Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

sabato, ottobre 15, 2022

Dodecafonia e fenomenologia

All'inizio di questo secolo il mondo del 
pensiero soffrì per un tradimento di inimmaginabile portata, che provocò una lacerazione dolorosa: l'ormai secolare rapporto gnoseologico fra soggettivo e oggettivo venne meno, in quanto la cosiddetta «oggettività» si offuscò, perse i suoi usuali lineamenti così chiari e rassicuranti e parve confondersi con la sua eterna rivale o antagonista, la soggettività. Le categorie del pensiero e le pulsioni dello spirito si dichiararono insoddisfatte di ciò che era stato loro offerto per tanto tempo come riferimento assoluto e imprescindibile (la presunta oggettività ostentata da empirismo e positivismo) e decisero di rifondare il mondo della conoscenza con un atto di ricostruzione universale. Si rimise in discussione tutto, i fondamenti stessi della coscienza pensante e 1'indirizzo generalmente seguito fu quello di una radicale introiezione dei contenuti e delle forme.
Il mondo esterno, una volta sede delle verità supreme, fu messo tra parentesi e venne ricondotto ai suoi presupposti originari nell'ambito dell'io: la psicanalisi freudiana lo volle far risalire (in modo alquanto riduttivo) alla sfera inconscia predominata dalla dinamica sessuale, mentre la ben più costruttiva e «culturale» visione junghiana lo ricondusse alla dimensione degli archetipi inconsci, sorta di forme mitiche liberatorie, esistenti quali perenni tramiti fra l'uomo e il suo destino. Il movimento espressionista teorizzò nell'arte la liberazione dello spirito per mezzo dell'urlo interiore (Ur-Schrei) e raggiunse il suo culmine musicale con le figure di Schönberg, Berg e Webern, esponenti sommi della dodecafonia. Come lo «streben» romantico reagiva alle classificazioni illuministe, così l'esplosione cosmico delirante dell'espressionismo dilacera le concrete sicurezze del positivismo ricorrendo a uno stile che scava nella realtà il segno dell'espressione interiore e che pertanto giunge a vedere il mondo come proiezione della coscienza pensante. Ne deriva che la secolare scissione tra soggetto e oggetto cessa di esistere, poiché le due dimensioni confluiscono in un'unità trascendentale: un immenso afflato cosmico sospinto dall'intuizione, dal misticismo e dai contenuti del subconscio, che si traduce in espressione artistica.
Il pensiero filosofico di Edmund Husserl ratifica in termini puramente conoscitivi ciò che l'espressionismo ha intuito in chiave lirica: il non esistere di un'oggettività che non sia frutto della tensione «intenzionale» della coscienza, vale a dire dell'attività intuitivo-razionale che coglie le essenze (eidos) di cui è costituita la totalità della vita. Platonismo di Husserl? In un certo senso sì, anche se non bisogna porsi la domanda con accento dispregiativo: la presunzione del grezzo razionalismo positivista ci ha forse indotto a dimenticare o a rimuovere il valore imprescindibile che ha l'intuizione nel procedimento conoscitivo? D'altro canto l'attributo composto «intuitivo-razionale» evoca i fantasmi di Spinoza e di Bach, i quali ci ricordano come la formula introspettiva dell'abbandono conscio all'inconscio costituisca ancora e sempre il più valido elemento creativo, non essendo la realtà altro che il modo con cui noi la rappresentiamo o, per dir meglio, non essendo la realtà altro che i presupposti sostanziali (non formali) con cui noi compiamo questa proiezione rappresentativa. Detto ciò si ritorna a Husserl e alla sua «intenzionalità» della coscienza: si tratta in fondo di uno «streben» rarefatto, proteso a cogliere la trama del reale, la quale si rivela non già perché assente in sé, bensì in quanto calamitata dall'attività costitutiva e intenzionale della coscienza. Vi è un aspetto anche religioso della questione, secondo cui la verità si rivela solo alla coscienza che la ricerca e ricercandola la costituisce in un anelito infinito (posizione, questa, tipicamente luterana, molto simile alla ricerca del «deus absconditus»: non per nulla Husserl, ebreo di origine, si convertì al protestantesimo).
In definitiva, però, la posizione husserliana ha molti punti di contatto con quella espressionista, specie nella costante attenzione a non dare alcuna definizione obbiettiva del mondo per lasciare infinita espansione allo spirito, il quale agisce nel segno del possibile e non del concreto obbiettivato. Certo così il mondo viene perso, poiché esso costituisce la sede di ciò che viene dato per scontato e Husserl vuole appunto mondare la vita da queste stratificazioni illusorie per entrare in una dimensione scevra da
tali pseudo-oggettività a sfondo empirico-positivista. La perdita del mondo è dunque perseguita in visione di una futura totalità incorrotta, che egli chiamerà «mondo della vita» (Lebenswelt), definendola come il totale delle esperienze concrete che stanno prima delle categorie della nostra mente: una esperienza concreta, dunque, del puro intuibile.
Analizzando i principi teorico-espressivi della scuola dodecafonica si notano non poche analogie con il pensiero di Husserl, analogie che rilevano la convergenza dell'una e dell'altro verso fini comuni. Fra le leggi fondamentali della dodecafonia Schönberg stabilì che ciascun suono dovesse essere considerato come a sé stante e in correlazione con la serie di dodici: tale visione del rapporto individuo-collettività richiama assai da vicino la visione «monadica» e «intermonadica» che Husserl ritiene essere il fondamento delle esperienze vissute e secondo cui non è possibile avere conoscenza di sé, senza avere conoscenza dell'altro da sé. D'altro canto appare chiaro come il totale cromatico seriale corrisponda al mondo della vita, al precategoriale di Husserl, a quella totalità incorrotta, che costituisce il fondamento della vita conoscitiva. Molto simili sono anche i due modi di «perdere il mondo»: la dodecafonia rifiuta l'idea del tema come ente gerarchico imposto dall'alto