Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, febbraio 23, 2020

Quando Stravinskij batteva cassa

Che c'è da dire ancora su Igor Stravinskij? Restauratore e progressista, barbaro e cerebrale, neoclassico e seriale, russo e votato all'Occidente: imprevedibile, inesauribile, curioso. Radicato nel proprio secolo, proiettato nel futuro. Ma anche visitatore spregiudicato della storia, pronto a risalirla fino a Pergolesi e a Gesualdo. Straordinario per violenza inventiva e per talento nel cambiare strada restando sempre se stesso. Ma alla forza del genio, l'autore e di Petrouschka e del Sacre du printemps univa un temperamento che definire venale sarebbe un eufemismo. Stravinskij sapeva conquistare bene i suoi guadagni. Manager di se stesso, discuteva i propri contratti con caparbia feroce. Se questa è una caratteristica già nota, documentata dalle varie biografie, a enfatizzarla arricchendola di nuovi episodi arriva il carteggio, rimasto finora sorprendentemente inedito, che il compositore tenne negli anni ' 50 coi responsabili della Biennale di Venezia. Scovata dal musicologo Egidio Pozzi nel fondo dell' Asac, l' Archivio Storico delle Arti Contemporanee di Venezia, la corrispondenza è relativa alla commissione fatta a Stravinskij dal XIX Festival Internazionale di Musica Contemporanea di un nuovo pezzo per tenore, baritono, coro e orchestra. Il progetto sfociò nel Canticum sacrum ad honorem sancti Marci nominis, eseguito in prima mondiale nella Basilica di San Marco, con la direzione dell' autore, il 13 settembre del '56. La serata, spiega Pozzi, ottenne esiti contrastanti: "In molti attaccarono la partitura stravinskiana, che denota un primo approccio alla musica seriale: un critico parlò addirittura di Assassinio nella Cattedrale". Aperto da musiche di Andrea e Giovanni Gabrieli, Monteverdi e Schutz, il programma, nella prima parte, era diretto da Robert Craft, inseparabile "segretario musicale" di Stravinskij, il quale lo aveva imposto ai dirigenti veneziani con una prepotenza che non ammetteva repliche. Passava poi al maestro russo il podio del concerto, che proseguiva col Canticum e con le Variazioni canoniche sopra l'inno natalizio Vom Himmel hoch da komm ich her di Bach, trascritte da Stravinskij per coro e strumenti. Distribuite nell'arco di un triennio, dal '53 al ' 56, e indirizzate soprattutto ad Alessandro Piovesan, organizzatore del festival, le lettere documentano le trattative, travagliatissime, intercorse tra il compositore e la Biennale. In principio Stravinskij avrebbe dovuto scrivere una Passione secondo San Marco, da eseguire proprio nella basilica del santo, idea entuasiasmante per i veneziani, e aveva promesso d'inserire nel festival del '53 la prima mondiale del suo Septet, che fu invece destinata a Washington. Per due motivi: nel '53 il pezzo non era stato terminato e in quell'anno Stravinskij, che viveva in California (è sempre in testa alle sue lettere l'indirizzo di Hollywood: 1260 North Wetherly Drive), aveva deciso di non mettere piede in Europa. Visto che aveva instaurato "la prassi che i miei lavori siano diretti da me stesso fin dall'inizio", scrive in una lettera a Piovesan, abbandonò l'idea di dare il debutto a un'istituzione europea. E' nel '55, dopo una serie lunga e faticosa di discussioni contrattuali, che a Piovesan giunge una notizia poco confortante: non solo la composizione di Stravinskij per Venezia non sarà la Passione, ma il brano sostitutivo non durerà più di 15 minuti. Piovesan, che aveva sperato in 40 minuti, implora di arrivare almeno a 25. Da allora in poi è tutto un bisticcio epistolare, in particolare sui soldi. Stravinskij aveva chiesto alla Biennale un compenso di 15.000 dollari, "di cui 12.000 per la composizione e 3.000 per la direzione d' orchestra, da pagare in dollari negli Usa", scrive il maestro segnalando suddivisioni in versamenti e saldi. Della cifra, spaventosamente alta per gli anni '50, 6.000 dollari erano richiesti all'inizio del lavoro di composizione. Ma