"Ti dò il mio numero nuovo", dice Roberto Gini. "Forse tu hai il vecchio, ma tu sai". Non so, ma annuisco. "Al vecchio", dice, "c'è ancora una segreteria telefonica, che sento. Poi c'è quello di Cremona, non è proprio un telefono, cioè non è proprio il mio, ma in questo periodo là sanno dove sono e se son libero, perché Monteverdi mi prende molto, coi ragazzi. Quello della Scuola Civica ce l'hai? Mi riferiscono. Non mi interrompono, naturalmente, perché devo tenere le lezioni, e mi chiamano soltanto per le cose urgenti, e non sempre rispondo. Mi raccomando, chiamami".
Lo chiamo, ma alla Scuola Civica dicono che è a Cremona, spiego che è per quella serie di concerti di cui deve dare risposta immediata, come qualcuno ha già lasciato detto più volte. Niente. Gli faccio dire che l'aspetta il pagamento d'un arretrato. Niente. Allora m'arrabbio, alzo il telefono ed al numero della segreteria lascio detto al telefono vecchio: "Pronto. Ma è davvero così bello il Miserere di Jommelli?". Dieci minuti dopo squilla il mio telefono. Nemmeno un "Pronto". "Bellissimo, bellissimo. Se hai anche solo un'ora oggi vengo a Milano a fartelo sentire al pianoforte".
Da quale regione della storia o della fantasia sarà sbucato Roberto Gini, mezzo folletto e mezzo gentiluomo barocco? Anzi, tutt'e due le cose per intero. Tutti, nel mondo della musica, l'avevano già visto e già sentito, senza riuscire a ricordare come e quando la prima volta, e da dove venisse.
Era apparso alla viola da gamba, dentro ai complessi antichi; non come uno che esca da un tragitto organizzato e regolare, ma piuttosto come quei batteristi e tastieristi che, quando si mettono in proprio, sono già facce note perché avevano animato i migliori gruppi rock.
Del rock lui non ha molto, da vedere: magro, scattante, naso antico, barbetta alla Monteverdi giovane; se scrive, la calligrafia pare arrivare da un prezioso incunabolo; se parla, può mettersi a teorizzare all'improvviso così compiutamente sulla musica barocca da spingere a chiedersi se non stia per caso citando un famoso trattato secentesco. Ma le parole arcaiche entrano in mezzo a quelle d'oggi, e le idee d'oggi a quelle antiche come il dialetto dentro alla lingua, per uno che abbia nella sua terra le radici ancor vive.
"Non mi sono mai chiesto" spiega, "se dovevo dedicarmi alla musica barocca. L'ho ascoltata, m'ha entusiasmato. Ci sono capitato dentro, era mia. Basta. Amo tutta la musica. Ma ancora non son sazio di cercare, di trovare, di ascoltare le meraviglie della musica da Mozart a Monteverdi" (dice proprio così, va all'indietro) "da Rossini a... perché sai forse bisognerebbe partire da Rossini, che è il punto d'arrivo. Si capisce benissimo Rossini, se si va a recuperare tutta la scuola di canto da Hasse a Vivaldi... Poi c'è tutta la civiltà strumentale. Guarda i colpi d'arco del primo Settecento: lá forse si può cominciare a tenere la tradizione senza bisogno di scegliere gli strumenti d'epoca". No, Gini, non deviare, stavi parlando di te. "Perché è lì che ho capito. Suonavo il violoncello, ero allievo di Attilio Ranzato; sapevo che un violoncello ad esempio non poteva bastarci per capire, poniamo, le Sonate di Bach per Viola da Gamba e Cembalo Obbligato". (Bisogna mettere le maiuscole, perché sembra di vederle, mentre cita il frontespizio). "Sai perché? Non tanto per una questione di possibilità strumentali, come certi disegni, certi accenti, certa intensità. Ma perché il suono d'uno strumento ha dentro a sé la civiltà della sua epoca. Si può suonare Bach, invece che sul clavicordo, sulla tastiera elettronica; ma sapendo che c'è un passaggio, una sosta intermedia. Anche la viola da gamba non risuona al nostro orecchio come una volta, e quindi non possiamo dire di ascoltare quello che faceva ascoltare Bach ai suoi amici. Ma non è importante. Ho studiato con Jordi Savall, con Harnoncourt. Ho capito, ho saputo, ho sentito, che la viola da gamba però, come accade con tutti gli strumenti di quella che chiamiamo discutibilmente 'musica antica' non altera i valori estetici per cui quei pezzi sono stati pensati. Nell'equilibrio fra sonorità e scrittura sta la ricerca di Bach, ad esempio, che non è solo strutturale, ma anche timbrica, coloristica, quando indica lo strumento. Io vivo un po' (ride) da disgraziato, trascinato da entusiasmi epassioni, e anche da contraddizioni; ma il piacere, il piacere della musica, del suono, dell'armonia, del contrappunto, è un valore importante, rinnovatore. Come si fa a chiamare 'musica antica' quello che viviamo quando suoniamo, cantiamo, ascoltiamo Vivaldi o Monteverdi, e pensare di chiuderla in una serie di norme stabilite allora una volta per sempre? Che invece è un fondamento morale, di libertà?"