e poiché il tema è il mondo cui ruota attorno ogni composizione musicale essa vuole perdere il mondo, ovvero il centro gravitazionale su cui poggia gran parte della musica. Anche 1'epoché husserliana procede verso il rifiuto di ogni crisma dedotto dall'alto e si procura la perdita del mondo. Entrambe le posizioni, musicale e filosofica, contengono in sé una fondamentale contraddizione: alla estrema razionalità del costrutto e dell'indagine speculativa fa da contrasto una tensione irrazionale e intuitiva verso un mondo primigeneo, nel cui ambito si trovano le essenze, verso la totalità della vita. Ancora una volta appare l'inamovibile legge creativa del conscio abbandono al flusso dell'inconscio, che, in termini psicologici si potrebbe tradurre come un controllo della coscienza morale (il rigore formale) sull'inconscio (la produttività inventiva). Alla emancipazione della dissonanza di Schönberg (il che vale a dire riconoscimento di tutto l'elemento sonoro e non solo di quello gradevole per la soggettività umana), corrisponde il rifiuto husserliano della rassicurante stratificazione conoscitiva a favore di una ricerca dei presupposti assoluti della vita della coscienza. Infine sia la dodecafonia che la fenomenologia rappresentano un disperato tentativo di sublimare la tradizione spezzandola e rifondandola: Schönberg spezza la legge della gravitazione tonale per ristabilirne una più vasta, ove ogni suono sia centro di se stesso (monade) e dove il totale dei suoni divenga crisma dell'assoluto. Dalla posizione tematico-deduttiva di Bach (che sempre fu punto di riferimento per la scuola di Vienna) si giunge così a una sintesi di pari intensità sonora, la cui emanazione, però, avviene dal basso, ovvero dal magma sonoro in tutti i suoi modi d'essere e non da una trascendenza dedotta musicalmente, come è il caso di Bach. Husserl, dal canto suo, spezza la tranquillizzante tradizione dell'obiettivismo, comodamente adagiata sulla certezza di una oggettività inamovibile e dilata la tensione «intenzionale» della coscienza fino a colmare ogni vuoto possibile, fino a porla in contatto diretto con le «essenze» e «il mondo della vita», vale a dire ancora con i fondamenti di se stessa: tutto ciò per creare una totalità che non venga mai meno, un mondo che non obbiettivandosi mai, non possa pietrificarsi.
Alcuni hanno voluto ravvedere in questi due grandi momenti della musica e del pensiero i due estremi tentativi del conservatorismo di mantenere un ordine rigoroso, mutato, ma pur sempre tale. In verità il dramma di queste due figure solitarie è di carattere introspettivo e viene simbolicamente enunciato nell'opera «Mosé e Aronne» di Schönberg: l'irrealizzabilità della purezza ideale, che non può divenire azione senza essere tradita e forse l'ormai raggiunta inadeguatezza espressiva alla comunicazione dei contenuti più profondi della coscienza. A questo punto non resta che il silenzio: essendo impossibile esprimere il totale, si tace.
Davanti a tale ipotesi, che rappresenterebbe la morte dell'arte (e noi sappiamo che l'arte non può morire, essendo lo sfogo dell'insoddisfazione esistenziale, il tentativo di creare qualcosa che il mondo non ci dà), Schönberg, Berg e Webern tornano ad ispezionare il barocco, a cercare di stabilire una alleanza in extremis fra espressionismo e barocco, alleanza che riesce a sussistere per la componente lucido-delirante di tipo paranoide che accomuna i due modi di concepire il bello e la verità. L'espressionismo musicale ci presenta un turbinio glaciale e allucinato, una sorta di folle esattezza di tipo kafkiano e deve alimentare queste sue tematiche con un sussidio di energia, di fede che può provenirgli soltanto dal barocco, da Bach in particolare. E Bach viene ripreso proprio per la sua visione geometrico-intuitiva del mondo, per il suo tentativo gigantesco di incidere la trama del reale con un taglio preciso, nitido, assoluto. I compositori dodecafonici trascrivono e variano sul tema di Bach, lo indicano come un limite invalicabile, lo ristudiano: ancora una volta egli si mostra come la pietra angolare di tutto il pensabile in suoni.
Con un parallelismo di intenti quasi sorprendente Husserl ritorna a Cartesio per coronare il suo iter speculativo con le famose «Meditazioni cartesiane»: tuttavia ciò che si sottrae alla messa fra parentesi radicale di Husserl (l'epoché) non è la certezza di un soggetto singolo, come in Cartesio, ma è la  universalità della funzione della coscienza nella «costituzione» del mondo (e siamo dunque tornati all'idea della coscienza come matrice della realtà).
Proprio su questa lancinante nota introspettiva appare esemplare la figura di Webern, con il suo stile aforistico, stoico, ai limiti del silenzio; la sua essenzialità sembra ormai alludere all'inesprimibiile e rammenta la grande sentenza agostiniana con cui Husserl conclude le «Meditazioni»: «Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas». E tuttavia tale vita interiore è irta di difficoltà, di contraddizioni, poiché la nostra mente tende sempre, per una stanca abitudine, a ricadere nell'obiettivismo, a voler ottenere per il compito infinito delle scienze dello spirito garanzie metodologiche e limitate sicurezze concrete, che competono alle scienze empiriche nel loro ambito statistico ed enumerativo. «Contro questo estremo pericolo - scrive Husserl in "La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale" - combattiamo in quella vigorosa disposizione d'animo che non teme nemmeno una lotta destinata a durare in eterno; allora dall'incendio distruttore dell'incredulità, dal fuoco soffocato della disperazione per la missione dell'Occidente, dalla cenere della grande stanchezza, rinascerà la fenice di una nuova interiorità di vita e di una nuova spiritualità, il primo annuncio di un grande e remoto futuro dell'umanità: poiché soltanto lo spirito è immortale».
Paolo Fenoglio
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIX n. 3, dicembre 1976)