non arrivano e Stravinskij è furioso. Quando il problema è risolto ne sorge un altro: Stravinskij vuol dividere la direzione del concerto con Craft, a cui esige siano affidate le musiche dei maestri antichi. Piovesan è irritato, teme una caduta di tono e vorrebbe che il concerto fosse diretto tutto da Stravinskij. Il quale ragisce con un telegramma rovente: "Se non ricevo immediata accettazione telegrafica di tutti i punti....cancellerò mio viaggio a Venezia". Poi si battaglia sui compensi. Piovesan, agitatissimo per la cifra da corrispondergli, timoroso di una richiesta aggiuntiva per la trascrizione delle Variazioni di Bach, scrive a Ernest Roth, direttore della Boosey & Hawkes, casa editrice del compositore: "Glielo voglio subito confessare: non potrei in nessun caso ottenere alcun compenso aggiuntivo a quello del contratto. Se Stravinskij pretendesse qualche somma in più, sarebbe per noi tutti un disastro". Stravinskij non demorde, lancia frecce telegrafiche ("Situazione deve concludersi!"), discute sulla "somma in causa" e sull'"ammontare del cachet". E tra una cifra e l'altra affiora un'indicazione di preveggenza clamorosa: "Per i brani di Schutz e Monteverdi vorrei suggerire....una giovane soprano americana che sarà in Europa in quel periodo, Marylin Horne (futura mezzosoprano-star, ndr)". Ogni volta, di fronte alle incomprensioni, il grande Igor, con autorevolezza e arroganza, minaccia ritorsioni e defezioni. E ogni volta i veneziani reagiscono impauriti o indulgenti alle sue richieste, mentre Stravinskij elenca conteggi dettagliati e anche noiosi, litiga sui diritti radiofonici, impone persino, come fosse il suo agente, quanto la Biennale dovrà corrispondere a Craft, che lui ha preteso fosse impegnato come direttore: 400 dollari, contro i 3.000 del contratto di Stravinskij direttore. Piovesan, accorato, chiede sconti e il musicista cede su qualche punto. Per amore di Venezia, città adorata dal compositore, tanto da eleggerla sua ultima dimora: morto nel '71, fu seppellito nel cimitero veneziano degli ortodossi, vicino alla tomba di Diaghilev. Sostiene Egidio Pozzi, che oltre a essere il ritrovatore delle lettere stravinskiane inedite ha curato il catalogo dell' edizione della Biennale Musica attualmente in corso (nel cui programma appare un'ampia fetta dedicata a Stravinskij, con un'integrale della sua musica da camera): "Quel che più emerge, da questa corrispondenza, è il contributo enorme che il compositore diede all'evoluzione dei rapporti tra musicista e committente. Dall'alto della sua posizione, Stravinskij imponeva tempi e condizioni proprie. Affermò un modello nuovo di musicista nella società, facendo calare il sipario sull' immagine romantica dell' artista preso solo dal fuoco della creazione e sprezzante dei rapporti mercantili". Altro che sprezzante: tonante e perentorio se parla di compensi, Stravinskij può sfiorare toni da contabile spietato. Per esempio quando avverte che in cambio dell'accettazione di una serie di condizioni poste dai veneziani, i quali implorano qualche minuto di durata in più per il suo pezzo nuovo, la rata finale del pagamento potrà essergli corrisposta "solo dieci giorni prima della data del concerto". Che graziosa concessione.
Leonetta Bentivoglio
("la Repubblica", 14 settembre 1999)

sabato, febbraio 08, 2020

Franz Joseph Haydn: La Creazione

Nell'archivio del teatro di Händel a Londra, il Drury Lane, si trovava un manoscritto intitolato The Creation of the World, ispirato liberamente al Paradise Lost di Milton. Secondo Gottfried van Swieten, traduttore del libretto in tedesco, Haydn ricevette il manoscritto dall'impresario Salomon alla fine del suo secondo soggiorno londinese, nell'agosto 1795. Un altro aneddoto, invece, attribuisce l’idea al violinista François Hippolyte Barthélemon. Haydn, impressionato dal Messiah di Handel, avrebbe chiesto al collega quale fosse un soggetto adatto per un oratorio, e Barthélemon, afferrata la Bibbia, rispose: "Eccolo qui, e cominci dall'inizio!".
