Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, luglio 01, 2006

Hans Werner Henze: scrivo per un pubblico ideale, il mio

Da "traditore dell'avanguardia"a protagonista del panorama internazionale: mezzo secolo di presenza musicale per Hans Werner Henze.

"Ho composto Lo sdegno del mare pensando a Schönberg, come se l'avesse scritta lui, ma prima di diventare seriale". Non è un pensiero un po' provocatorio per un compositore d'oggi? Si può partire da questa affermazione per avvicinarsi a Hans Werner Henze, al suo mondo di compositore anomalo, isolato ma di successo (come sostengono i suoi detrattori); è uno dei pochi musicisti d'avanguardia che con le proprie partiture ha anche cavato vantaggi concreti: la villa di Marino, la generosità con cui rattoppa i bilanci del Cantiere Internazionale d'Arte di Montepulciano - che lui definisce "la mia Decima Sinfonia", facendo riferimento all'impegno didattico-artistico che vi impiega - sono testimonianze attendibili. Da quarantacinque anni in prima fila nei fatti della nuova musica, il sessantacinquenne Henze rappresenta il compositore tedesco di punta del Dopoguerra, compagno di cordata e simultaneamente antipodo di Stockhausen.
Passato attraverso le esperienze del nazismo e della guerra, docente ai corsi estivi di Darmstadt, quindi polemicamente dissociatosi, definito di volta in volta reazionario o marxista mentre andava costruendo uno stile musicale autonomo, polisintattico e comunque sganciato dall'ortodossia postweberniana, Henze ha percorso tutte le strade del musicista impegnato e dell'uomo di cultura che intende la pratica musicale come un tutt'uno con la testimonianza della propria umanità e del proprio talento artistico. Da quarant'anni residente in Italia, Henze ha progressivamente slanciato la sua attività di autore e di animatore musicale in direzioni diverse: direttore artistico di Festival (la Biennale di Nuova Musica a Monaco, il "Cantiere" di Montepulciano, che ha ripreso in mano due anni fa dopo averlo fondato nel 1976 con l'ambizioso proposito di creare un'originale forma di intercomunicazione cosmopolita tra giovani artisti e abitanti del luogo), docente di corsi di perfezionamento in tutto il mondo, autore di numerosi saggi musicologici, studioso e strumentatore di musiche antiche (in particolare italiane, con Monteverdi in prima fila: il "suo" Ritorno di Ulisse in patria è stato rappresentato nel 1985 al Festival di Salisburgo, quindi a Firenze), regista e direttore d'orchestra. Ma soprattutto compositore onnivoro rapito dal teatro musicale. Lo sdegno del mare è il più recente titolo; non l'ultimo, che Henze continua a riconoscere all'opera un ruolo determinante negli interessi della creazione artistica moderna, del suo percorso compositivo iniziato in questo ambito nel 1948 con Das Wundertheater ("opera in un atto per attori da un Intermezzo di Miguel Cervantes", che nel 1964 venne ripensata con l'aggiunta di cantanti) e passato attraverso lavori di significativa collocazione che l'hanno portato a lavorare con letterati e teatranti di grande rilievo: da Winston H. Auden a Luchino Visconti, da Edward Bond a Rudolf Nureiev, da Renzo Vespignani a Ingeborg Bachmann e Heinz von Kramer...

Con Henze torniamo a riflettere sull'affermazione d'avvio: come giudicarla? Una negazione dell'esperienza dodecafonica schoenberghiana simmetrica a quella sostenuta da Pierre Boulez col celebre intervento Schönberg è morto?
"Senza dubbio Schönberg è il compositore che ha portato più avanti il discorso sul cromatismo, radicalizzando il linguaggio di Wagner. Lo ha portato in un'atmosfera nuova, quella della Vienna fine secolo, ponendolo sotto un'influenza filosofica, letteraria e artistica che aveva molte parentele con lo Jugendstil viennese e con tutte le idee nuove nate in quel periodo".
D'accordo, ma lei distingue tra le due stagioni di Schönberg.
