Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, marzo 26, 2023

La "Grosse Sonate für das Hammer-Klavier" di Ludwig van Beethoven

Si narra che Beethoven si sia così espresso coll'editore viennese Artaria in 
merito alla sua op. 106: «Ecco una Sonata che darà il filo da torcere ai pianisti quando sarà eseguita fra cinquant'anni». Particolari studi ci consentono di dire che nonostante siano trascorsi non 50 ma bensì 143 anni da quel lontano 1819, la profetica affermazione di Beethoven è ancora oggi abbastanza valida. Infatti la 106, uno dei più grandiosi capolavori che mente umana abbia concepito, è rarissimamente eseguita (fa paura un po' a tutti); inoltre, alcune essenziali indicazioni dell'Autore sono tuttora oggetto di discussioni, di strani compromessi, di imperdonabili arbitrii.
I punti più controversi possono ridursi: I) alla disposizione dei tempi, che tutti ritengono pacificamente risolta, e non lo è; II) alla vessata questione dell'andamento dei tempi.
Nell'edizione originale londinese (ritenuta contemporanea ma forse precedente a quella viennese) lo Scherzo figura come terzo tempo, dopo l'Adagiocom'era consuetudine, mentre nell'edizione viennese, e in tutte le altre successive, figura come secondo tempo.
Purtroppo il manoscritto non esiste. Dai copiosi abbozzi lasciatici da Beethoven, Nottebohm dedusse che lo Scherzo fu composto prima dell'Adagio, e quindi deve essere eseguito come secondo tempo. E' vero altresì che Beethoven, scrivendo il 16 aprile 1819 al suo ex alunno F. Ries, da tempo incaricato di curare l'edizione inglese, gli indicava la successione degli andamenti nell'ordine che vedremo nell'edizione viennese. Ma è altrettanto vero che tre giorni dopo, con altra lettera, Beethoven autorizzava Ries a spostare l'ordine dei tempi per cui lo Scherzo diveniva terzo anziché secondo tempo, aggiungendo: «Lascio decidere a Voi, come meglio credete». Perché questa concessione, se non vogliamo chiamarla rettifica, fatta per la edizione inglese? Deriva soltanto da costrizione di impellenti necessità economiche, ossia da premura di volere, a tutti i costi, pubblicare la propria opera anche a Londra oltre che a Vienna? Sarebbe strano per un Beethoven, tanto più che un siffatto ripiego non avrebbe potuto in qualche modo giovargli. Oppure deriva da indecisione (da «confusioni», da «errori» a cui allude l'Autore nelle citate lettere), o addirittura da resipiscenza di quanto aveva comunicato a Ries appena tre giorni prima? In definitiva, a noi manca in proposito la testimonianza precisa della volontà dell'Autore; né possiamo ritenere accettabile - seppure è esatta - la sola giustificazione cronologica dataci da Nottebohm; né abbiamo alcun dato per spiegarci la diversa disposizione dei tempi dell'edizione viennese, di Artaria, considerata successivamente come la sola vera edizione originale, e perciò imitata da tutti. Ecco perché la soluzione migliore, l'unica soluzione, dell'ordine dei tempi vorremmo che scaturisse dall'esame del contesto musicale; e a nostro avviso giudichiamo esatta l'edizione inglese, anch'essa originale, che pone lo Scherzo dopo l'Adagio. Quale drammatico contrasto, per opposizione dinamica ed espressiva, facendo seguire all'impeto focoso, travolgente del primo tempo il sublime, straziante e rassegnato pathos di cui trabocca l'Adagio! E di quanta singolare luce non si ravviva lo Scherzo eseguito dopo l'Adagio! Infine lo Scherzo - non già l'Adagio - quanto meglio si collega per affinità tonale e soprattutto per amalgama - autentica simbiosi musicale - con quel senso di stupore, di attesa, di slancio, che prelude alla grandiosa e vertiginosa Fuga, ultimo tempo! Siamo tentati di dire che quel1'estroso interludio che precede la Fuga, non ha ragione di essere se eseguito dopo 1'Adagio anziché dopo lo Scherzo: è Beethoven che ci consente un così ardito giudizio («Togliere il Largo e cominciare subito dalla Fuga»; v. lettera a Ries, del 19 aprile 1819). Ma revisori ed esecutori ostinatamente - oseremmo dire, supinamente - si attengono all'edizione viennese anziché a quella londinese, forse (nel migliore dei casi) per riverenziale rispetto di presunte più autentiche intenzioni dell'Autore. Il quale rispetto vien poi del tutto meno - irriverentemente - dinanzi alle asperrime difficoltà derivanti dagli andamenti indicati e ben definiti, per ogni singolo tempo, dallo stesso Beethoven.
E' noto che la 106 è l'unica delle 32 Sonate per pianoforte, che abbia le indicazioni metronomiche espressamente volute dall'Autore. Ebbene, queste indicazioni di andamento (intese - com'è ovvio - in senso artistico e non meccanico, e che costituiscono - è il caso di dirlo? - parte essenziale dell'opera: «Il tempo è veramente come la materia stessa della composizione», scrisse Beethoven) sono state quasi costantemente alterate, «facilitate», da revisori e da interpreti: primi fra tutti, da Bülow come revisore, da Liszt come interprete, generando per i posteri, dopo sì illustri tabù, una confusione babelica e mostruosi arbitrii. Basti dire che, in una lettera del 26 ottobre del 1876 diretta alla principessa Sayn-Wittgenstein, Liszt affermava che la durata della 106 è di «circa un'ora»: ben circa venti minuti primi in più di quanto voleva Beethoven!!!
Queste, in breve, le principali controversie su l'interpretazione dell'op. 106. Ma ben altri ostacoli, ancora più ardui, di natura espressiva, strutturale, architettonica, deve affrontare e superare l'interprete per dare vita a questa gigantesca Sonata, «l'unicamente-grande» come usava chiamarla Schumann. Ed allora anche noi, colmi di stupore ma senza alcuna riserva, potremo esclamare con Wagner: «Che cosa può mettersi a confronto di Ciò?... Nemmeno lo stesso Shakespeare può sostenerne il paragone».
Ernesto Paolone
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII, n.1 marzo 1963)