In ogni caso, Haydn lavorò al progetto di ritorno a Vienna. Il 30 aprile 1798 si tenne la prima esecuzione in forma privata presso il palazzo del principe Joseph zu Schwarzenberg, con un tale successo che si dovette replicare il lavoro il 7 e il 10 maggio. I comuni viennesi furono però costretti ad attendere fino al 19 marzo 1799 per ascoltare Die Schöpfung, a causa di contrasti con Salomon, che pretendeva la prima esecuzione pubblica a Londra. Il concerto fu un evento memorabile, con un coro di ben 180 persone. La Creazione raffigura un mondo governato con mano saggia da un'autorità benevola e provvidenziale: il male è stato cacciato dalla terra e nulla disturba la gerarchia delle creature, obbedienti e disciplinate, e la felicità dell’individuo e il benessere della famiglia rappresentano il compimento supremo del progetto divino.
L’introduzione della Prima Parte raffigura il Caos. Il primo personaggio ad apparire è Raffaele, che intona le parole del Genesi "In principio Dio creò il cielo e la terra". La luce esplode all'improvviso, in do maggiore, con un fortissimo dell’orchestra. Haydn custodì gelosamente la sorpresa, tanto da non mostrare questa pagina nemmeno a Swieten prima dell'esecuzione. La prima Aria (n. 2) è cantata da Uriele, che solca il cielo sui raggi del sole. Il Coro n. 4 introduce un nuovo personaggio, Gabriele. La voce dello spirito è introdotta da un tema dell'oboe, che esprime lo slancio dell'angelo guerriero. L'Aria di Raffaele (n. 6) è un grande atlante di figure, in cui si scorgono oceani schiumosi e montagne che toccano il cielo, fiumi serpeggianti e valli solcate da ruscelli. Gabriele completa il giorno con un Recitativo (n. 7) e un'Aria (n. 8). L’erba cresce sulla terra e i frutti maturano sulle piante, seminati dalla parola di Dio. Il Coro angelico (n. 10) celebra l’opera del terzo giorno: quando il testo ricorda che il Signore ha rivestito i cieli e la terra di splendide vesti, i bassi iniziano la prima delle tre fughe incluse nell'oratorio. Un Recitativo secco (n. 11) e uno accompagnato (n. 12) sono dedicati alla creazione delle stelle e degli astri. Haydn, sensibile al fascino del cielo, visitò a Londra il famoso telescopio di William Herschel, che gli ispirò forse la bella pagina orchestrale che apre il recitativo. La prima parte si conclude con il famoso coro "Die Himmel erzählen die Ehre Gottes" (n.13). Il trio degli angeli evoca una delle immagini piu potenti della Bibbia ("Un giorno rivolge parole all'altro, una notte comunica conoscenza all'altra", Salmi 19, 2). Haydn coglie soprattutto il contrasto tra giorno e notte, che getta sulla musica un'ombra leggera.
I primi numeri della Seconda Parte formano il più sorprendente giardino zoologico della storia della musica: Haydn evoca un mondo di figure, in parte tolte dai bestiari medioevali, in parte legate ai boschi e alle fattorie della sua infanzia. Gabriele si occupa degli uccelli, con un breve Recitativo (n. 14) che conduce all’Aria (n. 15). La tavola ornitologica presenta l'aquila, l'allodola, la colomba, l'usignolo; poche volte Haydn si è spinto tanto in là come nel riquadro destinato ai piccioni, rappresentati con arguzia da una coppia di fagotti. Il Recitativo accompagnato di Raffaele (n. 16) è uno dei numeri più suggestivi. Dio crea le balene e tutti gli esseri in movimento. La forza misteriosa e possente della vita, sul ritmo dei contrabbassi, anima il Poco adagio in re minore. ll Terzetto (n. 18) e il Coro (n. 19) sono saldati in un’unica grande scena. Il la maggiore del Terzetto è terso come l'aria del mattino, quello del Coro risplende come il sole a mezzogiorno. L’effetto trascinante del tema di Gabriele si trasmette a ciascuna voce, e trova un’efficace sbocco nel crescendo poderoso sul pedale del coro alla parola "ewig", eterno. Un articolato racconto di Raffaele introduce il sesto giorno. L’arcangelo ricorda la parola creatrice di Dio (n. 20), poi passa a illustrare il regno animale con un Recitativo accompagnato (n. 21) e un’Aria (n. 22). Haydn si diverte a disegnare gli animali in un affresco naif: il ruggito del leone, l'empito della tigre, la corsa del cervo, il nitrito del destriero, il pascolo degli armenti, lo strisciare del verme.
