Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, dicembre 19, 2015

Edgard Varèse

Edgard Varèse (1883-1965)
Nel catalogo di Casa Ricordi è compreso praticamente tutto quanto da Varèse è stato scritto – in fatto di note (1) - nel corso di un’intera vita, neppure così breve (1883-1965); o almeno quanto il suo autore ha voluto che sopravvivesse dopo l’impietosa distruzione di quello che aveva composto in più di vent’anni, fino cioè alla partenza per gli Stati Uniti nel 1914. Sono dodici pezzi, che potrebbero essere integralmente eseguiti in due soli concerti di durata non troppo superiore alla media. Una produzione dunque limitatissima, la più limitata sicuramente che si conosca nella storia della grande musica, assai più addirittura di quella di un Berg o di un Webern. E tuttavia, a oltre cent’anni dalla nascita di questo compositore, essa appare più attuale e vitale che mai, e questo “rilancio” ne costituisce la prova evidente.
Cerchiamo di capire, guardando da vicino questa figura d’uomo e d’artista, le ragioni della salda sopravvivenza della sua opera. Nato a Parigi da padre italiano e da madre francese, vive dai dieci ai vent’anni a Torino, dove inizia gli studi musicali, ma nel 1903 rompe col padre e si trasferisce a Parigi, completando gli studi con d’Indy, Roussel e Widor. Ben presto scrive i primi pezzi, si trasferisce a Berlino, è apprezzato da Busoni e Debussy, si trova tra i primi ascoltatori di Pierrot lunaire di Schönberg e del Sacre di Stravinskij (rispettivamente a Berlino e a Parigi, 1912 e 1913) finché nel 1914, come abbiamo visto, si trasferisce negli Stati Uniti: qui matura la decisione di separarsi dalla produzione precedente, che di fatto viene materialmente distrutta, e inizia un nuovo, affascinante percorso di compositore-ricercatore-innovatore affatto radicale.
Da una parte si adopera intanto come direttore d’orchestra (è del 1919 la fondazione della New Symphony Orchestra da lui diretta), come animatore e organizzatore per la diffusione della musica contemporanea, facendo conoscere in America autori e pezzi sin’allora costà ignorati; dall’altra inizia, a partire da Amériques – terminate nel 1922 – la non lunga serie di composizioni che ben presto lo imporrà all’attenzione del mondo culturale e musicale come uno dei maestri più avanzati e impegnati nello schiudere territori inesplorati alla “nuova musica”. Intensa è dunque la sua attività americana (fonda tra l’altro con Chávez e Cowell la Pan American Association of Composers), ma dal 1928 al 1933 è di nuovo in Francia, con i cui ambienti musicali non aveva mai perso il contatto e dove riprende i rapporti con vecchi amici come Picasso e Cocteau, e stringe nuove amicizie (Jolivet, Villa-Lobos).
Nel 1934 ha inizio un lungo periodo di crisi, dovuta a insoddisfazione compositiva e segnata da un’irrequieta mobilità nel centro e nell’occidente degli States, anche cercando di operare – ma senza successo – come compositore di musica per film, fondando nuove istituzioni musicali, aprendo casa a Santa Fé, poi a San Francisco e infine a Los Angeles, prima di rientrare a New York nel 1941. La sua produzione ristagna, lo occupano studi e ricerche di vario genere che non riescono a catalizzarsi in opere musicali: dal 1934, data della composizione di Ecuatorial, fino al 1950 non scrive quasi più nulla, se si esclude l’esile Density 21.5 per flauto e la breve Etude pour espace per coro, due pianoforti e percussione, eseguita una sola volta e rimasta inedita, nonché una Dance for Burgess di cui si sa ancora meno che del lavoro precedente.
Ma gli ultimi quindici anni di vita sono contrassegnati da una ripresa energica dell’attività compositiva, con capolavori quali Déserts e Nocturnal, e da un pieno, crescente e definitivo riconoscimento internazionale della sua straordinaria importanza di compositore. Si interessa all’attività dei giovani attivi ai Ferienkurse di Darmstadt (dove tiene lezioni), le sue opere incominciano a essere incise su disco, riceve commissioni prestigiose (tra l’altro, da Le Corbusier, quella per il Poème électronique destinato al padiglione Philips per l’esposizione di Bruxelles del 1958), onorificenze di stato, e finalmente la sua musica incomincia a conoscere una discreta diffusione, seppure non certo ancora adeguata al suo reale valore. Si spegne il 6 novembre 1965 al New York University Medical Center Hospital senza essere riuscito a realizzare il suo ultimo progetto: una musica per Dans la nuit di Henri Michaux.Il poema sinfonico Bourgogne, terminato nel 1909 ed eseguito nel 1910 a Berlino, fa parte com’è noto delle opere ripudiate dal compositore (ma solo nel 1961, stranamente, Varèse prenderà la decisione di distruggere materialmente la partitura). Eppure sentiamo che cosa rispondeva in un’intervista del 1965 a una domanda relativa alla funzione molto articolata degli archi in questa composizione:
Stavo cercando di avvicinarmi a quella vita interiore, microcosmica, che si può scoprire in certe soluzioni chimiche; o nella luce filtrata. Utilizzavo gli archi in modo non tematico, come sfondo a un grosso insieme di ottoni e di percussioni.
Evidentemente egli parla col senno di poi, cioè tenendo conto – consciamente o meno – dell’evoluzione del suo pensiero e delle sue ricerche durate più di quarant’anni. La decisione di distruggere nonostante tutto quelle opere giovanili ci indica però che, con tutte le già personali innovazioni che potevano contenere, c’era in esse qualcosa che non lo soddisfaceva (nell’unica che è sopravvissuta, Un grand sommeil noir del 1906, su testo di Verlaine, per canto e pianoforte, possiamo forse capire di che cosa fosse insoddisfatto): il fatto è che Varèse mirava a una rifondazione radicale della musica, ed egli poté cominciare a realizzarla davvero solo a partire dal 1920.