sabato, ottobre 08, 2022

Costruire una sensibilità: Giulio Prandi e il Ghislieri di Pavia

Negli ultimi mesi, il nome di Giulio 
Prandi è ritornato con una certa frequenza sulle nostre pagine, complice soprattutto la vittoria nella categoria “Musica corale” agli ICMA 2022 con la splendida incisione della Petite messe solennelle di Rossini (che ha appena riproposto al Festival di Stresa: e la recensione è sul nostro sito). Ma in realtà era dal febbraio 2014 che non ci intrattenevamo con il direttore d'orchestra e di coro pavese, nonché direttore artistico del Centro di Musica Antica della Fondazione Ghislieri di Pavia: l'occasione per tornare a parlare con lui viene dai prossimi concerti al Festival Mito (il 15 a Torino e il 16 a Milano), in cui accosterà due Stabat Mater, uno piuttosto raro - quello di Caldara - e l'altro celeberrimo, quello di Pergolesi.

Qual è il senso di questo accostamento?
Nicola Campogrande, direttore artistico di Mito, ama proporre concerti con lo stesso testo messo in musica da differenti compositori: l'interesse sta nel fatto che quello dello Stabat Mater è un testo potente e attuale, che è in grado di parlare a chi, pur non essendo magari religioso, ha una spiritualità. D'a1tronde il Ghislieri, con i cui complessi eseguiremo le due partiture, è un'istituzione laica, e tale sono anch'io. Ma si parla di una madre che sacrifica se stessa per il bene dell'umanità, e ne soffre in prima persona: questo è potentissimo, è una tematica universale. La partitura di Pergolesi è diventata iconica, e quindi è difficile oggi dirigerla, ma l'amo molto perché si presta - come tutte quelle celeberrime - ad essere travisata, il che non è necessariamente un male: vuol dire che si possono realizzare letture molto lontane tra loro, molto personali, che diventano un patrimonio. Ogni lettura è fi-
glia del proprio tempo, è un atto necessariamente contemporaneo.
Come descriverebbe, in poche parole, lo Stabat di Pergolesi. E quello di Caldara, invece?
Il primo è l'opera di un genio. Ma chi è, anzi chi era il genio? Colui che sa parlare meglio degli altri una lingua condivisa; l'ispirazione non è tanto nella melodia o nell'artificio armonico (il celebre incipit deriva da una formula notissima all'epoca), ma nel modo in cui viene sviluppata, negli elementi con cui si “vestono” le parole, a partire dal trillo su “Pertransivit gladius”, che sembra fermare il momento in cui la lancia entra nelle carni di Gesù. Quanto a Caldara, parliamo di una figura di primissimo piano nel panorama dell'epoca, che a Vienna adotta una strategia diversa (e ricordiamo che gli Stabat di Pergolesi e quello di Caldara sono separati da meno di un decennio; il secondo data intorno al 1725, il primo intorno al 1734): c'è l'organico della Hofkapelle, ossia archi e due tromboni, con il coro, e una successione di movimenti molto brevi, icastici nel dare un senso alle parole con strumenti immediatamente intellegibili, derivati dalla tradizione polifonica. C'è un'espressività altrettanto efficace e forte, ma nel segno di una maggiore essenzialità.
Lei lavora da lungo con i complessi del Ghislieri: come siete cambiati?