In effetti, nel lavoro preparatorio allo Sdegno del mare ho tenuto come modello i Fünf Stücke für Orchester, la Klangfarbenmelodie, nonché Erwartung e Die Hand, le due opere teatrali pre-seriali. Mi pare di vedere in queste musiche un'apertura autentica, un contenuto che fa riferimento a una cultura nuova, moderna, nella quale questa musica - che forse riflette anche le spinte estetiche dell'espressionismo - ha trovato forme, modi e espressioni molto adatti, genuini, originali e personali".
Quale validità riconosce oggi all'esperienza di Schönberg?
"La grande libertà creativa: è stato l'ultimo autore capace di agire con tale ampiezza linguistica".
Sempre prima della dodecafonia.
"Quella libertà è andata in parte ridimensionata dal serialismo. Il taglio netto con il passato ha anche influenzato il modo di usare il suono dell'orchestra - diventato rigido, meno interessato all'espressività dei colori strumentali e del discorso armonico. Quelle regole contrappuntistiche avevano anche un che di anacronistico: nella sistematizzazione seriale del materiale, dei dodici suoni, l'autore ha dovuto ricorrere alle forme della musica barocca: mi è sempre parso scomodo e poco inventivo questo irrigidimento strutturale".
Richiamarsi alle forme classiche e preclassiche è atteggiamento ricorrente in tutti i musicisti europei, in una fase sperimentale della propria evoluzione: pensiamo all'ultimo Beethoven...
"Certamente. Nel momento del maggiore slancio in avanti si sente la necessità di agganciarsi alla storia: è un processo che si registra nell'arte figurativa, in letteratura, in tutte le manifestazioni creative. Nel caso di Schönberg non intendevo evidentemente dare un giudizio di merito: parlavo soltanto di un mio rapporto personale con la sua musica".
Tra l'altro sulle forme del passato lei ha fondato buona parte del suo linguaggio attuale.
"Io ho sempre fatto ricorsi, seppure non sempre alle stesse epoche. Il rapporto con la storia serve a rinforzare i propri mezzi, a metterli a paragone; tiene conto di mutati bisogni tecnici e creativi, cerca di trovare rapporti interni strutturali tra la scrittura moderna e equilibri antichi. Ecco perché mi servo di forme tradizionali: mi sembrano più adatte a racchiudere il nuovo. Se voglio dire qualcosa di insolito devo usare metafore, segni conosciuti ma che appaiono in un contesto diverso e inaspettato, oppure contenuti originali in un contesto 'tradizionale'. Credo che in questo modo l'ascoltatore sia messo in grado di captare meglio i segnali che gli arrivano, di avvertire la differenza tra il nuovo pezzo e un'altra cosa".
E l'interesse per Monteverdi?
"Non è un processo unidirezionale, verso un solo autore. Certo la musica di Monteverdi ha rappresentato un confronto costante da una decina d'anni a questa parte".
Il tutto è iniziato con il Ritorno di Ulisse?
"In pratica, sì. Ma da anni avevo affrontato il problema della trascrizione, e in quell'occasione mi ha aiutato la concezione teatrale e la conoscenza della strumentazione espressiva studiata sulla partitura di Orfeo".
Su quali principi ha fondato la rielaborazione strumentale?
"Ho seguito Monteverdi per l'identificazione dei mondi timbrici: un gruppo orchestrale rappresentava il cielo, l'Olimpo (ottoni, timpani, campanelli per dare il colore dell'oro e del sole), altri gruppi i personaggi (Penelope gli archi, i fiati per il mare e l'aria aperta). Ho impiegato una grossa orchestra: esiste una lista degli strumenti usati al Teatro di San Cassiano, l'ho seguita fedelmente aggiungendo qualche percussione. Credo sia sbagliato portare nel grande teatro un piccolo complesso strumentale che tiene la musica in secondo piano. Dal punto di vista musicale ho assecondato l'inclinazione monteverdiana a giocare sulla petizione degli elementi ritmici quasi a dar loro una struttura tematica".
Questo esercizio di stile cosa ha portato?
