Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, gennaio 12, 2023

Il "Tristanakkord" e Mozart

Il Quartetto per archi in mi bemolle maggiore 
(K.428) di Wolfgang Amadeus Mozart porta la data «giugno 1783». E' il terzo dei sei che Mozart dedicò a Franz-Joseph Haydn con la celebre affettuosissima accompagnatoria: «Al mio caro amico Haydn. Un padre, avendo risolto di mandare i suoi figli nel gran mondo, stimo di doverli affidare alla protezione e condotta di un uomo molto celebre in allora, il quale per buona sorte era per di più il suo migliore amico. Eccoti del pari, celebre uomo e amico carissimo, i miei sei figli»... etcetera, in quell'italiano che allora era la lingua internazionale dei musicisti. Ma sui rapporti che legano i sei «Haydn-Quartette» di Mozart all'esperienza quartettistica di Haydn, fondamentale cardine del quartetto per archi moderno, si è scritto a dovere; più o meno, direi che se ne sa tutto; e l'intero gruppo è assai noto ai musicofili grazie, soprattutto, al cosiddetto «Dissonanzen-Quartett», (in do maggiore, K 465).
Anche del Quartetto in mi bemolle, naturalmente, esistono analisi e commenti autorevoli. La sua indole e generalmente serena (ma sappiamo che cosa fluisse dentro la serenità di Mozart); ne affiorano tuttavia delle inquietudini fin dal tema d'inizio del primo tempo, così sfumato e sinuoso. Ma il secondo tempo, «andante con moto», in la bemolle maggiore, contiene un episodio che colpisce l'orecchio e l'occhio di chi lo osservi e lo ascolti oggi, cioè in epoca che conosce da un bel pezzo il Tristan und Isolde di Richard Wagner. E' abbastanza curioso che un aspetto singolare in una composizione assai nota di Mozart venga trascurato, o tuttalpiù menzionato di sfuggita da accreditatissimi studiosi. Bernhard Paumgartner (uno dei pochi a ,farci caso) lo definisce «un meraviglioso presentimento» del Tristano.
Ma veniamo al fatto: sappiamo tutti che nelle battute terza e quarta di quella immensa partitura che è appunto il Tristano, il procedimento che armonizza il brevissimo seguito al primo e fondamentale tema dell'opera viene a formare quello che i tedeschi chiamano «Tristanakkord», «accordo di Tristano», proseguendo in una non meno famosa cadenza sospesa (dominante di la).
Ebbene, nell'«andante con moto» del nostro Quartetto, Mozart presenta - per ben quattro volte - un procedimento quasi identico; le uniche differenze (oltre alla tonalità diversa) sono queste:
1) le «parti» sono scambiate, quella che in Wagner è al soprano in Mozart è al contralto (secondo violino) e viceversa;
2) dato l'andamento della parte superiore, in Mozart al posto del «Tristanakkord» c'è una «triade di sensibile» ossia una normalissima «settima di dominante» priva della fondamentale; però l'orecchio la avverte come una non meno comune «settima diminuita» anticipando il basso che Mozart fa entrare nell'accordo successivo; e si avvicina dunque di più al «sapore» dell'accordo Wagneriano.
Gli accordi successivi sono gli stessi che in Wagner (sempre nella tonalità diversa, mezzo tono sotto). L'insieme richiama irresistibilmente il procedimento del Tristano.
Il curioso è che Mozart non realizza già il «Tristanakkord» solamente perché fa muovere la voce superiore non di un tono intero (intervallo diatonico) ma di un semitono (intervallo cromatico); dunque, perché in certo senso si comporta più «Wagnerianamente» di Wagner (è quasi una boutade; Wagner non ebbe certo il monopolio dei procedimenti cromatici e semitonali, è fatto soltanto di quelli; però...).
Va notato tuttavia che questo muoversi di mezzo tono, Mozart lo deriva dal passo precedente, dove è avviata la risoluzione di una cadenza in mi bemolle maggiore, con andamento cromatico della parte mediana; e che il passo «pretristaniano» viene ideato da Mozart per riportarsi sulla dominante di la bemolle maggiore, tonalità del brano, che però Mozart elude ancora senza risolverla.
Che cosa può significare tutto questo?
Intanto, che sia in Mozart sia in Wagner agisce l'impulso della inquietudine armonica, sia pure con partenze molto diverse; e anche che il passo mozartiano in questione, se lo vediamo in rapporto all'insieme e alla condotta armonica del momento, dovrebbe apparire molto più «inquieto» e inquietante
di quello wagneriano; soltanto, risulta preparato dall'andamento del passo precedente e temperato dalle ripetizioni e dal ritmo più regolare e simmetrico.