L'anno prossimo saranno vent'anni di percorso comune: e i musicisti non sono cambiati granché, le prime parti sono le stesse, così come molti dei cantanti. Forse è questa la chiave: questo tipo di musica richiede pratica, un lavoro lungo di immedesimazione e approfondimento, perché è solo in apparenza repertorio semplice, che invece attinge ad un universo di affetti, e di legami con le forme musicali, che oggi non conosciamo. Il repertorio italiano del 18° secolo, che io difendo a spada tratta, non è come altri - penso a Bach - in cui c'è tutto scritto, in cui la grande sapienza dell'autore è evidente: se mi permette il paragone, è come la cucina italiana, che con pochissimi elementi raggiunge altezze sublimi. Ma ci vuole uno studio profondo per decifrare il mondo di codici non scritti, di essenzialità; e poi ci vuole sensibilità, che si costruisce solo in anni di pratica comune, che ti porta piano piano a entrare in sintonia intima con quella musica. Io mi muovo nel mondo delle esecuzioni “storicamente informate", che però è anzitutto l'educazione a una sensibilità particolare.
Anche perché sarebbe difficile ricreare questa sensibilità quando dirige orchestre diverse da quella del Ghislieri...
lo ho una doppia vita: quella di direttore freelance e di direttore del Ghislieri. Dirigo al Carlo Felice, la Toscanini, l'orchestra dell'Arena, e i giorni di prove variano da un paio (per il Sinfonico) a una quindicina (per l'opera): in questo breve lasso di tempo devo trasmettere qualcosa. Allora subentra una sfida: fare le prove con i “sì” e non con i “no”, con le proposte e non con i divieti. Posso sommergere i professori di informazioni, ma se non subentra una certa sintonia con loro, anche parziale, è del tutto inutile parlare: io mando le parti per tempo, con una grande quantità di informazioni (non solo dinamiche e arcate, ma anche spunti interpretativi). E poi quando sono davanti a loro devo entrare in risonanza, mettermi in gioco.
Pensa di estendere il suo repertorio alla musica più tarda?
Io amo molto quello che faccio, è musica che mi affascina fin da piccolo, quando ascoltavo gli Anthems di Händel, il Requiem di Mozart e mi chiedevo dove fosse il loro equivalente italiano; poi, però, amo le sfide, e per esempio ho accettato di dirigere la Seconda Entrata dalle Indie galanti di Rameau, il 12 ottobre alla Sagra Malatestiana con la Toscanini e una messinscena molto moderna di Anagoor, così come ho accolto la proposta dell'Andromaque di Grétry a Saint-Etienne il prossimo gennaio, un'opera che è una sorta di reazione francese alla riforma gluckiana. Ma quello che, in genere, mi interessa è riflettere sulla musica come fatto non solo artistico ma anche sociale, come patrimonio culturale. Per questo andrò a Utrecht, il 4 settembre, a proporre la musica della Cappella del Duomo di Milano. Non ho fretta e non ho intenzione di fare cose senza senso.
Quali sono, allora, i prossimi impegni e i progetti discografici che la attendono?
Dopo i due concerti di Mito, il cui programma sarà riproposto anche a Jesi, ci attende un progetto vivaldiano che sarà legato anche al disco (Naive ci ha chiesto di completare la parte sacra della “Vivaldi Edition"), con il Magnificat, il Dixit Dominus e un difficile Mottetto per contralto (con Filippo Mineccia): lo faremo a Pavia, per la nuova rassegna “Preludi d'autunno“, e Ambronay. Voglio segnalare che a gennaio uscirà per Arcana un disco dedicato a Mozart a Milano, che sarà anche un concerto, lo stesso giorno, per la Società del Quartetto, nella stessa data e nello stesso luogo (la chiesa di San Marco) della prima esecuzione dell'Exsaltate, jubilate.
Nicola Cattò
("Musica", N. 339, settembre 2022)