"Vivendo questa partitura e il mondo sonoro di Monteverdi, ho imparato moltissimo sulla dizione, sulla forza espressiva degli accordi e dell'armonia: le sorprese della mente vengono espresse con piccoli mutamenti tonali. Ho capito quanto utile fosse la funzione armonica della musica, ancora per le orecchie di oggi. Dopo i miei studi di contrappunto in Germania, musica sacra di Schütz e Bach, è stata l'esperienza musicale e 'didattica' più importante. L'incontro con Monteverdi ha influenzato moltissimo il mio stile: entrare nella mentalità musicale italiana mi ha fatto bene. Senza sacrificare la mia formazione basata sulle strutture contrappuntistiche, ho compreso la polifonia di colori, di strati strumentali, il discorso vocale naturale, che ho tentato di trasporre nelle mie opere, in particolare nello Sdegno del mare; l'altra sera durante una prova ho cercato di capire quanto lo spettatore può cogliere delle mie intenzioni e di questo aggancio al recitarcantando".
Torniamo alle presenze storiche. Parlando della Settima Sinfonia lei ha detto: per un compositore tedesco la forma-sonata è come un drago da sconfiggere e conquistare. Come?
"Si sconfigge cercando di scrivere una Sinfonia: esorcizzare la forma usandola. Malgrado le contraddizioni e i problemi Schönberg, le forme di tradizione, il teatro lirico: tutti morti! - credo che per superare un condizionamento storico del genere bisogna cercare di risolverlo, di rispondere non con un rifiuto a priori ma con un tentativo di appropriazione".
Come dire che è necessario metabolizzare le forme prima di contestarle?
"Sì, possiamo dichiararle morte soltanto quando le abbiamo superate dentro di noi, non perché l'ha detto Adorno o qualcun altro. Mi interessa ciò che la mia musica, la mia musicalitá, il mio essere artista sente come necessario. Non credo alle regole assolute: ognuno ha la sua legge. A quella deve obbedire. La musica è un'arte della mente, dove mente e psiche, condizione umana e mezzi per esprimerla sono un tutto: il tema principale".
Prima ancora di una scelta tecnica di linguaggio?
"Sì, certo. Forse in questo sono uomo di teatro. Creo un concetto, un po' come facevano i manieristi toscani e fiorentini del Cinquecento per descrivere uno stato d'animo, sociale o drammatico; scelgo i mezzi adatti per renderlo comunicabile, rappresentarlo. La ricerca dei mezzi deve cambiare - non nel mio lavoro, ma di pezzo in pezzo, a seconda delle esigenze - il mio linguaggio è quello, è sempre la mia mano che scrive ma mi tengo aperto per introdurre elementi e influenze da altre epoche, da altri stili, da altri modi di fare".
Il suo amore per il teatro musicale è nato dagli straordinari incontri teatrali con altri protagonisti?
"Mi sono interessato di teatro prima di conoscere i teatranti. Nei primi anni mi è sembrato che il teatro muto - danzato e mimato - fosse più interessante di quello cantato, più estetico. Il canto mi pareva un'intromissione: da molto tempo non la penso più così. In Germania il teatro lirico è sempre stato considerato un evento sociale più importante dei concerti sinfonici. Ciò ha avuto influenza sul mio modo di vedere. Anche le mie opere strumentali sono studi per questo maggiore sforzo che è l'opera teatrale".
Si sente dunque musicista tedesco?
"In questo senso, sì. Questo atteggiamento era già in Bach; era così anche se non ha mai scritto opere ma solo oratori".
Qualche mese fa la Filarmonica di Berlino l'ha nominato "compositore residente", rispolverando una carica scoperta da decenni. Cosa significa questo incarico?
"Mah, esattamente non lo so nemmeno io. L'orchestra si sta orientando, anzi sta tornando alle sue originali strutture costituzionali di repubblica orchestrale; con Abbado sta cambiando, accetta di discutere i programmi, di allargare il repertorio. Tutto quel che finora so è che l'orchestra mi ha scelto e che per qualche anno devo vivere a Berlino, dirigendo alcuni concerti con musica mia (a partire dal programma inaugurale dell'8 ottobre prossimo) e seguire l'esecuzione di altre mie opere programmate. A Berlino sono praticamente cresciuto. Le esperienze artistiche, anche quelle amare, le ho fatte lì: è un territorio molto fertile per la musica".
Come conciglia l'attività di direttore con quella di autore?
"Bisogna aprire le partiture come fossero musiche altrui. Studio le mie come se fossero di Berio o di Nono. Conoscere quella musica non importa: bisogna trovare il modo di dirigerla ed è come mettere fuori da sé quel pensiero musicale".