L’espressione “territori inesplorati” che poco sopra è scivolata discorsivamente dalla penna, è alla fine proprio la più esatta per definire la posizione di Varèse e la natura della sua musica: perché non esiste forse nel nostro secolo nessun compositore che abbia ripensato così dalle radici l’arte dei suoni. Prendiamo Schönberg. Il suo periodo dell’“emancipazione della dissonanza”, tra il 1909 e il 1920 circa, ha prodotto certamente opere sconvolgenti e sublimi. Tuttavia se analizziamo la struttura del loro linguaggio possiamo notare che esso è pur sempre segnato dalla volontà di contrapporsi a quello della tradizione, di negarlo, potendo quindi esistere solo in quanto continuazione-rottura rispetto ad esso.
E quando Schönberg adottò la dodecafonia, non si rifugiò forse per lunghi anni nelle forme tràdite, sette e ottocentesche, quasi a voler realizzare una solida congiunzione tra passato e presente, una conciliazione dopo le eruzioni del periodo precedente? E Bartók, musicista che Varèse peraltro stimava enormemente? Le sue straordinarie innovazioni linguistiche e formali poterono aver luogo solo in quanto egli riuscì a potenziare, a sublimare a misura d’arte i dati di “extraterritorialità” che gli venivano dal ricorso alle movenze e ai caratteri popolari che sappiamo: nemmeno lui ebbe l’ardire di partire davvero da una “tabula rasa”. E questo discorso non vale mutatis mutandis forse anche per lo Stravinskij del periodo aureo (per tacere del lungo crepuscolo noeclassico)? E il ricorso alle forme e talora all’armonia tradizionale di Berg? E la prodigiosa capacità visionaria di Ives, che vive però della rigenerazione e della commistione di linguaggi del passato e del presente? Il neobarocco (si badi alla definizione!) di Hindemith? Il cosiddetto cubismo musicale di certo Prokofiev, che può esistere solo in quanto deforma, stravolge o sublima tratti, movenze, sonorità noti? E quanta tensione dialettica col passato negli Shostakovic, Malipiero, Villa-Lobos, Ravel, ecc.
Di questo conflitto duro, di questa lotta per riplasmare e rinnovare, non v’è traccia nell’opera di un solo compositore del nostro secolo: e questo compositore è Edgard Varèse, che dev’essere stato portato di necessità dal suo istinto autocritico, a rinnegare ciò che aveva scritto nei primi anni, che forse recava a sua volta i segni di un conflitto non risolto, di una subalternità, in qualche modo, al passato.
A partire da Amériques ci troviamo davvero in territori inesplorati, lontani appaiono gli echi delle polemiche, delle esplosioni, dei compromessi fors’anche che i suoi coetanei qualche volta avranno dovuto accettare. Ma lui, Varèse, ha preso le distanze, anche fisicamente, ha messo 6000 chilometri tra se stesso e Parigi, si è trasferito in terra vergine. Può incominciare il suo nuovo lavoro con la mente sgombra, con l’illusione di gettare in un mondo nuovo il seme di una pianta sconosciuta. E il percorso attraverso le musiche che egli compose da quel momento descrive una linea affascinante e in costante ascesa. Reminiscenze stravinskiane che si possono avvertire nei primi pezzi appaiono piuttosto relitti quasi fisiologici di un periodo formativo (la Parigi degli anni ’10) che non ricupero di legami col passato. E subito invece ci attira la trasparenza della sua strumentazione, che crea agglomerati nuovi, cristallini, nati da una concezione timbrica di cui non troveremmo anticipazioni in nessun predecessore; la pulizia delle sue armonie, che non nascono “in antitesi a”, o “per negazione di”, e tanto meno col semplice quanto insulso intento di épater lebourgeois, ma come fiori ignoti, come di un altro pianeta, in forza di una logica fisica e acustica che ha la sua ragion d’essere in se stessa e non si preoccupa di apparire più avanzata o più moderna di altre, perché semplicemente è, nella sua autonomia e nella purezza della sua costruzione; la semplicità della forma, per lo più assai contenuta nella durata, costruita con elegante semplicità, così come un esperto muratore tira su un muro di mattoni nudi che non hanno bisogno di orpelli, arricchimenti o fregi per dichiararsi in tutta la loro funzionale bellezza. Questo percorso, lungo negli anni per quanto ridotto nella quantità, porterà Varèse attraverso esperienze esaltanti come il brano per sola percussione, le risonanze arcane del coro di bassi all’unisono sui testi rituali maya del Popol Vuh, il titanico progetto di Espace, fino all’incontro con la musica concreta di Déserts e a quella elettronica del Poème. Nessuno credo è in grado di spiegare, allo stato, perché mai Varèse, che per decenni aveva aspirato a una musica “della macchina”, a una musica di sonorità sconosciute, non abbia approfittato a fondo del mezzo elettronico. Dedito da gran tempo a instancabili sperimentazioni e auscultazioni dei vari strumenti percussivi ed esotici di cui traboccava il sotterraneo della sua casa di New York, felice di andare nelle officine e per le strade a registrare i suoni e i rumori che gli sarebbero serviti – manipolati – per le parti su nastro di Déserts, egli forse sentì, intravvide nelle sonorità elettroniche, lo spettro di quella cultura della disumanità contro cui aveva in realtà lottato tutta la vita: e se ne ritrasse spaurito, ancora legato in fondo a una concezione ottocentesca della “macchina”. Stavolta certo sbagliava, ed era forse troppo vecchio del resto per entrare in un nuovo territorio da esplorare. Ugualmente quello che egli fece è servito per anni da insegnamento limpido e puro a intere generazioni di compositori: Varèse ha insegnato da una parte la fedeltà a un’idea, il disprezzo del compromesso, la necessità persino di accettare l’emarginazione se questo si deve pagare per preservare la propria coerenza e le proprie convinzioni; dall’altra a porsi di fronte alla musica con mente libera, con sincera curiosità per il nuovo, per il non-ancora-udito, a non appoggiarsi a schemi o moduli precostituiti ma a costruire ogni volta, in ogni opera, le ragioni autentiche della sua esistenza, della sua struttura. Per tutto questo egli rimane l’unico musicista del nostro secolo che può essere a buon diritto posto accanto all’altro grande maestro di vita, di musica e di umanità che fu Schönberg: e l’ascolto delle sue opere ne costituirà per chiunque la prova più forte e più chiara.
 
