Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

martedì, maggio 23, 2023

Alla ricerca di Reynaldo Hahn


Gelosa custode della memoria del suo 
«signore», c'era da aspettarsi che Céleste Albaret, la «celebre» governante di Marcel Proust nel suo ancor recente «Monsieur Proust - Souvenir recueillis par Georges Belmont» (Ed. Laffont, Paris, 1972, ma già tradotti anche in italiano), agli amici, anche intimi, del grande romanziere, non dovesse tributare particolari omaggi. Molti, certo, di questi amici, non può fare a meno di citarli e anche magari parlarne diffusamente, tuttavia facendolo quasi con fastidio, mai cedendo a particolari atti di ossequio.
Prendiamo il musicista Reynald Hahn, una fra le persone più care e certo più vicine allo scrittore. Se non erriamo, lungo il percorso delle «memorie», 1'Albaret lo cita 22 volte ma nel corso di esse non troviamo mai quella nota di particolare calore che pur sarebbe opportuna. Così, ad esempio, non può fare a meno di nominarlo al momento estremo della morte di Proust, quella brumosa mattina del lontano 18 novembre 1922. «Reynaldo est venu. C'est lui qui a téléphoné aux familiers de M. Proust pur leur communiquer la nouvelle. Il est resté toute la nuit. Il a veillé d'abord avec moi dans la chambre, puis il s'est retiré dans un pièce où il à travaillè, jetant sur le papier des notes de musique. De temps en temps il venait se recueillir devant la dépouille sur le lit»L'annotazione, diciamolo francamente, sa di rapporto. Anche quel «jetant des notes de musiques» (ma quali?) suona particolarmente freddo.
Ma già del resto, in tali memorie, il compositore di origine venezuelana entra quasi di sfuggita e all'improvviso: «Proust m'a raconté - dice l'Albaret a pag. 52 dell'edizione francese - que autrefois il avait fait le voyage avec son grand ami, le compositeur Reynaldo Hahn tout exprès pour admirer les grandes marées de cet equinoxe à la Pointe de Raz».
E' pur vero che, a proposito di Hahn, avrà occasione di diffondersi più ampiamente parecchio avanti nei suoi ricordi, e cioè quando Proust ormai «bloccato» dall'asma si troverà in cattività, la penna freneticamente al lavoro per portare a conclusione la «recherche», nel suo quartierino foderato di sughero al 44 della rue Hamelin. «Di tutti gli intimi di M. Proust, Reynaldo era il solo che fosse sempre ricevuto quando veniva, se M. Proust era sveglio. Io aprivo la porta e, se M. Proust non stava più riposando ed aveva finito di fare «sa fumigation», se ne andava diretto diretto alla sua camera. Diversamente egli mi chiedeva notizie e se ne ripartiva. Ma, dapprincipio, egli veniva tardi, nelle ore in cui era sicuro di vedere il signore. Egli era anche il solo che, terminato il colloquio, non riaccompagnavo alla porta. Se ne filava da solo - è il termine esatto, poiché era una vera corrente d'aria».
Tali visite perciò non dovevano essere troppo gradite alla severa governante proprio perché egli lasciava sempre «le porte aperte dietro di sé» ma ci doveva essere anche una ragione più sotterranea per cui egli non doveva entrare nelle sue grazie. Anche in Reynaldo, come in altri amici, la Albaret non riusciva a vedere nulla più che una persona invidiosa dei successi letterari e delle ricchezze economiche del suo adorato M. Proust. Al contrario, si diffonde nel dire quanta invece fosse la gioia che Proust provava di fronte alle riuscite dei suoi amici. E proprio a proposito di Hahn «la prova di quanta gioia Proust provasse - ella dice - io 1'ebbi poco prima della sua morte, allorché apprese che Reynaldo aveva riportato successo con una delle sue composizioni», era la famosa «Ciboulette», l'operetta di cui egli aveva scritto la musica sulle parole di Robert de Flers e di François de Croisset, genero, quest'ultimo, di una delle antiche relazione di Proust, la contessa di Chevigné. L'operetta infatti, anche se doveva dare fama più salda allo Hahn soltanto l'anno successivo, nel '23, quando apparve a Parigi al Théâtre des Variétés, aveva avuto appunto una sua fortunata anteprima a Cannes.