L'interprete di se stesso è il migliore?
"Soltanto in alcuni casi: è difficile giudicarsi comunque".
Che pensa degli interpreti "specializzati"?
"Mahler lo era, Strauss era magnifico quando dirigeva se stesso e Mozart, Boulez dirige splendidamente tutto il repertorio. Credo solo agli ottimi interpreti, straordinari ovunque. Sono di aiuto alla musica moderna perché la studiano, la vedono con la stessa capacità tecnica e intellettuale che dedicano alla tradizione, e un atteggiamento del genere non può che giovare alla musica nuova. Poi sappiamo benissimo che esiste anche una presunta specializzazione: quel genere di strumentisti e di direttori non sono però molto convincenti nemmeno col repertorio...".
Nel 1958 a Darmstadt lei venne definito "traditore della nuova musica". Come giudica quell'etichetta?
"Bisogna intendersi: traditore di che cosa? Non ho mai creduto alla musica moderna come una cosa comune: il pensiero di gruppo non mi è mai piaciuto, sono sempre stato convinto che ogni artista deve trovare i suoi mezzi, non quelli di una generica 'musica moderna'. Non amavo le manifestazioni di intolleranza né la mentalità da clan, da loggia nella quale si doveva obbedire a certe regole - ad esempio: non comunicare con un pubblico più vasto dei 25 ascoltatori scelti - per questo non ho voluto starci e ho deciso che la mia strada era diversa. Ho 'tradito' un'idea di musica ma per seguire la mia. Ciò che piaceva a me non mi assicurava il plauso dei miei colleghi: non mi sembrava necessario...".
Parlando dei suoi anni giovanili ha dichiarato spesso che allora considerava la musica come un qualcosa di proibito, di antiufficiale, addirittura di sovversivo. Perché?
"Nel clima degli Anni Quaranta, con la censura della dittatura nazifascista, tutta la musica moderna era vietata - si poteva ascoltare solo per radio, di nascosto - era un atto terroristico, un tradimento per il quale si poteva andare in galera. La mia famiglia era della piccola borghesia ma molto povera e in provincia: non avevano nemmeno una radio. Per ascoltare ogni tanto musica andavo in una famiglia politicamente non nazista e abbiente: li cominciò a sembrarmi qualcosa di sovversivo. Un'arte che parla di sentimenti, di sensazioni, di senso della bellezza umana senza costrizioni, eppure che andava fatta di nascosto...".
La musica possiede anche oggi questo spirito? Ha un'ideologia?
"Le ideologie non servono alla musica; sono anzi nemiche della creazione. Penso che il pensiero o i pensieri filosofici della nostra epoca siano importanti per gli artisti, in quanto nutrimento delle loro creazioni; nel senso che gli artisti hanno il dovere di tenere gli occhi aperti su quello che succede nella vita sociale della loro epoca e nel loro habitat culturale. Quando sostengo che i creatori della musica devono cercare di rendersi utili alla vita musicale del loro tempo - in primo luogo attraverso l'educazione musicale: bisogna essere insegnanti e apprendisti allo stesso momento - non credo sia un concetto ideologico ma artistico in senso lato".
Intende l'educazione musicale specifica?
"Non soltanto. lo mi occupo in maniera crescente dell'educazione alla musica nelle scuole elementari: penso che se tutti i bambini potessero uscire dalle scuole sapendo di musica come sanno di geografia o di matematica possiederebbero un patrimonio culturale in più. Ogni essere umano ha una componente creativa, che spesso viene soppressa, non incoraggiata, non evocata. Per questa ragione scrivo molti lavori per bambini".
E per quel che riguarda l'insegnamento di composizione, vede delle differenze tra gli studenti di nazioni diverse?
"I giovani compositori italiani sono allievi di famosi autori, e si sente subito. Vedo più individualismo nei tedeschi, più indipendenza, si riconosce meno la mano del professore. Il paese in cui però c'è la maggior fioritura di creatività e di indipendenza è l'Inghilterra: un numero sorprendente di talenti".
Esiste oggi un centro musicale di riferimento internazionale?