Giacomo Manzoni, agosto 1989 

(1) Gli scritti principali, vive testimonianze della problematica compositiva e umana di Varèse, sono raccolti in Écrits, textes réunis et présentés par Louise Hirbour, Christian Bourgois Éditeur, Paris 1983. Traduzione in italiano: Il suono organizzato, Edizioni Ricordi/Unicopli, Milano 1985.

venerdì, dicembre 11, 2015

Mahler/Berio: Fünf frühe Lieder per voce maschile e orchestra

Luciano Berio (1925-2003) - Gustav Mahler (1860-1911)
Fra i compositori del Novecento che si sono accostati, direttamente o indirettamente, alla musica di Mahler, Luciano Berio ci pare il più oggettivo e lucido. Certo, anche Berio ha sentito emotivamente il fascino della musica di Mahler, come simbolo non soltanto di una compiuta espressione artistica ma anche di una profonda concezione insieme umana e poetica, ma ha teso, anche amandola, a indagarla da compositore, soprattutto in quanto tale. Ossia come oggetto di riflessione non nostalgica e come stimolo di rielaborazione attiva. Sotto questo profilo Sinfonia, del 1968-1969 costituisce un modello dell'atteggiamento di Berio compositore nei confronti di tutta la musica del passato. Il materiale desunto da Mahler (lo Scherzo della Seconda Sinfonia) diviene, parallelamente al testo di un poeta contemporaneo, Samuel Beckett, il punto di partenza per un vertiginoso circolo di frammentazioni e di trasformazioni dal quale emerge, come per necessità strutturale di stadi successivi, una nuova individuazione della forma e del linguaggio compositivo: quella di Berio stesso. Parlare semplicemente di immedesimazione in atmosfere mahleriane qui non avrebbe senso. Attraverso un processo di decostruzione e di stilizzazione, la memoria viene chiamata a creare una prospettiva di campi aperti, di associazioni molteplici, che sconvolge il dato assimilato e lo immette in una fuga centrifuga verso orizzonti retti da logiche di tutt'altro genere, che prefigurano e realizzano strada facendo una diversa coscienza del comporre e, per noi, dell'ascoltare.
Diverso è il caso dell'orchestrazione di Berio dei Lieder giovanili di Mahler. Questi Lieder, in tutto quattordici, composti in parte tra il 1880 e il 1883, in parte tra il 1888 e il 1891, furono stampati dopo la morte dell'autore con l'indicazione comune Lieder und Gesänge aus derJugendzeit (Canzoni e canti del tempo della giovinezza), e sono tutti per voce e pianoforte. Il lavoro creativo di Berio è consistito nella strumentazione dell'accompagnamento pianistico, lasciando intatta la linea del canto. Le eccezioni sono costituite da quei casi nei quali Berio si è confrontato direttamente con la strumentazione di Mahler, che come era solito fare rielaborò alcuni di questi Lieder nelle sue Sinfonie: in questi casi la scintilla del confronto accende una fiamma che produce vere e proprie reazioni alchemiche, di segno perentorio. Per il resto, Berio si è ispirato programmaticamente a una strumentazione "mahleriana" fin nell'organico, appena un po' più espansa e ripensata nel secondo ciclo, mirando a ricreare con l'orchestra la sua visione dell'ambientazione sonora in relazione all'articolazione del canto e alle suggestioni del testo, come un «rispettoso e amoroso strumento di analisi e di trasformazione». Non per questo la sua mano d'autore e la sua cifra di conclamato inventore di inconfondibili paesaggi sonori sono meno riconoscibili; né è meno rilevante la sua capacità di scorgere acutamente e di mettere in luce, in questi primi riconoscimenti di sé da parte di Mahler, la pluralità e la virtualità che vi sono implicate.