Ancora: certe novità sconvolgenti, quando abbiano solide ragioni, hanno quasi sempre basi preesistenti non meno solide; però di questo, solitamente, ci si accorge molto tempo dopo. Proprio del Tristano si è ripetuto, nei decenni passati, che lì - e soltanto lì - Wagner aveva attuato una sua «rivoluzione cromatica», punto di partenza concreto per il successivo dissolversi della tonalità nella «seconda scuola di Vienna» e altrove. Qualcosa di vero c'è; ma non riguarda soltanto il Tristano; e - ciò che conta di più - quella «rivoluzione cromatica» a occhi e ad orecchi meno smaniosi di giustificare scontate «liberazioni» non appare una lotta contro la tonalità, ma un sapiente piegarla in sfumate ma consistenti successioni tonali abbastanza esplicite, anche se alonate dal cromatismo.
Quanto alla noncuranza degli studiosi mozartiani per il passo in K. 428: Einstein non ne accenna, Wyzevva e Saint-Foix non sono molto più loquaci di Paumgartner; tutto ciò si può spiegare proprio con l'essere studiosi mozartiani, e come tali abituati a trovare in Mozart anticipazioni e arditezze, e perciò a non farci più gran caso. Ma nemmeno Mila è più preciso.
Del resto, Mozart resta Mozart, e Wagner resta Wagner; l'uno e l'altro contano e sono grandi soprattutto per quel che sono, più che per quello che annunciano; anche se ha un sapore particolare il trovare aspetti di quello tra i due che era ostentatamente avvenirista, anticipati di settantasei anni dall'altro, cioè da quello che non pensava davvero né all'avvenire né all'avvenirismo.
E non si sa, lì per lì, se trovar molti quei settantasei anni, o invece pochi.
Alfredo Mandelli
("Rassegna Musicale Curci", anno XXIX n.1, aprile 1976)

domenica, gennaio 01, 2023

Debussy al pianoforte

Sulla soglia del Novecento due grandi per
sonalità dominavano la scena dell'arte musicale: Riccardo Strauss e Claudio Debussy. E, dei due, il secondo è quello che più profondamente e durevolmente s'è impresso nel proprio tempo, col, segno inconfondibile d'una permeante soggettività, con l'atticismo parigino, con l'incanto delle atmosfere armoniche librate su sfondi di sogno c di silenzio, con le consapevoli ingenuità e l'assorta meraviglia delle evasioni tonali, sfumanti in remote lontananze. Ciò che in Strauss è in gran parte ordine procedurale, apparato tecnico e costruttivo sospinto dall'enfasi oratoria, prodigioso mestiere (se pur sorretto e alimentato da una straordinaria natura musicale), in Debussy è novità e freschezza di vita interiore, fiore di cultura che riceve le sue colorazioni e il suo fascino da un nuovissimo esperimento d'anima. E già fin d'allora vi fu chi, con percezione rabdomantica delle vene d'arte più schietta, avvertì questa genuinità di fibra dell'arte debussiana. In una lettera del 2 gennaio 1905 Arturo Toscanini scriveva: "Un altro compositore di cui ignoravo quasi il nome ha guadagnato tutta la mia simpatia: il francese Debussy. col suo Pelléas et Mélisande, dramma lirico in cinque atti e dodici quadri di Maeterlinck. E' un altro secessionista. La sua arte sconvolge tutto quanto si è fatto finora. Non ha la tecnica dello Strauss ma è più geniale, più elegante c senza dubbio più ardito".
Tre anni dopo Toscanini diresse il capolavoro debussiano alla Scala, in prima assoluta in Italia. L'esito fu quale poteva attendersi da un pubblico del tutto impreparato, avvezzo alle tracotanze canore dell'opera verista. e, però., incapace d`intendere le voci intense ma sommesse che esalano le creature maeterlinckiane, aureolate da una musica conforme: un esito di totale incomprensione. Alcuni orchestrali scaligeri asserirono d'aver visto in quella sera lacrime di dolore e di dispetto cadere dagli occhi di Toscanini; e alla fine dell'opera egli fece quello che non aveva mai fatto, né più ripeterà in seguito: chiamato da un manipolo di spettatori che s'indugiavano ad applaudire. mentre i più abbandonavano la sala in silenzio, s'avanzò alla ribalta e s'unì ai loro applausi.
Ma non del compositore di teatro qui si vuol parlare, e neppure di quello orchestrale, che già con la squisita partitura della «Damoiselle élue», e ancor più con quella dell' «Après midi d'un faune» e dei «Nocturnes» aveva dato al mondo un'orchestra del tutto nuova per sensibilità timbrica e coloristica, dopo quella di «Parsifal». Qui vogliamo invece intrattenerci brevemente sul miracolo della sua scrittura pianistica, che, anche dopo Chopin e Schumann, schiude alla tastiera tutto un nuovo mondo poetico, d'insospettata e inesplorata magia.
