
Giovanna Zucconi (La Stampa, sabato 14 gennaio 2006)
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