Un'ulteriore affermazione del resto di quanta poca stima essa nutrisse per il musicista, indirettamente l'abbiamo anche in confidenza (ma c'è da domandarsi fino a che punto risulta del tutto vera?) che lo stesso romanziere le avrebbe fatto nei riguardi appunto di Hahn. «Proust mi diceva: «Che peccato che Reynaldo non sia rimasto un semplice cantante invece di voler diventare compositore lui stesso di canzoni. Quando io lo conobbi da Mmc Lemaire, egli era incomparabile; era richiesto nei salotti e prendeva dei lauti compensi per cantare Era meraviglioso, unico! La disgrazia è che oggi egli vorrebbe essere Saint-Saëns».
E se vogliamo, può sembrare un vero congedo nei riguardi del compositore di tante deliziose operette la frase: «Fino alla fine essi (cioè Hahn e Proust) rimasero fedeli l'uno all'altro, ma come dei fratellini (in francese esattamente come dei "petits frères" il che suona ancora più ironico) che degli amici». Testimonianza a cui uno potrebbe anche attenersi, se, a contraddirla, e a spiegare quanto ben diversa e più calda fosse l'amicizia e il sodalizio artistico fra Proust e il musicista appena più giovane di lui di quattro anni (lo scrittore era nato, si ricorderà, nel '71); se a contraddirla dicevamo non esistesse l'ampio carteggio, pubblicato da Gallimard se non erriamo, tra i due artisti. E se con maggiore verità che non quella propinata dalla burbera governante-sacerdotessa, il Painter, il più scrupoloso dei biografi di Proust, non riservasse al riguardo più ponderati paragrafi.
Basta al proposito rileggere, nella sua biografia, la paginetta dedicata all'incontro tra i due futuri amici. Siamo a Réveillon, in Svizzera, nel corso della primavera del 1894. «Proust aveva conosciuto (Reynaldo) al principio dell'estate (precedente) ai martedì di Mmc Lemaire a Parigi in rue Monceau, dove Hahn aveva fatto furore cantando un proprio ciclo di canzoni da poesie di Verlaine. «Les chansons grises» doveva rimanere una delle massime attrazioni delle serate musicali di Mmc Lemaire per i due decenni successivi. Aveva una voce tenorile, leggera ma ricca, si accompagnava da solo rovesciandosi all'indietro, con gli occhi semichiusi e l'aria ispirata. Un osservatore maligno avrebbe notato che nel cantare girava la testa da una parte e dall'altra come un uccello; scrutando di fra le ciglia lunghe l'uditorio per assicurarsi che tutti fossero debitamente ipnotizzati. Ma possedeva la serietà, il fascino, l'intelligenza e la distinzione morale che Proust cercava nell'amico ideale. Per i due anni successivi li legò una appassionata amicizia che durò poi, più temperata ma senza nubi, per tutto il resto della vita di Proust».
La serietà dunque, e il fascino sommati all'intelligenza e alla nobiltà morale. Le qualità, all'incirca, che anche René Dumesnil sarà pronto a riferire a sua volta in un profilo-testimonianza tracciato appena qualche anno dopo la morte del musicista avvenuta nel gennaio del 1947. Hahn era nato il 9 agosto del 1875; ecco cadere dunque quest'anno il centenario della sua nascita, un'occasione per ricordarlo.
Chiarisce Dumesnil che conobbe a fondo l'uomo e l'artista: «Una parola potrebbe caratterizzare l'uomo e la sua opera: l'eleganza», E prosegue: «Per noi che l'abbiamo conosciuto, questa eleganza, questa distinzione, non appariva soltanto come il segno di uno spirito meravigliosamente fine e colto, ma anche come l'attitudine naturale d'un difensore della tradizione nel cuore di una società che la durezza dei tempi portava a infischiarsene ogni giorno della delicatezza e della bellezza». Reynaldo dunque, figura, personaggio centrale, filtro importantissimo, una chiave anch'egli se vogliamo, per comprendere a fondo il vero significato della «recherche»: creatura squisita che ponendosi in equilibrio tra passato e presente molto doveva influenzare la sensibilità del romanziere amico.