Ha inciso molti dischi, Gini, ormai. Quelle Sonate di Bach, per esempio, con la fedele collaboratrice Laura Alvini, una delle figure più ostinatamente intelligenti e capaci di quella che non bisognerà più chiamare 'musica antica'. Con lei al clavicembalo l'esecuzione sembra una meditazione e insieme un'improvvisazione. Le cantate di Vivaldi, invece, con due cantanti giovani, il soprano Alessandra Ruffini ed il contralto Caterina Calvi. Per lo Stabat Mater di Vivaldi, il libretto di note riporta un'immagine della Crocifissione tratta dal Vangelo secondo Matteo di Pasolini. Perché, maestro Gini? Forse perché vuol tendere un parallelo fra questa partitura ed il cinema? "Semplicemente perché ogni volta che la vedo mi trattengo a stento dal piangere. Quello per me è lo Stabat Mater".
Ma i suoi dischi non gli piacciono. Alla Tactus, con Gini che incide per loro devono alternare legittime soddisfazioni e periodi di coccolone. Ha tutta una serie di Monteverdi, che vengono considerati da tutti eccellenti o almeno interessanti. A volte non gli piacciono: "Hai i miei dischi? Per piacere, li butti via?", a volte addirittura non sa più dove li abbia messi o se li abbia a casa sua: "Per favore, avresti il mio Cd col Combattimento di Tancredi e Clorinda? Me lo potresti prestare, che devo controllare una cosa?" Qualche ragione ce l'ha. Da quando ha una sua scuola, corsi in Italia e all'estero, stages di perfezionamento o di rapidi choc rivelatori, ha radicalizzato il lavoro sulle partiture, a cominciare proprio da Monteverdi; e i dischi rispondono al "Gini vecchio", come chiama lui le incisioni dell'altroieri.
Radicalizzare, però, non vuol dire qualche cosa di astratto e filologico. Vuol dire un'altra cosa. Cioè che ha cominciato il lavoro da capo, con i ragazzi; e li ha convinti giorno per giorno che Monteverdi è la cosa più naturale del mondo, pur nell'artificio dell'arte e la provenienza da lontano nel tempo. Stile di canto? Tecnica? Sì. Però, prima di tutto, un gesto di pensiero.
"Quando ho cominciato a fare le audizioni per il gruppo monteverdiano all'As.Li.Co, sembrava che Monteverdi fosse solo il titolare d'un centenario di non si sa quanti secoli. Importante, ma estraneo, una cosa dentro la storia della musica. Anche i ragazzi, alle audizioni, non avevano idea di come lo si cantasse, ed è abbastanza logico, dovevano mostrare soprattutto le loro qualità vocali. C'era di tutto, soprattutto casalinghi, cioè quelli che cantavano alla buona, come per dire che qui non è Verdi e nemmeno Mozart e ognuno s'arrangia come a casa sua. Poi c'era il livello presuntuoso. Canto e faccio delle finezze che se non capisci che sono finezze barocche è perché non hai ascoltato gli ultimi dischi. Poi c'erano le interpretazioni con l'enfasi o l'effetto sfumato per coprire i difetti, e questi sono i primi che ho scartato perché chi copre i difetti non viene per lavorare. Le voci femminili avevano i modelli più disparati, c'erano alcune Fedora Barbieri e alcune Ornella Vanoni. Perucchetti, Majer, Rovaris, Allorto e Cristina Miatello si sono trovati concordi fra loro e con me nello scegliere voci duttili e persone disponibili all'avventura del canto e della musica. Perché man mano che lavoriamo accade questo, che non ci abbandona mai la musica. Stranamente, mentre nelle classi di canto tante volte prevale l'ugola e il diaframma, l'andare a tempo e il ripetere quello che il disco o alla meglio il maestro vuole, questi monteverdiani invece si appassionano continuamente al far musica. Continuano a cercare le ragioni. Continuano, se posso dirlo, nei limiti umani e senza troppe illusioni, ad essere felici di cantare e progredire nel capire, nel gustare. Naturalmente, Monteverdi risponde da par suo".