I cinque Lieder giovanili che Berio ha orchestrato per primi nel 1986* (dedicati a Zubin Mehta per il suo cinquantesimo compleanno) racchiudono già l'essenza della poetica mahleriana del dolore, dell'estraneità, dell'esilio e della rivolta. Il primo, Ablösung in Sommer (Cambio della guardia in estate) ha un carattere umoristico e popolare. Lo ritroviamo sviluppato nello Scherzo della Terza Sinfonia, che Berio prende a modello e trasforma in uno scintillante gioco di specchi fra il Lied e lo Scherzo. Una tipica scena di vita militare è alla base di Zu Strassburg auf der Schanz (A Strasburgo sul bastione), che Berio caratterizza opponendo segnali militari nei fiati e nella percussione a tocchi pastorali riverberati da intermittenti fasce sonore degli archi. L'accompagnamento pianistico è già di per sé così ricco di suggerimenti orchestrali che non sorprende affatto che Mahler stesso avesse cominciato a strumentarlo: infatti l'orchestrazione di Berio prende spunto da due pagine originali di Mahler. In Nicht wiedersehn! (Non rivedersi!), ballata romantica di amore e morte, è particolarmente interessante l'interpretazione che Berio dà all'armonia, giocata sull'alternanza maggiore-minore, facendone il catalizzatore di una cangiante tavolozza timbrica. Al carattere degli apologhi infantili appartiene Um schlimme Kinder artig zu machen (Per trasformare in buoni i bambini cattivi), dal carattere innocente e gaio, rispecchiato anche nella leggerezza incantata della strumentazione.
I testi di questi quattro Lieder provengono dalla raccolta popolare di Achim e Brentano Des Knaben Wunderhorn (I1 corno magico del fanciullo), alla quale Mahler sarebbe tornato sovente con la sua musica. Il quinto, Erinnerung (Ricordo), è invece tratto da una raccolta di poesie pubblicata nel 1878 da Richard Leander, pseudonimo di Richard von Volkmann, di professione medico. È un Lied di carattere intimo, se non proprio intimistico, lento e nostalgico, che sfrutta in tutte le combinazioni possibili il gioco di parole tra Liebe (amore) e Lieder (canti), adagiandosi in un riflesso armonico tutto appoggiature e progressioni cromatiche. Berio lo strumenta con reminiscenze wagneriane, con continui contrappunti dell'arpa, quasi a voler rendere nelle sue screziature il senso di un ricordo insieme malinconico e trasfigurato, e lo colloca alla fine sia del primo ciclo sia del secondo, quasi a raffigurare un'epigrafe affettuosa della storia dell'infanzia del Lied mahleriano.
 
Sergio Sablich (9 dicembre 2000)
 
(*) La prima esecuzione assoluta avvenne il 26 luglio 1986 alla "Settimana Musicale Gustav Mahler" di Dobbiaco (Toblach).

mercoledì, dicembre 02, 2015

Monteverdi:Il Vespro della Beata Vergine secondo Harnoncourt

Vespro della Beata Vergine
Opere d'arte in onore di Maria
Le opere d’arte in onore della Madre di Dio hanno sempre occupato un posto d’onore. Le pitture religiose, e in particolare le rappresentazioni di Maria, presentavano strumenti musicali suonati da angeli già in un'epoca in cui ancora non erano affatto autorizzati ufficialmente dalla chiesa. Molti di questi quadri di fatto non rappresentavano veri e propri "concerti da chiesa", al contrario sono concepiti come allegorie; molto spesso questi dipinti mostrano combinazioni strumentali fra le più comuni della musica profana. C'è dunque un vero e proprio parallelismo con i quadri di "musica mariana": le composizioni in onore di Maria, le musiche sul testo del cantico di Salomone per esempio e altre opere analoghe, erano da lungo tempo più "profane", più appassionate e, per l’epoca, più "moderne" della musica sacra del tempo, quasi sempre conservatrice. Così anche Palestrina, che solo una generazione prima di Monteverdi aveva fissato i canoni di una musica religiosa di stile severo e conforme alle regole, diceva nella prefazione a un libro di mottetti: "Ho volto qui la mia musa verso le poesie dedicate alla lode della Santa Vergine, il cantico di Salomone. Vi ho impiegato uno stile più appassionato che nelle mie altre opere di musica da chiesa che questa poesia sembrava richiedere...". Non è dunque certamente un caso che proprio nel Vespro della Beata Vergine, per la prima volta nella storia della musica, la cornice stilistica e sonora abituale fu spezzata in tutte le direzioni possibili. Quest'opera rivoluzionaria utilizzava, per la prima volta nel caso di una grande opera vocale spirituale, le innovazioni della musica strumentale veneziana e lo stile dell’opera, che allora aveva solo qualche anno e alla cui costituzione lo stesso Monteverdi aveva contribuito in modo decisivo.