domenica, marzo 12, 2023

Otto domande a Lorenzo Ghielmi

Lorenzo Ghielmi, docente alla 
Civica Scuola di Musica di Milano e in carriera da decenni, si è distinto per l'integrale delle Partite per cembalo di Bach edite da Passacaille (vedi recensione su MUSICA n. 333). E proprio ora, sempre per l'etichetta Passacaille, esce un nuovo doppio disco sulle Suite Inglesi: un'occasione per rivolgergli qualche domanda.

In una carriera di oltre cinquanta dischi, che cosa l'ha spinta a dedicarsi particolarmente all'interpretazione di Bach?
Oltre la metà della mia discografia è intitolata a Bach, che ha rappresentato un fil rouge fin dai primi importanti dischi con Deutsche Harmonia Mundi, dedicati alla sua opera per organo con più interpreti: i miei due volumi avevano ottenuto ampio successo, in particolare per i concerti Bach-Vivaldi, per giungere a questi ultimi dieci anni di collaborazione con Passacaille, che mi sta dando moltafiducia.
Come si approccia al momento della registrazione?
Ricordo che negli anni '90 i gruppi di musica antica provavano, registravano, poi realizzavano più concerti in tournée, col risultato di voler rifare il disco perché grazie ai concerti avevano migliorato l'interpretazione. Io faccio il contrario: prima approfondisco i brani, li insegno, poi passo alla registrazione, senza stress. Avevo già eseguito alcune Partite in concerto e le avevo studiate senza fretta o scadenze. Accade però che pur arrivando all'incisione dopo un periodo abbastanza lungo di incubazione, soprattutto per cicli così grandi come questi, se riascolto un mio disco farei quasi sempre diversamente. L'uomo insegue l'eterno e la musica ha qualcosa di labile, e col disco ci illudiamo di fissare qualcosa inseguendo la perfezione. Gli interpreti hanno una vita media molto più breve dei compositori e c'è inoltre sempre l'ambizione a dire qualcosa di nuovo. Soprattutto per Bach cerco di non forzare mai la mano, anche evitando di ascoltare altri, o di praticare certi manierismi o solo per fare qualcosa di diverso.
Ma allora ha ancora senso fare dischi quando dal web si può avere quasi tutto?
In effetti ricordo ad esempio quando da studente a Basilea, con Andrea Marcon, risparmiavamo per poterci fotocopiare i trattati in biblioteca. Oggi è tutto più semplice, anche l'ascolto, che tuttavia è frequentemente di bassa qualità timbrica, spesso al PC o al telefonino, quasi mai su un impianto Hi-Fi. Anche se noto un certo declino del CD come oggetto, ciononostante grazie a vari canali web c'è comunque un ascolto attento della musica classica.
Lei si è anche diplomato in pianoforte. Come è stata influenzata la sua interpretazione clavicembalistica?
Ho iniziato i miei studi come organista, poi ho conseguito il diploma in pianoforte, a cui mi ero appassionato durante la preparazione dell'esame per il corso di organo. La mia insegnante di pianoforte, Lucia Romanini Marzorati, era una didatta notevole, formatasi alla scuola di Vincenzo Vitale, e mi cambiò la tecnica, mi pose delle sfide: si eseguiva tutto a memoria tranne Bach e gli studi. Nel frattempo continuavo con la musica antica, ma senza di lei non avrei fatto il musicista. Spesso mi sono ritrovato a pensarla negli atteggiamenti della mano sulla tastiera al cembalo. La mia strada concertistica è passata molto per 1'organo e poi per la musica d'insieme, quindi al cembalo.
Cosa le ha insegnato il pianoforte?