Ma chi fu veramente Reynaldo Hahn? Quando Proust lo conobbe aveva si e no diciannove anni. Era allievo di Massenet al Conservatorio, dove era entrato ad undici anni avendo Grandjany, Descombes, Dubois e Lavignac rispettivamente come insegnanti di solfeggio, pianoforte e armonia. Era cantante di temperamento finissimo, pianista e compositore che andava affinando una penna brillantissima. Ebreo, nato a Caracas nel Venezuela, viveva a Parigi ormai da alcuni anni con i genitori ed uno sciame di sorelle.
Per rifarci ancora a Painter, questi così lo descriveva: «Aveva occhi scuri, pelle olivastra, un bel viso austero e baffetti bruni»E' il ritratto che restituiscono anche le foto ufficiali, anche quelle della maturità, di quando alternando la sua attività di direttore d'orchestra era diventato anche critico musicale (dal 1934) al «Figaro».
Vissuto dunque nell'epoca di Ravel e di Debussy, anche se non possedette il raro talento e le doti di costoro fu tuttavia uno degli artisti più colti e sensibili del suo tempo. «Egli si rivela - scrive ancora il Dumesnil - l'erede diretto di Massenet e di Messager: l'apparente leggerezza si apparenta con lui a un scienza profonda che fu quella dei due maestri» e ancora «le sue melodie gli assicurano una posterità perché esse riflettono esattamente una maniera di sentire che fu quella di un'epoca, perché c'è in Reynaldo Hahn una sensibilità accesa; una delicatezza che sono di ogni tempo».
Per comprenderlo esattamente bisogna dunque staccarsi dalla sua più superficiale immagine che è poi quella che riflette l'autore di tante gaie commedie musicali; il compositore di musica elegante sì ma fragile e facile, e cercare piuttosto là dove meglio sta la sostanza più genuina della sua arte. E' vero che se stendiamo l'elenco delle sue composizioni (fu un lavoratore instancabile; le opere - disse un suo biografo - si aggiungevano alle opere senza traccia di fatica né di esaurimento) ciò che sembra emergere è proprio il gran ventaglio delle operette e delle commedie musicali, più o meno fortunate, da lui musicate nell'arco di lunghi decenni. Oltre alla citata e manierata «Ciboulette» degli anni Venti, già erano apparse ai primi del secolo «L'ile du rêve» (Pierre Loti a suggerirne il soggetto), «La Carmèlite», del 1902, e questa volta il libretto lo aveva confezionato addirittura Catulle Mendes, «Miousic», «Nausicae» e successivamente, cioè dopo il 1823, «Une nuit d'Espagne», «Une revue», «Brummel» (anno 1931 e il successo non proprio effimero), «O mon bel inconue», il libretto uscito dall'abile penna di Sacha Guitry, e ancora, frutto carico di apprezzabilissime melodie (bellissima una Canzone che diventa anche leitmotiv) la commedia musicale (questa volta galeotto fu Shakespeare), «Il Mercante di Venezia» (1935). Un'altra operetta, ricavata dal capolavoro di Moratin «Il si delle ragazze» non riuscirà a portarla a termine e ne ultimerà la composizione il collega H. Büsser. Operette ma anche una serie di balletti tra i quali, oltre a «Le dieu bleu» (1912) e «Aux bosquets d'Idalie» (1937), spicca «La fête chez Thérèse» (1910).
Se fu soprattutto per il segno sgargiante, per i colori vistosi e festosi di tutte queste sue varie composizioni che Hahn conquistò la sua piccola porzione di fama e di gloria, l'eleganza e il vero profumo della sua musica risiedono però soprattutto, e sono in molti a sostenerlo, nelle sue numerose pagine di musica da camera. Da «Sarabande et theme varie» per clarinetto e pianoforte» del l903 a «Caprice mélancolique» una delle sue ultime pagine, del 1947; da «Les rêveris du Prince Eglantine» del 1906 a «Le bal de Beatrice d'Este» per fiati, due arpe e pianoforte e le «Airs irlandais», entrambi lavori del 1911; dai deliziosi «Le ruban dénoué», 12 valzer per due pianoforti, del 1907, al raffinatissimo «Concert Provençal» del 1930 (ma con quest'u1timo siamo già nel terreno più impegnativo ancora della musica orchestrale, di cui altro sontuoso frutto sarà il «Divertissement pur une fête» del '37) fu un lungo procedere per territori dagli orizzonti affascinanti.