Il Vespro di Monteverdi
Monteverdi ovviamente conosceva bene tutte le innovazioni introdotte nel campo della musica sacra dai suoi colleghi vicini di Venezia. Dal 1591 era impiegato come "suonatore di viuola" presso Vincenzo I a Mantova e aveva partecipato a diversi viaggi con la cappella principesca. Aveva quindi avuto occasione di vedere di persona come si faceva musica altrove e di subirne l'influenza. Negli Scherzi musicali del 1607, ispirati allo stile francese, associa a tre parti vocali tre strumenti (due violini e uno strumento armonico) che non suonano solo i ritornelli fra le strofe, ma anche degli interventi obbligati durante il canto. Nell`Orfeo, la sua prima opera, anch'essa del 1607, si serve della mutevole gamma sonora dell'orchestra della canzone veneziana: al gruppo del continuo - organo di legno, clavicembalo, regale, liuto (chitarrone), arpa e archi gravi - si aggiungono violini, viole, cornetti a bocchino e tromboni. A questo proposito, è interessante notare che Monteverdi, forse perché era lui stesso violinista, fu il primo a rinunciare alla predominanza dei fiati a vantaggio degli archi in quest'orchestra del primo barocco.
E' proprio quest'orchestra che Monteverdi utilizza anche nel Vespro della Beata Vergine; per il coro iniziale "Domine ad adjuvandum me festina", fa suonare agli strumenti quasi la stessa sonata indipendente - o toccata, come viene chiamata nell’opera - dell’inizio di Orfeo. Questo parallelismo fra opera e musica sacra va quindi aldilà degli aspetti stilistici e sonori: non solo Monteverdi nel Vespro porta per la prima volta lo stile dell’opera in chiesa, ma anche l'orchestra dell’opera vi è rappresentata in tutto il suo splendore e fin dal primo brano, con questa citazione nella dovuta forma dell’Orfeo! Conformemente all'uso del tempo, il compositore non ha dato all’interprete una partitura pronta per l'esecuzione; non può e non vuole fare niente di simile sotto pena di ridurre la molteplicità delle possibilità. Ecco perché un tempo ogni esecuzione di una grande opera aveva un aspetto tutto particolare.