Ma il metodo qual era?
"Mah,il metodo. Parte dell'analisi della musica. Diamo per scontato che si tratti di voci tutte d'una certa estensione naturale e che siano disposte a lavorare sull'emissione graduata, sull'alleggerimento e sull'accento. Diamo anche per realtà da accettare che Monteverdi non ha mai scritto un trattato di canto, non ci sono indicazioni tecniche; però ci sono tante indicazioni che riguardano i campi più svariati, paralleli al canto, e bisogna investigarle tutte, ascoltare tutto ciò che ne esce pensando al canto".
Sì ma niente Verdi, niente Mozart, niente musica leggera d'oggi, niente storia del Lied tedesco o della canzone francese. Che cosa diamine bisognerà trovare?
"Una scommessa. Nulla che si conosce; una cosa nuova. Un fascino, un colore, un'espressione nuova, in cui però si ritrova un po' di Mozart, un po' di musica leggera, un po' di Haendel, un po' di tradizione popolare, un po' di antico... Ma bisogna cercare dentro le forme, anzi dentro le composizioni. Se lo si prende come genere storico, da celebrare, è finita. Sono poesie, poesie bellissime. Chi le dice, non può non pensare a tutto ciò che esprimono. Anche nel gesto, non perchè esista una gestualità stabilita, o perché, se è esistita, ci sia possibile recuperarla, ma perché ognuno deve essere nelle condizioni in cui partecipa, moralmente e fisicamente, a quello che dice, magari a modo suo. Certo, le poesie sono messe in musica, non solo cantate. La declamazione, che diventa melodia, anche quand'è per una voce sola, deve fare i conti con il basso continuo. Ed il basso continuo è il fondamento dell'armonia ed il fondamento della melodia; è servo del canto e da servo ne diventa padrone, perché porta la dinamica, il colore, aiuta il respiro e lo impone, e crea dissonanze che possono essere scritte e non scritte, e dev'essere tanto logico e concorde con chi canta, da poter essere improvvisato, sul fondamento delle note del basso. Non è un accompagnamento, accompagnare è un'altra cosa. Quando ci sono, poi, varie voci: ah, allora, sono storie contemporanee, ognuno dice il testo con la sua voce, con la sua espressione, credendoci, e deve ricevere la sua libertà proprio dall'esattezza del gioco a cui è costretto e dalla presenza vocale, musicale, fisica, degli altri. Per uno come Monteverdi, è chiaro che la cosa non è senza conseguenze. Dal madrigale nasce il teatro. Il teatro è qui. I madrigalisti diventano i personaggi d'un microcosmo che in palcoscenico diventerà immenso. E' questo che fa la scuola di canto, tutto questo. Niente escluso. Anzi, che fa la bottega di canto".
"Bottega", dice Gini, "è il piacere di creare insieme. Monteverdi per l'opera aveva una bottega. Come Rembrandt, come i pittori rinascimentali. Il bello dell'Incoronazione di Poppea è proprio che è di tanti, con sovrintendenza di Monteverdi. Con intelligenza, controllo, idee di Monteverdi, ma con tale libertà ciascuno che adesso ormai li cominciamo a riconoscere. Si sentono i grandi talenti, sceglieva bene. Sagrati, Cavalli. La parte di Pallade è di Benedetto Ferrari: è il primo che scrive le appoggiature, è come se fosse firmata. Anche Busenello era nella bottega, Monteverdi lo seguiva passo a passo: come Mozart con Da Ponte, e di fatti gli scritti per il Maestro sono superiori ad ogni altro, nella Poppea ogni frase è un universo di sapienza. Busenello faceva parte anche d'un circolo abbastanza licenzioso, dove si accettava la trasgressione, dove non si condannava l'omosessualità, dove si parlava liberamente. Monteverdi aveva preso gli ordini religiosi: lo dicon prete, ma non risulta che abbia detto Messa. Però credeva profondamente, non era stato un gesto di comodo: d'altra parte tutta la vita Monteverdi ebbe fama di persona intensa, coerente. Era alchimista, deteneva cioè una visione dell'universo che poteva essere in forte contrasto con la scelta razionalista e occidentalista della gerarchia cattolica. Molta parte del suo sapere era esagerata. Aveva un pessimo carattere: cercava, cercava, cercava, sperimentava: una ricerca forsennata, esigentissima. Però accettava, la natura e gli altri. Per questo la bottega era tensione e libertà, la nostra piccola bottega è una piccola cosa, ma sentiamo l'ombra d'un modo di lavorare così alto e importante. Il piacere dell'inventare insieme, per noi quello di capire, di proporsi, di far musica tirando dietro la poesia, anzi di fare la poesia e la musica tirando dentro noi stessi. Ah, e poi il Teatro. Insomma, tutto".