Per non dire ancora di quegli «Etudes latines» (10 soavi melodie, anno 1910) e di quelle precedenti, e già più volte citate, «Chansons grises» (1893) nate su liriche di Verlaine (ma altre liriche Hahn musicò su testi di Heine, Hugo, Daudet, e molti altri ancora; e tra le sue molte liriche struggente e popolarissima quella dal titolo «Si mes vers avaient des ailes») d'una malinconia che sembra riecheggiare quella stessa che fluttua in certe pagine di Mozart. Quel Mozart, del resto, da Hahn sommamente ammirato al punto da comporre con coraggio che sa d'azzardo un'opera, il titolo «Mozart» «tout court», che ha appunto lui, il grande musicista, quale protagonista (il libretto confezionato da Cacha Guitry, anno 1925) e del quale, quando a partire dal 45 otterrà l'incarico di direttore d'orchestra all'Opéra di Parigi, s'affretterà a dirigere il «Don Giovanni» con un trasporto e un entusiasmo che dicevano tutta la sua passione.
Per Mozart un vero culto tanto che possiamo essere certi sia stato lui stesso a conculcarlo anche all'amico e neofita, in campo musicale Proust. Nessuno può escludere poi che molte delle bellissime metafore e similitudini che fioriscono lungo l'interminabile viale della «Recherche» siano state dettate o suggerite da Hahn stesso. Basterebbe, di tali metafore, citarne una per tutte, dove però non è Mozart ma Bach (altro idolo comune) a sollecitare la fantasia del romanziere. La troviamo in «Sodoma e Gomorra» a proposito del barone di Charlus. Scrive Proust (la versione quella di Elena Giolitti): «Ci sono momenti in cui per dipingere compiutamente una persona, occorrerebbe che l'imitazione fonetica s'unisse alla descrizione, e quella del personaggio ch'era il signor Charlus rischia di essere incompleta per l'assenza di quel piccolo riso così sottile, così leggero, come certe opere di Bach che non vengono mai rese con fedeltà perché le orchestre mancano di quelle "piccole trombe" dal suono così speciale, per le quali l'autore ha scritto questa 0oquella parte».
Dietro questa similitudine dobbiamo davvero pensare non ci fosse la mano, pardon la sottilissima intelligenza, di Reynaldo? Per convincercene basterebbe rileggere quel suo «Notes-Journal d'un musicìen» o quell'altro suo raro «L'oreille aux aguets», due libri da consigliare al musicofilo autentico, ammesso che riesca a trovarli. A dispetto dell'opaco profilo che ce ne lascia la Albaret, si imparerebbe a conoscere un Reynaldo Hahn un po' diverso.
Domenico Rigotti
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVIII n.1 aprile 1975)

mercoledì, maggio 10, 2023

Libertà di scrivere, discutere, informare

L'allestimento al Teatro Lirico, da parte della Scala, della nuovissima opera di Luigi 
Nono, «Al .gran sole carico d'amore», ha sollevato lunghe insidiose polemiche, cui non erano estranei fatti che con l'arte non hanno nulla a che vedere. Queste polemiche non hanno avuto seguito in teatro, dove il civile confronto ha prevalso sulle paure e sulle imposizioni settarie. Per fortuna, diciamo: ma la vicenda ci suggerisce alcune considerazioni che è bene siano presenti a tutti coloro che si occupano di musica e di teatro.
Premesso che l'opera era stata commissionata a Luigi Nono nel 1972 e che era stata annunciata in cartellone nell'autunno scorso, occorre ribadire senza esitazione che ogni limitazione di spazio alla cultura è un attentato alla libertà. Se si comincia a discriminare un`opera in ragione dei suoi contenuti, si crea un precedente pericolosissimo. Se si vuole esautorare un Consiglio d`amministrazione e una direzione artistica (come era nelle intenzioni di un gruppo di potere milanese) con pretesti politici - a scoppio ritardato - si commette, se non altro, reato di prepotenza. E si fotografa nuovamente la cosi detta «arroganza del potere».