La creazione del genere umano è affidata al racconto di Uriele, con un Recitativo secco (n. 23) e un’Aria (n. 24). L’Aria è in do maggiore e ha almeno due caratteristiche notevoli: dopo aver ammirato l'aspetto dell'uomo, Uriele intona due volte la frase "E nei suoi occhi brilla lo spirito, alito e immagine del Creatore". Queste otto battute rappresentano forse il passo più sorprendente di tutta la musica di Haydn, e piace pensare che un'invenzione così notevole sia messa a testimonianza dell’intelligenza umana. L'altra magnifica idea è il solo di violoncello e la strumentazione del passo che riguarda la creazione di Eva, nata come Venere dal soffio della primavera.
La Terza Parte, dopo il Recitativo di Uriele (n. 29), si apre con un accordo di mi maggiore, analogo all'unisono da cui prese forma l’universo. L’ultima sezione rappresenta infatti una parodia poetica delle prime due. La creazione del mondo è ripercorsa dall'inizio, ma nella prospettiva del destino umano. Nell’Eden, dove Adamo ed Eva vivono in pace con la natura, le armonie discendono dal cielo. Il suono di tre flauti rende l'orchestra suadente, e il dolce timbro dei corni e degli oboi si spande sull’armonia. L'Inno a Dio e alla vita (n. 30), Lobgesang com'era nominato nell'edizione originale, ripercorre le tappe essenziali della creazione. Adamo ed Eva scoprono il mondo con occhi colmi di meraviglia e ammirazione; Adamo loda il sole, Eva la luna, l’uno comanda il regno animale, l’altra parla a quello vegetale. Questa fusione di caratteri diversi in un sentimento perfetto, frutto della comunione del corpo con lo spirito, è il preambolo alla parte della Creazione più consona ai temi sviluppati da Milton. Per il poeta, infatti, "la gioia del Paradiso è soprattutto una gioia dei sensi". Satana osserva con invidia e perfino rimpianto i due amanti dell’Eden. Egli conosce il dolore della privazione dei sensi, e in questa crepa sottile del destino umano versa il veleno del peccato, distillando nel piacere l'idea di morte. La scena finale dell’oratorio è un colloquio amoroso tra l'uomo e la donna, vissuto con intensa sensualità. Il Recitativo accompagnato (n. 3l) che precede il Duetto (n. 32) freme di emozione. Nella voce di Eva, che vola verso l’alto sulla parola "Freude", gioia, avvertiamo un brivido tutt'altro che spirituale. Adamo ed Eva esprimono la calda umanità del loro essere, in una forma che richiama quella del rondò. Nell'Adagio iniziale cantano entrambi la stessa linea melodica, ma ciascuno nella propria dimensione. L'estasi lascia il posto alla danza, all'espressione fisica della felicità amorosa. La natura stessa vibra nelle vene dei due amanti, con il profumo dei boschi, l’aroma della resina. L'anima, in questo perdersi dei corpi, è dimentica di Dio, ignara di Satana, che spia la loro felicità dal buco della serratura, come un vecchio voyeur. Adamo ed Eva finiscono per unire il loro canto gioioso benedetti da Uriele, che con un Recitativo secco (n. 33), prima del Coro conclusivo (n. 34), raccomanda all’uomo di non desiderare più di ciò che ha e di non voler sapere più di ciò che sa.
Oreste Bossini

sabato, febbraio 01, 2020

Quirino Principe: Musica e filosofia (5/14)

IL FILOSOFO AL QUADRATO DEFINISCE LA MUSICA
Quinta parte.