Due cose: la solidità tecnica e un atteggiamento molto dinamico, inteso dal piano al forte. Spesso se devo preparare un programma all'organo lo studio anche al pianoforte. Per l'ornamentazione e l'articolazione mi ha invece aiutato soprattutto la musica da camera. E' incredibile la quantità di cose che facciamo in modo automatico quando il linguaggio diventa totalmente nostro: ascoltando i pianisti non sento pesi e articolazioni diverse nel loro modo di suonare, mentre nel Barocco c'è una gerarchia fra le note, come negli archi abbiamo arcate in su e in giù. Bach al pianoforte è come un Bach tradotto in un altro linguaggio; cerco invece di inseguire un messaggio originario, per scoprire dei valori non solo musicologici, ma di estetica. Il cembalo cade facilmente nel “meccanico", e sento subito se un organista o un cembalista pensano in modo “dinamico” (velocità, articolazioni, se le mani suonano insieme o no), se una frase “canta”. Certi musicisti tedeschi sono impeccabili tecnicamente, ma non cantano.
Come sceglie lo strumento per la registrazione?
Per le Suite inglesi ho utilizzato una copia di un cembalo Mietke, lo strumento che Bach stesso si era procurato presso il principe di Köthen, dove scrisse le Suite inglesi. Per le Partite si trattava invece di una copia di anonimo tedesco del XVIII secolo ispirato a Fleischer di Amburgo, che forse Bach aveva conosciuto.
Cosa distingue le Partite dalle Suite inglesi?
Le Partite sono più lussureggianti, le Suite inglesi più squadrate. Il ciclo delle Partite è monumentale come concezione, ogni preludio ha un nome differente, c'è una volontà enciclopedica in cui ogni Allemanda ha una segnatura di tempo diversa, con implicazioni numerologiche dove i brani sono complessivamente 41, l`inverso di 14, i due numeri che tradizionalmente simboleggiano Bach. Le Suites inglesi non sono invece un progetto unitario come le Partite. Sono state forse composte per un “gentiluomo inglese": qualcuno ha osservato che presso la Società inglese di Amburgo c'era un cembalista molto famoso che aveva avuto contatti con Bach, e che forse Bach aveva raccolto nelle suite brani già composti, realizzando una collezione. La prima suite fu scritta diverso tempo prima, gli altri cinque preludi hanno la struttura da concerto in stile italiano (come nella suite in sol minore, con freschezza ed eleganza), e le tonalità non rivelano un piano tonale. Le Suite francesi sono invece stilisticamente più unitarie. Partite e Suite inglesi sono quindi gli estremi della scrittura di Bach per tastiera, e non a caso Bach decide di stampare le Partite; e poi vengono le Variazioni Goldberg.
Da interpreti del Settecento come ci considerano all'estero?
Estremamente creativi per la musica antica, a seconda dei musicisti: i violinisti italiani sono considerati moderni virtuosi, i cantanti sono fantastici senza lasciarsi influenzare dall`opera. Poi è singolare che abbiamo strumentisti divenuti punti di riferimento sulla scena internazionale (Azzolini al fagotto, ad esempio). Non esiste una vera e propria scuola “italiana” per il cembalo, anche se manteniamo una posizione abbastanza importante all'estero, e non siamo certo gli ultimi dato che i colleghi più bravi insegnano a Basilea, Brema, Vienna, Berlino, una “dispersione” dovuta a questioni di mercato. Anch'io ho insegnato dieci anni alla Schola Cantorum di Basilea e, mi sentivo un emigrante. Ma un nostro Conservatorio non è paragonabile a una Hochschule, per le risorse e le biblioteche. C'è persino un curioso star system internazionale per il cembalo, soprattutto francese: dagli anni '80 in Francia hanno diffuso il clavicembalo nelle scuole, fin dall'infanzia, con appositi programmi ministeriali, per cui alcuni iniziano lo studio dello strumento direttamente sul cembalo, creandosi così un notevole vivaio, e suonano moltissimo la loro musica. In Italia i Conservatori hanno molte difficoltà, ma per nostra tradizione c'è anche tanta iniziativa di singoli: come per le piccole e medie industrie, lo stesso avviene per la musica.
Mirko Schipilliti
("Musica", n.342, dicembre 2022 / gennaio 2023)