Immagine sonora e strumentazione
L'immagine sonora del Vespro della Beata Vergine di Monteverdi e i problemi posti dalla realizzazione dell’opera possono essere capiti e risolti solo partendo dal contesto storico. I punti di partenza devono essere le indicazioni date dal compositore nel coro iniziale, nella "Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis" e nel Magnificat, come anche la divisione in due cori separati che sembra essere richiesta in alcuni punti dell’opera. Inoltre, le testimonianze dell’epoca ci forniscono precise informazioni sul modo di eseguire le opere di questo genere e gli organici che vi erano impiegati; e proprio in questa musica da chiesa "teatrale" si attribuiva enorme importanza alla distribuzione spaziale.
Le tre sezioni dei Vespri sopra citate si richiamano espressamente a questi strumenti: due violini da brazzo, quattro viuole da brazzo (termine generico per indicare diversi strumenti a corda e di dimensioni che vanno dalla viola attuale al violoncello), contrabbasso da gamba (violone), tre cornetti (a bocchino), due flauti (dritti), due piffari (cennamelle soprano), tre tromboni, organo, E' presumibile che a questo strumentario andassero aggiunti alcuni altri strumenti di continuo, clavicembalo, virginale, liuto e dulciana. Nell’edizione originale non sono espressamente citati, ma sappiamo che per le grandi opere di questo genere, soprattutto quando prevedevano più cori, era necessario utilizzare i più svariati strumenti di continuo, da una parte per poter assegnare a ciascun coro uno strumento di base, dall’altra per assicurare l'indispensabile contrasto sonoro. I numerosi assoli in stile monodico richiedono un accompagnamento adatto; in questo caso prevale il liuto in quanto strumento sul quale un tempo i solisti si accompagnavano da soli, il che era indispensabile dato lo stile rubato delle melodie. Sappiamo anche che, nelle grandi formazioni in cui fossero previsti gli strumenti a fiato, i fiati corrispondenti dovevano suonare il basso con clavicembalo e organo, anche se ciò non era richiesto espressamente dal compositore; Michael Praetorius, nel Syntagma Musicum del 1619, quasi interamente dedicato alle pratiche esecutive della moderna musica italiana dell’epoca, dice: "Bisogna notare in particolare... che e buona prassi, è quasi indispensabile, aggiungere a questo basso continuo uno strumento basso come il fagotto, la dulciana o il trombone, o ancora, che è la cosa migliore, un basso di violino... che... contribuisce perfettamente a ornare e rafforzare il basso".
Non esiste partitura originale del Vespro della Beata Vergine di Monteverdi. L'opera ci è giunta sotto forma di parti stampate, realizzate con la supervisione dello stesso compositore. Dato che le parti strumentali sono stampate separatamente solo quando differiscono da quelle vocali, si può supporre che gli stessi musicisti doppiavano anche le parti vocali quando, in occasione di questa o quella esecuzione, il maestro di cappella lo richiedeva. Lo provano diversi passaggi, per esempio nel caso del ritornello del "Dixir Dominus" in cui gli strumenti sono improvvisamente abbandonati. La maggior parte dei brani corali del Vespro é scritta per doppio coro; questo significa 
che l’orchestra deve sostenere questa scrittura a doppio coro senza che i musicisti siano tenuti a cambiare posto. Praetorius ci informa con precisione sulla concezione del tempo della disposizione e dell'esecuzione di queste opere policorali: "Quando in un concerto, un coro è costituito da cornetti, l'altro da violini, il terzo da tromboni, fagotti, flauti e strumenti di questo genere" è indispensabile, secondo lui "che si possano utilizzare per l’uno delle viole versiculo, per l’altro tromboni, per il terzo flauti e fagotti". Quanto alla disposizione, dice che "ha creduto meglio ex observatione disporre separatamente la capella o chorus fidicinium [il gruppo degli archi] un po' a lato dell’organo, in modo che i cantanti non siano assordati o coperti dagli strumentisti, ma che al contrario ciascuno possa essere udito e distinto dall’altro... Bisogna fare attenzione a separare gli uni dagli altri i ragazzi e gli altri concentores [che eseguivano le parti concertanti e vocali] poiché sono separati nei cori e assegnare, per quanto è possibile, a ogni ragazzo o coro uno strumento di base:... la cappella fidicina deve tuttavia essere posta di lato, in un punto da cui possa venire in aiuto a tutti i ragazzi e i cori...". Non solo l’opera di Praetorius fornisce la descrizione più precisa che possediamo della pratica musicale dell’epoca, ma perdipiù, nelle indicazioni strumentali, si rifà espressamente al Vespro della Beata Vergine di Monteverdi!