 
Pitagora
La distinzione tra pensiero ed essere, cui la civiltà faustiana, la nostra, non saprebbe rinunciare se non a prezzo di un soffocamento intellettuale, del senso sgradevole di una distanza troppo ravvicinata e "corporea" con l'essere, è il discrimine che distingue la filosofia occidentale dalle altre tradizioni filosofiche. Nelle grandi scuole di pensiero radicate in Oriente, o nella meditazione intermedia, poetico-filosofica, dell'Africa pre-coloniale o dell'America pre-colombiana o dell'Oceania ancora di un secolo fa (illustrata quest'ultima, in Italia, dalla famosa antologia di Roberto Bazlen), il soggetto è a distanza ravvicinata con l'oggetto, la coscienza individuale con la "cosa", con il mondo. In Oriente, nello Zen come nel buddismo ortodosso, nel brahamanismo come nello scintoismo, l'esperienza vissuta è essa stessa un procedimento di conoscenza filosofica; in Occidente, la metodologia filosofica sconsiglia vivamente di confondere i due atti conoscitivi. E' accaduto in Occidente, per quasi tre millenni (da quando, cioè, le influenze orientali più antiche s'illanguidirono nella civiltà dell'Ellade), che si potesse scrivere un tratto filosofico sull'amore senza amare in atto (magari, con l'abito ecclesiatico indosso), o delineare i fondamenti di un'estetica senza essere artista e addirittura senza avere gusto per le cose d'arte, o discutere di musica in termini ontologici senza essere musicista e senza gradire particolarmente le bellezze della Tonkunst, note soltanto agli specialisti capaci di praticarla. Questo primato della teoresi significa anche impulso all'astrazione, ormai, dopo un'assuefazione di tremila anni, divenuto connotato genetico dell'uomo occidentale. Per combattere decisamente ogni ideologia dell'anti-eurocentrismo, non meno errata dell'ideologia sfrenatamente eurocentrica, diremo che la separazione tra pensiero ed essere sotto il segno dell'astrazione non è di per sé un male; è un segno connotativo, e ha garantito, guidata da intenti più che onorevoli e talora sublimi, la limpidezza del filosofare. Naturalmente, ha pagato un prezzo: da attività squisitamente umana, la filosofia è divenuta una "scienza" negata alla maggioranza degli uomini, chiusa nel proprio linguaggio. In prospettiva, ciò prefigura il destino della musica occidentale più recente, che nella sua ricerca di idee chiare e distinte, di purezza teoretica, si è allontanata dal pubblico che ascolta. Progressivamente, la condizione ancora originaria della filosofia occidentale in cui il filosofo partiva dal dato esistenziale (lo Stato, la povertà, la giustizia o ingiustizia, la morte di Socrate, l'indignazione per quella morte, la triade di peste fame e guerra) per poi avventurarsi lungo il vertiginoso cammino dell'astrazione, si è "purificata" aggravando la separazione. Più pura, certo, la filosofia, ma inevitabile la domanda: se per conoscere l'essere mediante il pensiero non dobbiamo "sporcare" il dato di partenza, non dobbiamo prendere le mosse da un pensiero contaminato dall'essere, ciò che alla fine conosciamo che cos'è? Essere, o ancora e sempre pensiero? Ecco la celebre questione del noumeno e del fenomeno, dibattuta da Kant: se per conoscere la cosa in sé (das Ding an sich), ossia il noumeno (l'oggetto nella sua verità, così com'è in sé indipendentemente dal nostro pensarlo e dal suo essere pensato da noi), dobbiamo attivare un'operazione intellettuale, l'oggetto non è forse un phainomenon, ossia qualcosa che noi conosceremo sempre e soltanto attraverso una mediazione, il nostro pensiero, appunto? E poiché, per conoscere, noi non possediamo altro se non il pensiero, esiste un altro mezzo per conoscere quell'oggetto? Ma allora la parola "conoscere" ha un senso? C'è da impazzire, e quando Kant parla in proposito di "disperazione della ragione" la frase va intesa in senso letterale: è probabile che l'impassibile filosofo di Königsberg soffrisse molto, interiormente.
Insomma, nella filosofia occidentale avviene, qualcosa di mostruoso, che tranquillamente viene studiato e storicizzato su tutti i manuali. La vicenda è, lo abbiamo detto, progressiva. Pitagora, Parmenide, Platone, facevano della filosofia partendo da eventi e da cose sotto gli occhi di tutti; quando si occupavano di matematica anche molto raffinata, parlano dei numeri come di psefoi (sassolini), poiché con i sassolini s'insegnava l'aritmetica a scuola e si facevano i conti della spesa al mercato di Atene o di Corinto; quando meditavano sulla musica e sulle leggi dell'armonia, partivano da una corda tesa, una vera corda materialissima. Il cammino della filosofia occidentale conduce gradualmente a una condizione di partenza in cui il filosofo prende le mosse dalla filosofia per fare della filosofia.