"Sapeva tutto, Monteverdi. Ci pigliava gusto. Seneca, il filosofo, serio, onestissimo, di grande peso morale, martire per la virtù. I soldati non si fidano di lui, lo prendono male. Il valletto lo prende in giro. Quando fa il discorso del suicidio per virtù, tutti sembra che guardino l'orologio, mi scusi ma ho un appuntamento, il mio treno parte tra venti minuti, lui continua le sue frasi che vanno a finire sempre più in basso nello stesso punto. Poppea incastra Nerone passo a passo, vi par possibile che lui non capisca? Sì, pare possibile, perché è l'uomo che è bestia. La seduzione, l'accortezza, lei. E poi quel duettone finale, la passione accettata così com'è. Il realismo tragico, e insieme il non rinunciare a provare la gioia del teatro e della musica mentre se ne prende atto, magari amaramente".
Perché parli tanto di Monteverdi?
"Perché amo vivere oggi".
Ma da dov'è saltato fuori, Roberto Gini, mezzo filosofo e mezzo Puro Folle della musica? Ero a Cremona, in maggio, e abbiamo improvvisato per Telepiùtre uno speciale su Monteverdi. In palcoscenico, al Teatro Ponchielli, con alle spalle le luci del teatro, per presentare mi sono sentito troppo solo: c'era bisogno d'incontrare qualcuno, personaggi monteverdiani... Con Gini si doveva fare un servizio sulla scuola e sui madrigali a più voci, nel ridotto. Son salito nell'aula dove faceva lezione, ho chiesto se c'era qualcuno che potesse cantare la prima parte del Lamento d'Arianna. Lo conoscevano un po' tutte le allieve, fu scelta quella che aveva la voce impostata nel modo più vicino a quelle frasi (magnifica). Dissi a Gini: vieni giù anche tu con la viola da gamba. Per favore, lo pregai, usciamo da un filmato, c'è bisogno d'uno stacco, mi puoi fare il sottofondo mentre dico qualche parole di presentazione? Annuì, avrebbe improvvisato anche quello. Un fonico mi chiese: quanti minuti di parlato? Uno e mezzo, risposi. Allora, finalmente, Gini si fece sentire. "Se poteste fare qualche secondo meno, preferirei; perché in un minuto e mezzo ho paura che mi venga un po' troppo vicina allo stile francese". La stessa logica del giorno di Jommelli.
Quel giorno, in ogni caso, al pomeriggio è arrivato davvero, con la sua valigetta di partiture zeppa di inediti e di brani sconosciuti. Alla viola ed al cembalo, Gini è un raffinato degustatore ed un trascinatore spericolato. Al pianoforte, con davanti una partitura, arraffa e afferra accordi, canta e canticchia, tace e volta le pagine, dice, commenta, suona e dirige senza porsi la domanda, mai, di cosa ne risulti. Mi chiedevo difatti, alla fine, se per caso il dubbio gli fosse venuto, dopo tanto artificio che richiede un ascolto coordinato da antenne profetiche. E volevo rassicurarlo. Così, l'ho chiamato. Alla Civica, ma era uscito da poco. A Cremona, ma arrivava l'indomani. A casa, ma figurarsi se c'era. Allora ho fatto il vecchio numero, quello del 'ma tu sai'; ma doveva essersi dimenticato di mettere la segreteria. Non l'ho più richiamato. Sarebbe stato in ogni modo molto difficile. Perché adesso ascoltando non vogliamo più cascarci con emozioni e commozioni. Parliamo di parametri e stilemi, arriviamo ad ipotizzare un tasso d'emozione. Poi ci resta da esprimere davvero quel che abbiamo provato, e a volte lo proviamo addirittura in ritardo, quando ormai sono ridicole le dichiarazioni. Non c'è ancora, la bottega dell'ascolto.
Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XVII n.6, giugno 1993)
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