Nelle sezioni omofone e solenni, per esempio lo "Et Spiritui Sancto" del "Laetatus sum" o le conclusioni grandiose del "Dixit Dominus" del "Laetatus sum" e del Magnificat, chiaramente è la sonorità delle orchestre d'archi e di fiati complete che deve dare tutto il fasto e il risalto necessari. Praetorius paragona questa sonorità piena di tutto il coro e l'orchestra al suonare pieno di un organo: "... quanto tutta la capella... suona, come se su un organo si aggiungessero tutti i suoni. Da un insieme, un fasto e una pompa perfetti a una tale musica.. E tale armonia sarà ancor più piena, e il suo fasto accentuate, se alle voci mediane e superiori si aggiunge una grande bombarda bassa, un controfagotto o due grandi bassi di violino (il violone italiano) e, dove restano, anche altri strumenti". Questo splendore, quest'esuberanza cominciavano a diventare un fattore determinante in quest’epoca del barocco nascente. E' cosi che si trovano descritte combinazioni sonore di strumenti solisti con parti vocali, o di diversi strumenti fra loro, anche in ottava, cosa che assicurava effetti particolari. Si scopriva il suono come mezzo d'espressione, anche se veniva impiegato essenzialmente non tanto dal compositore, ma dall’esecutore.
Anche nel Vespro, si sceglieranno combinazioni di questo tipo per molti assoli e passaggi solistici, dove gli archi o i flauti, o entrambi, raddoppiano i solisti. Per esempio sotto "Virgam virtutis" o "juravit Dominus" nel secondo coro o sotto "plena est omnis terra" nel Duo Seraphim. Il senso della stru
mentazione, concepita come registrazione, appare molto chiaramente nel "Laetutus sum". In questo brano, una figura in ottavi di otto battute, che sembra destinata in verità alla dulciana, ritorna a cinque riprese, esprimendo in un certo modo la costanza della marcia verso Gerusalemme; in seguito figure di questo genere furono dette "basso d’andante".
I movimenti a doppio coro hanno una strumentazione più semplice. Così il "Nisi Dominus" a dieci voci. Qui, l'associazione della sonorità scura degli archi al primo coro e della sonorità chiara dei flauti, dei tromboni e della dulciana nel secondo dà loro una certa limpidezza, anche quando i due cori cantano contemporaneamente, intersecati ritmicamente uno nell’altro. O anche l'"Ave Maris stella" a otto voci in cui gli archi possono accompagnare il primo coro, il piffaro, i flauti dritti e tre tromboni il secondo. Senza dubbio, lo stesso principio andrebbe mantenuto nei ritornelli; facendo suonare quindi il primo, che appartiene al primo coro, agli archi, il secondo, che appartiene al secondo coro, da un quartetto di flauti dritti con la dulciana al basso. A proposito di questa combinazione, Praetorius dice: "Se si vuole mettere un coro di flauti fra e a lato degli altri cori composti da altri strumenti diversi, mi sembra meglio affidare il basso a un trombone basso, o meglio ancora a un fagotto [dulciana]". La terza ripresa del ritornello appartiene al primo coro e sarà quindi suonata di nuovo dagli archi, eventualmente con abbellimenti.
La “Sonata sopra Sancta Maria ora pro nobis" e le sezioni soliste del Magnificat occupano un posto particolare per quanto riguarda la strumentazione. Qui il ruolo degli strumenti aveva una tale importanza nella sua elaborazione, già dalla composizione, che Monteverdi ha strumentato lui stesso questi brani in maniera molto precisa: al punto che non c’è bisogno di aggiungere nulla oltre allo strumento a fiato che suona il cantus firmus. Molto evidentemente, questi pezzi sono assoli, che in nessun caso devono essere raddoppiati - come spesso purtroppo succede oggi; l'assurdità di un raddoppio delle parti violinistiche della Sonata, per esempio, risulta chiaramente se si pensa che le due parti di violino e le due di cornetto a bocchino si corrispondono e si alternano anche a coppie in grandi assoli: un raddoppio dei violini annulla questa polarità. E' Vero che oggi siamo abituati a sentire in orchestra dei fiati solisti contrapposti a un potente coro di archi; ma la pratica dell’epoca non conosceva affatto questo rapporto, che quindi è poco naturale, perché i soli potevano corrispondere unicamente a dei soli, a meno che non si trattasse di un vero e proprio effetto di solo-tutti, ma non è questo il caso. Il virtuosismo richiesto a strumenti oggi poco volubili come il trombone non manca di interesse.  La Sonata è una vera e propria danza strumentale (intrada e gagliarda) affidata a violini solisti, cornetti, tromboni e basso, sul quale il cantus firmus "Sancta Maria ora pro nobis" è cantato in modo indipendente; in altre parole, anche senza di esso la Sonata sarebbe un brano musicale completo. Nei pezzi solisti del Magnificat - come anche in tutti i cori costruiti su uno o più canti firmi - un trombone o un altro strumento a fiato devono raddoppiare il cantus firmus cantato dal coro, mentre i solisti strumentali o vocali suonano o cantano le loro parti virtuosistiche. I brani essenzialmente strumentali o vocali si alternano dunque continuamente. Le parti del solo e del tutti nelle sezioni sia strumentali che vocali si distinguono molto chiaramente poiché il loro concatenamento obbedisce a un piano di più ampia portata in cui l'interpretazione del testo e il contrasto sonoro e drammatico sono elementi determinanti. Quest'opera di Monteverdi in effetti è di una teatralità mai udita che si richiama tanto a un raffinato trattamento sonoro quanto ad autentici effetti teatrali, per esempio gli echi nell’"Audi coelum" che sono sfruttati fino alle loro possibilità estreme, non solo musicalmente, ma anche dal punto di vista del testo (gaudio-audio; benedicam-dicam; vita-ita).