Ebbene, proprio il più radicale di questi filosofi al quadrato, Georg Wilhelm Friedrich Hegel, fu giudicato, con giusta nemesi, l'uccisore della sofia avviata nel mondo mediterraneo da ionici ed eleati. Con Hegel, è stato detto, si attua la "fine della filosofia", ed è come quando per togliere da un panno bianco tutte le macchie nella maniera più radicale si dissolve il tessuto nell'acido corrosivo. In modo parallelo, a Hegel, uomo di per sé refrattario al fascino diretto della musica, è dovuta una delle più belle, intense e profonde meditazioni sull'arte dei suoni che mai filosofo abbia scritto. Nell'Estetica (1836-1838, postuma) c'è un'osservazione preliminare e fondamentale sul fine dell'arte, che è triplice: l'imitazione della natura, il risveglio dell'animo sospinto a grandi azioni, il "superiore fine sostanziale" che è la liberazione (ahimé, ahimé!) dalle passioni e dalle debolezze umane. La vocazione dell'Erlöser! E se qualcuno non volesse venire redento, purificato, spiritualizzato? Più avanti, Hegel affronta il "sistema delle arti", distinguendo tra un'arte simbolica, dedita ad elaborare la natura inorganica per farla diventare affine allo spirito (chi scrive si domanda, da una vita, che cosa sia lo spirito), e rappresentata soprattutto dall'architettura; un'arte classica, quella che nel tempio purificato del dio immette l'immagine del dio stesso, e fa muovere la natura inorganica, divenuta spirito, come appunto si muove lo spirito, e questo tipo di arte si concreta nella scultura; finalmente, un'arte romantica, quella in cui la natura divenuta spirito comincia a riflettere su se stessa e s'interiorizza, e tale categoria d'arte è molteplice e si articola in pittura, musica e poesia. Si riconosce, in questa classificazione, una traccia di alto stile, quella che deriva dal Laokoon di Lessing, ossia la distinzione tra le arti che vogliono simultaneità per essere percepite (le arti visive, scultura pittura e architettura) e quelle che esigono la successione temporale per loro stessa fisionomia interna (la poesia, la musica, la danza). La visione di Lessing è modificata da Hegel per quanto riguarda la pittura, associata piuttosto alla musica che non alla scultura.
Ecco come Hegel medita sulla musica, sia pure attraverso le parole dei suoi studenti che, coordinati da Heinrich Gustav Hotho, raccolsero le lezioni del maestro a Heidelberg e a Berlino. "Il materiale della musica, sebbene sia ancora sensibile, giunge ad una soggettività e particolarizzazione ancora più profonde [di quelle della pittura]. Il porre idealmente il sensibile da parte della musica va infatti cercato in questo: che essa supera l'indifferente coesistere esteriore dello spazio, la cui parvenza totale la pittura lascia ancora sussistere e a bella posta simula, e lo idealizza nell'individuale unità del punto. Ma il punto, che in quanto tale è negatività, è l'eliminazione in sé concreta ed attiva, entro la materialità, di tutto ciò che è movimento e vibrazione del corpo materiale in se stesso, e nel suo rapporto con se stesso. Tale idealità iniziale della materia, che non appare più come spaziale ma come idealità temporale, è il suono, il sensibile posto negativamente, la cui astratta visibilità si è mutata nell'udibilità; in quanto il suono scioglie l'ideale dal suo incatenamento nel materiale. Questa prima intimità ed animazione della materia offre ora il materiale per l'intimità e per l'anima dello spirito, ancora indeterminate, e fa risuonare e svanire nei suoi suoni l'animo insieme con l'intera scala dei suoi sentimenti e delle sue passioni. In tal modo, come la scultura è il centro tra l'architettura e le arti della soggettività romantica, così la musica costituisce a sua volta il punto centrale delle arti romantiche e forma il punto di passaggio tra l'astratta sensibilità spaziale della pittura e l'astratta spiritualità della poesia. La musica, in quanto opposizione di sentimento e interiorità, ha in se stessa, come l'architettura, un rapporto intellettuale di quantità e nel contempo il fondamento di una salda regolarità dei suoni e della loro combinazione".
La prosa è pessima, e assicuriamo i lettori che la traduzione italiana di Nicolao Merker è stilisticamente migliore dell'originale, così come garantiamo che il modo di scrivere adottato dai discepoli di Hegel e da Hotho in particolare non è molto dissimile da quello del maestro: chi ha letto la Fenomenologia dello spirito lo sa bene. Eppure, con tutto il mal gusto nello scrivere, è una pagina essenziale nella storia dell'Occidente; una pagina che spiega quasi tutto quel che è accaduto, e ci fa balenare promettenti splendori misti a raggelanti, equivoche luminescenze. Ne affidiamo il commento alla prossima puntata.
Quirino Principe
("Musica Viva", n. 5, Maggio 1990, Anno XIV)