Il problema sollevato dall'allestimento dell'opera di Nono, da sempre iscritto al P.C.I. (Partito Comunista Italiano) e da sempre impegnato in una battaglia ideologica e politica, doveva restare sul piano dell'arte e dello spettacolo. Il giudizio del pubblico non deve essere influenzato da atteggiamenti censori di tipo metternichiano. Né bisogna aver paura dei confronti. Se bastasse un'opera per far vincere le elezioni ai comunisti, che bel paese culturale sarebbe il nostro. Invece non basta nemmeno il monopolio televisivo a dare la maggioranza assoluta a chi lo gestisce.
Battaglia perduta in partenza, per fortuna, anche perché Luigi Nono è uno dei massimi musicisti europei e perché il suo regista Juri Liubimov è uno dei massimi registi del mondo. L'opera ha superato la prova del pubblico: mai si è visto tanto interesse per uno spettacolo. La musica contemporanea fa progressi: modesti, se vogliamo, ma importanti. Le polemiche hanno aiutato lo spettacolo? Certo, ma non sarebbero bastate a riempire per otto sere il Lirico. Né il pubblico risulta sia stato costretto con la violenza ad andare al «Gran sole».
La libertà, dunque, consiste nel poter esprimere ogni pensiero senza paura: in teatro, col rispetto per il teatro. Libertà è anche poter scegliere gli argomenti: Nono ha scelto la Comune di Parigi, qualcun altro potrebbe scegliere Mac Mahon, il comandante che abbatte la Comune.
Libertà è, ancora, non avere paura dei fantasmi e delle idee: siamo sempre portati a credere alla buona fede del prossimo, ma ci piacerebbe sapere perché lo zelo dei censori si accanisce soltanto contro le «cose» del pensiero. Vanno benissimo i film violenti, le storielle indecenti, purché siano fuori dalla cultura. Va male invece «Al gran sole», opera difficile dove non esiste la minima provocazione verbale, come andava male, qualche anno fa, il «Galileo» di Brecht.
Libertà è infine onestà: non è lecito, se non a Don Basilio, usare le armi della diffamazione; non è neppure lecito far finta di non sapere i veri termini del problema; non si deve mentire sui numeri e sulle parole. Purtroppo, cari lettori, non abbiamo fatto bella figura: da tutto il mondo venivano a Milano critici e direttori di teatro, da Los Angeles come da Tokio, da Parigi e da Berlino, e da noi qualcuno voleva che l'opera fosse «rinviata a settembre» perché in giugno ci sono elezioni amministrative e regionali... Conseguenza del successo dello spettacolo: un aumento delle quotazioni di Nono e di Paolo Grassi, che forse era il vero bersaglio di tale campagna.
A questo punto - lasciamo da parte il prestigio della nostra cultura, troppo spesso valutata meglio all'estero che fra noi - diciamo a chiare lettere che, come è successo al Petrarca di Béjart-Berio, anche «Al gran sole» ha un successo mondiale: sarà allestito a Norimberga, Kiel, Amburgo, Varsavia, Berlino (DDR), Lisbona, Berlino (BRD), Parigi negli Stati Uniti a Zagabria a Belgrado e in molti altri centri ancora. Come mai, ci si può chiedere? Ma allora sono soltanto alcuni milanesi a sentire odore di zolfo dove zolfo non c'è?
O è un vizio nostro maltrattare i nostri migliori ingegni e a renderli più conosciuti all`estero. Negli Stati Uniti e in Germania Occidentale Luigi Nono è considerato un grande; Berio ha avuto fortuna in America, Maderna a Darmstadt, Arrigo a Parigi, Bussotti in Francia e nel resto d'Europa, perfino il compianto Dallapiccola era più eseguito in Germania Ovest e in Inghilterra che da noi.
Dobbiamo allora pensare che sotto i mantelli delle polemiche e delle insidie si nasconda il vecchio provincialismo e il terreo, retrivo aspetto scolastico della nostra cultura ministeriale. Ma questo mondo che cosa crea, se non il continuo lamento di essere vittima di complotti a livello mondiale gestiti da intellettuali pericolosamente sovversivi?
Restano i fatti: l'opera di Nono era giusto fosse rappresentata, come è giusto sia rappresentato ogni fatto d'arte. E' anche giusto il dissenso, non l'esorcismo. Non il linciaggio, non la menzogna Tali cose spettano di diritto agli ammiratori di Pinochet.
Mario Pasi
("Rassegna Musicale Curci", anno XXVIII n.1 aprile 1975)