"No, non c'è più. 0, meglio, ce ne sono tanti: San Francisco, Boston, New York, Londra, Berlino, Milano. Non conta più molto nemmeno Darmstadt; cioè si fa sempre ma non è più un Vaticano, è un posto come un altro dove si può o non si può andare, per conoscere qualche cosa di nuovo".
E' superata la funzione di festival?
"Ma più che festival era un'accademia estiva, un workshop".
Come giudica le esperienze musicali non riconosciute dall'avanguardia ufficiale, come il minimalismo, il neotonalismo... ?
"Tutte reazioni all'eccessiva rigidità della musica della mia generazione. I giovani non si interessano minimamente di ciò che si scriveva trent'anni fa: hanno altre cose in mente, altre idee".
Ancora gli effetti negativi dei serialismo?
"Ma la reazione è stata molto salutare, positiva. L'artista oggi tiene molto alla propria indipendenza stilistica mentre un tempo questa tendenza non era minimamente incoraggiata".
La musica domani sarà molto difficile da inquadrare?
"E' molto bello pensarlo".
Nel suo rifiuto delle ortodossie non si sente un po' profeta?
"C'è chi lo pensa, ma io no... Non è che abbia detto: tra venti-trent'anni quella musica non ci sarà più. Seguivo solo il mio istinto".
Ritorniamo al teatro come modo di comunicare, che ha avuto uno spazio così importante nella sua attività compositiva. Tra i problemi dei teatro musicale c'è il rapporto con la voce.
"La voce è un parametro senza il quale non si scrive musica teatrale. Trovo affascinante la naturalità della voce: costringe il compositore a fare i conti con una realtà umana e fisica".
C'è sempre bisogno di un limite da sfidare?
"Esattamente. E' sempre successo: Wagner ha dovuto aspettare anni per trovare qualcuno in grado di cantare Isotta, oggi ci sono cantanti che eseguono bene Boulez o Castiglioni. Sapere che esiste sempre una possibilità di miglioramento, la possibilità di accrescere la capacità tecnico-musicale anche del canto, dà un'energia particolare. Va però tenuto conto che la voce ha un certo numero di ottave: dentro quelle bisogna rimanere".
Una volta si diceva che la voce si rovinava con gli intervalli aspri della musica moderna.
"S'è detto anche che Wagner scriveva contro la voce: non è vero. Naturalmente è necessario dotarsi della tecnica adatta. In quest'opera ho voluto usare il canto in modo diretto, nei registri più naturali: così, se vanno su, si ha l'impressione di qualcosa di diverso, la nota acuta diventa un evento straordinario".
La decontestualizzazione come effetto: se n'era già parlato a proposito della forma-sonata e della sinfonia.
"E' il vantaggio dello stile musicale con elementi riconoscibili: quando ne vengono introdotti diversi, si crea la tensione. Un bombardamento di intervalli difficili, come l'assenza di tensione e distensione, porta all'indifferenza dell'ascoltatore dopo un po' di tempo. Dobbiamo economizzare gli effetti, evitare di soffocare l'ascoltatore con sensazioni straordinarie e calibrare la disposizione degli effetti. Fare un uso drammaturgico di affetti e effetti musicali".
Questo è un comandamento che lei applica indifferentemente: teatro e musica strumentale che sia.
"Il pensiero musicale di partenza è unico: le diramazioni funzionali e pratiche non contano. So che ora devo scrivere musica strumentale ma so anche che tra qualche altro anno... Intanto con un certo poeta stiamo scambiando idee, gli descrivo ciò che la mia musica vuole fare, lo confronto con le sue esigenze".
Un rapporto compositore-librettista come nell'Ottocento?
"Ci deve essere l'intervento del musicista sulla poesia ma quel che conta alla fine è il lavoro di scambio reciproco".
Ma lei cosa cerca da un libretto?
"Qualità letteraria e sensibilità teatrale. E' poi molto importante che il poeta-scrittore si renda conto che deve scrivere in un linguaggio semplice. Non deve riempire tutto lo spazio teatrale con troppo testo o troppe immagini. Il testo deve aiutare lo spettatore a capire dove siamo e quello che succede in genere. Ma ciò che accade dentro, le cose mentali, le atmosfere e i pensieri, devono essere create dalla musica, non da lui".

Angelo Foletto (Musica Viva, Anno XV n.5, maggio 1991