La strumentazione
Oggi, in generale, gli strumenti di quell'epoca non sono più usati: sembra dunque indispensabile passare rapidamente in rivista ciascuno di essi e ricordare anche il parere di uno specialista contemporaneo (Praetorius) che considerava il Vespro monteverdiano un'opera esemplare.
Il violino - Monteverdi lo chiama violino da brazzo - si era sviluppato nel corso del XVI secolo e aveva dato prova delle sue possibilità nella musica popolare. Cominciava allora quella grandiosa carriera che ne fece il principale strumento solista del barocco e la base dell'orchestra d’archi. Esteriormente era già identico al violino attuale - nei concerti si suona ancor oggi su strumenti di quel periodo -, ma la struttura interna, il capotasto, la posizione del manico, il ponticello, l’incordatura e l`archetto diversissimi producono anche un suono radicalmente diverso. Il "sotto del violino richiede bei passaggi, degli scherzi lunghi e variati, delle belle fughe, ripetute e riprese in punti diversi, accenti energici, arcate lunghe e brevi, gruppi, trilli, etc.". Tutti elementi che compaiono numerosi nel Vespro di Monteverdi.
Viola nel XVI secolo è un termine generico che indica un gran numero di strumenti fra la viola e il violoncello e che Monteverdi raggruppa sotto il nome di viola da brazzo. La fattura di questi strumenti è identica a quella del violino Così come l'abbiamo descritta, Dato che oggi, in questa fascia, rimane solo lo strumento che chiamiamo viola, vorrei ribadire che all’epoca di Mon
teverdi esistevano diversi tipi di viole, accordate diversamente, la più grande delle quali era nettamente più grande della più grande viola usata oggi; del resto era possibile tenerle e suonarle solo appoggiandole a sinistra davanti al petto e spingendole verso la spalla destra. Gli strumenti più grandi non potevano essere tenuti "da brazzo": bisognava stringerli fra le ginocchia come il violoncello. Anche questi strumenti erano fabbricati nelle misure più diverse. L’orchestra d’archi quindi, una volta, era nelle parti mediane di grande varietà e straordinaria ricchezza timbrica. Il violoncello era anch’esso detto all`epoca viola da brazzo - denominazione un tantino ingannevole che doveva distinguerlo dalla viola da gamba e testimoniare della sua appartenenza alla famiglia dei violini e delle viole.
Il violone, il nostro attuale contrabbasso, già all’epoca era nella maggior parte dei casi accordato a quattro. Per poter rendere chiaramente i passaggi tecnici era munito di ghiere, come la viola da gamba. "... Il grande basso di violino, il violone italiano, dà una grande profondità alle voci gravi e sottolinea con la sua risonanza l'armonia delle altre voci...".
II cornetto a bocchino è uno strumento della famiglia dei legni, con una diteggiatura analoga a quella del flauto dritto e che viene suonato con un'imboccatura simile a quella della tromba, ma molto più piccola, E' uno degli strumenti a fiato usati più di frequente nel XVI e nel XVII secolo: "... i cornetti non devono essere utilizzati nelle musiche calme e delicate, ma solo essere mescolati alle grandi musiche fragorose". Nel Vespro, questi strumenti sono richiesti tanto nelle musiche "fragorose" quanto negli assoli delicati e bisogna supporre che Monteverdi abbia scritto queste parti per ottimi solisti. Praetorius sottolinea che a questo strumento possono essere affidati compiti molto difficili se l'esecutore "sa però dominare e moderare il suo cornetto e gli strumenti di questo genere, se è padrone del proprio strumento"...
Il trombone di quest'epoca è profondamente diverso da quello in uso oggi; aveva il foro molto più stretto e il padiglione molto pin piccolo. Questo da un lato gli dava una sonorità leggera e gli permetteva di fondersi meravigliosamente con la sonorità dolce degli strumenti a corda dell`epoca, dall’altro lo rendeva molto fragile, tanto che a questo strumento si potevano chiedere colorature complicate: "Alcuni (e fra gli altri il celebre maestro di Monaco Phileno) sono andati cosi lontano su questo strumento, grazie a un esercizio assiduo, che possono suonare il re grave e nell'acuto il do, il re e il mi senza particolari difficoltà o problemi. Fra l’altro ho ascoltato, a Dresda, Erhardus Borussus, che ora deve soggiornare in Polonia; questi aveva ottenuto dal suo strumento che salisse quasi quanto un cornetto, fino al sol, sol re do più alto; e sapeva realizzare, ottenere ed eseguire le note gravi di un trombone
basso, fino al la, con delle colorature e dei salti altrettanto vivaci che su una viola bastarda o su un cornetto". Senza dubbio è per musicisti di questo livello che Monteverdi ha scritto la sua Sonata.
Il flauto dritto del XVII secolo era costruito in un pezzo solo, il foro era due volte più largo di quello del flauto dritto barocco che conosciamo oggi. La Sonorità è piena e vellutata, delicata nel grave, ma molto potente nell’acuto.
La dulciana è l'antenato diretto del fagotto, la sua sonorità è dolce e suscettibile di inflessioni: "... le dulciane... come i fagotti... hanno una risonanza dolce e tenera..., forse è questa la ragione, la loro delicatezza, per cui sono state chiamate dulciane, quasi dulcisonantes".
La cennamella soprano era chiamata piffaro; su questo strumento, antenato dell’oboe, era possibile suonare solo una data scala, cioè non si potevano suonare alcuni semitoni. Secondo Praetorius, il suono richiama "il grido di un’oca".
Come strumenti del continuo, o "strumenti di base" come li si chiamava all'epoca, bisognerebbe impiegare solo strumenti di fabbricazione italiana, quindi col timbro italiano. Per quanto riguarda il modo di suonare del continuista, Praetorius lo descrive in questo modo: "Deve suonare, a partire dal basso continuo o dalla partitura e il più semplicemente possibile, senza complicazioni, le note così come si seguono l‘un l’altra e in particolare non fare molti fregi o colorature nella mano sinistra in cui procede il fondamento. Se però vuole mettere alla mano destra una certa vivacità o un po’ di movimento in cadenze delicate o in clausole, lo deve fare con moderazione e discrezione, in modo che i concentores non ne siano impediti o disturbati nelle loro intenzioni, o la loro voce non ne sia oscurata e soffocata".
Oltre agli strumenti a tastiera, il liuto rimane uno strumento di continuo importantissimo per questa musica: "E' concepito unicamente (a causa degli ampi stacchi non vi si possono fare colorature né diminuzioni: al contrario bisogna suonare semplicemente, senza giri) perché un soprano o un tenore possa cantarci sopra viva voce, come su una viola bastarda. Ma è anche molto buono da utilizzare e molto piacevole da sentire quando viene impiegato in un concerto completo a fianco di altri strumenti o quando serve oltre o in luogo del basso".
Gli strumenti, i musicisti specializzati nel suonarli, l'esattezza delle questioni stilistiche: tutto questo non ha alcun valore se lo si considera un fine in sé e non un mezzo - d'inestimabile valore - per resuscitare questa musica in tutta la sua vitalità e il suo ardore. Deve essere questo, e nessun altro, l'obiettivo e il fine ultimo di tutti gli sforzi, quando si cerca di far suonare la musica di uno dei più grandi geni del passato in un modo che faccia anche sentire un po’ l'atmosfera di quel tempo.
 
Nikolaus Harnoncourt ("Il discorso musicale", Jaca Book, 1985)