Su Debussy quale pianista abbiamo il giudizio di un'autorità di prim'ordine: Alfredo Casella. Nei suoi «Segreti della giara» (intitolazione pirandelliana che si richiama ad una novella dello scrittore siciliano, da cui Casella trasse la trama d'un suo fortunato balletto), egli ci riferisce dei contatti avuti con Debussy durante il suo lungo soggiorno parigino. «Ebbi l'alta fortuna di sentirlo sovente eseguire sue musiche - scrive dunque Casella -, tra le quali i suoi Preludi, e così potei carpirgli non pochi segreti pianistici. In quegli ultimi anni della sua vita, egli suonava senza una vera e propria virtuosità nel senso bravuristico, ma possedeva un tocco ed una arte del pedale veramente inarrivabili. Pareva talvolta ch'egli suonasse direttamente sulle corde, senza passare per il tramite della meccanica, tanto quella sonorità riusciva vaporosa ed immateriale. Lo stile era poi di un'aristocrazia, di una dignità, di una compostezza che - esse pure - facevano pensare a ciò che doveva essere stata l'esecuzione di Chopin. Il ritmo era perfetto; le due mani suonavano sempre rigorosamente insieme; anche in quella musica così prevalentemente armonica, ogni accento melodico e ritmico aveva il suo giusto valore. Ascoltarlo al pianoforte era insomma un'altissima lezione di musica, la quale costituiva una fortuna per quei rari ascoltatori ch'egli ammetteva nella sua intimità. Egli mi confidò una volta d'essere stato discepolo d'una allieva di Chopin, ragione per cui possedeva tante tradizioni, tante esperienze pianistiche che procedevano direttamente da quell'eccezionale fonte». Nel 1915, all'entrata dell'Italia in guerra, Debussv, entusiasta del nostro intervento, accettò di partecipare con Casella ad un concerto a favore della nostra Crocerossa, ed insieme eseguirono una trascrizione per due pianoforti della suite orchestrale «Iberia». In tale circostanza quei due pianisti d'eccezione passarono insieme molte altre musiche, da Bach e Mozart a Chabrier e ad alcuni poemi sinfonici di Liszt, sempre nel salotto di Debussy: «Egli provava una gioia estrema in queste sedute, le quali hanno lasciato in me un'impressione che non esito a definire come una tra le più profonde della mia vita di musicista».
Circa l'uso del pedale fatto da Debussy, non è inutile ricordare ch'egli ebbe a scrivere d'aver sentito il vecchio Liszt a Roma e d'essere stato specialmente colpito dal modo che questi aveva di servirsene, si «de faire de la pédale une sorte de respiration». Un'osservazione analoga aveva già fatto Schumann a proposito dell'esecuzione chopiniana dello studio in la bemolle (op. 25, n. 1); sicché l'origine di quell'accorgimento pianistico deve ancora riportarsi al modello chopiniano, esemplato da Liszt nella sua giovinezza e rimasto indelebile per alcune caratteristiche nella sua struttura tecnica e spirituale di esecutore, ed anche di compositore.
Nell'attività di un artista il periodizzamento (messo in auge da Wilhelm de Lenz che, sulle tracce del Fétis. lo applicò alla distinzione dei tre stili beethoveniani) non assume qualche attendibilità che quando
non è mera schematizzazione, a scopo espositivo e didascalico, ma si ricava dallo svolgimento interiore della personalità dell'artista e da caratteri intrinseci ed organici della sua produzione. E' il caso della musica pianistica di Debussv (per limitarci all'aspetto che qui ci occupa). In questo campo egli esordisce con pezzi di squisita leggiadria inventiva ed eleganza formale, («Deux arabesques» 1888, «Rêverie», «Valse romantique» e « Nocturne» tutti composti intorno al 1890, «Suite bergamasque» 1890-95, «Mazurka» 1891), ma non ancora aperti verso quelle viste del colore e del paesaggio che faranno l'incanto delle sue pagine pianistiche di maggior novità e originalità («Estampes» 1903, «L'isle joyeuse» 1904). «Images» 1905 e 1907, «Preludes» 1910 e 1913). Qui la materia sonora si fa trasparente e quasi spirabile; i vari registri della tastiera rivelano sonorità nuove, del tutto inedite; il suono si fa aria, l'armonia si fa luce, l'affioramento melodico effusione dedalea. E' ciò che il D'Annunzio ha ottenuto in certe liriche di «Alcione», dove la parola perde ogni materialità e s'immedesima con la vibrazione stessa delle cose, con la loro vita più segreta e incomunicabile. L'accordo attira l'accordo senza la sollecitazione del trapasso modulativo, per una spinta tutta interiore. La nota suscita la nota senza la concatenazione del nesso discorsivo; ed ora da quella fluttuazione imprecisabile emergono gamme senza semitoni, d'un arcaismo non ricercato, ma ritrovato spontaneamente, per pura magia di aurorali intuizioni; ora scale tutte a semitoni, di sottile e abbrividente modernità; o successioni d'accordi perfetti, che risuonano imprevedutamente nuovi e indelibati, albari, sorgivi, come intatte fiorite; ora accordi che si snodano e sovrappongono in viluppi roridi e fragranti o in meandri labirinticamente intrecciati. Né si dica che a quest'arte manca un suo principio di organicità, una sua interiore norma costruttiva; ma si tratta d'un principio e d'una norma che si svincolano dalla tradizione, ripudiano i procedimenti acquisiti, scaturiscono ad una con l'intuizione artistica, col ritmo poetico.
Un altro atteggiamento caratteristico di quest'arte è l'umorismo. Già nel Settecento François Couperin (detto «il grande»), nella prefazione al suo primo libro di pezzi clavicembalistici (1713), scriveva: «Componendo tutti questi pezzi io ebbi sempre dinanzi un oggetto preciso che mi fu offerto da differenti occasioni. I titoli rispondono dunque a idee precise, e mi si terrà dispensato dal renderne conto. Ma come tra questi titoli ve ne sono alcuni che potrebbero apparire pretensiosi, è bene avvertire che essi si applicano a ritratti che si sono trovati somigliantissimi sotto le mie dita, e che la maggior parte di questi titoli adulatori debbono applicarsi piuttosto agli amabili originali che alle copie ch'io ne ho tratto».
Qui siamo propriamente sulla linea storica ed espressiva del Debussv di «Minstrels» (primo libro dei «Preludi»), di «Gênéral Lavine» (secondo libro), di «Golliwog's cake walk» («Children's corner»). Come quello dell'antico clavicembalista, l'umorismo debussiano è intenzionale, fatto di atteggiamenti e di contraffazioni caricaturali, e dev'essere nettamente distinto dalla fervida espansione gioiosa di tante sonate scarlattiane, in cui l'estro incontenibile e l'ardente giovanilità della nostra opera comica si modellano in nitida e luminosa plastica sonora. E tuttavia anche in Debussy l'immagine musicale risolve e adegua pienamente il tratto psicologico o fisionomico che ha stimolato la fantasia del compositore, senza lasciare dietro di sé residui programmatici, letterari o, comunque, extramusicali, richiedenti integrazioni e spiegazioni verbali. L'impressione è la scintilla che accende l'estro fantasioso, lo orienta, lo accompagna, lo dirige; l'occhio agisce accanto all'orecchio, proprio come ebbe a dire Schumann. Ma il pezzo si è costituito e costruito per se stesso, come organismo unicamente musicale, e basta a se stesso.
Vi sono perfino dei casi (nei pezzi di contenuto propriamente impressionistico) in cui il titolo è stato messo a posteriori, quando la musica che è destinato a caratterizzare era già scritta, perché atto a suggestionare l'ascoltatore e a suscitare in lui una favorevole disposizione ricettiva. In altri casi è invece un'impressione di paesaggio o una reminiscenza poetica a fornire l'incentivo: ma il risultato è sempre una creazione musicale del tutto libera, autonoma, autosufficiente, che nulla chiede ad appigli esteriori o a guide programmatiche. Perciò non si tratta mai in Debussy di musica descrittiva e poematica, ma di poesia espressa in suoni; constatazione che vale tanto per le composizioni orchestrali (si pensi a pagine d'ineffabile delizia sonora ed evocativa come «Nuages»), quanto per quelle pianistiche, sempre intensamente suggestive, ma non mai estrinsecamente illustrative.
Se dunque le prime composizioni pianistiche debussiane non oltrepassano di molto gli orizzonti di un Grieg (nel quale non manca qualche precorrimento armonistico del primo Debussy), quelle del secondo periodo segnano nella letteratura pianistica un capitolo di sorprendente novità. Ed è interessante osservare che questa profonda trasformazione si compie specialmente sul terreno della lirica vocale, al contatto di poeti quali Baudelaire e Verlaine, o magari su testi dello stesso Debussv («Proses Lyriques», 1892 93), dove il compositore è tratto a ricercare atmosfere armoniche vibratili e capillari, consone alla sottilità sensitiva e suggestiva della parola ispiratrice. Ne nasce un linguaggio di cui non si aveva ancora alcuna idea, tramite ineffabile di ciò che di più ansioso e quintessenziale palpita nell'intimo dell'anima moderna.
Antonio Capri
("Rassegna Musicale Curci", anno XVI n.1-2, febbraio-aprile 1962)