Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

domenica, marzo 17, 2019

Sviatoslav Richter: trent'anni dopo...

Sviatoslav Richter (1915-1997)
Come tutti ricordano, Richter in un certo momento sparì dalla scena concertistica: problemi di salute (cuore malandato) e anche, si sussurrava fra gli addetti ai lavori, problemi con la memoria. Era vero, era così, e pubblico e addetti ai lavori cominciarono a collocare Richter in una nicchia, una larga nicchia in verità, della storia. Improvvisamente, invece, Richter ricomparve sulla scena. Risolti, o per lo meno rabberciati i problemi di salute, radicalmente eliminati i problemi della memoria con la rinuncia a suonare a memoria, Richter riprese il suo posto.
Non era più lo stesso, in verità, ma non perché le forze non lo sorreggessero come prima: era diventato meno interessato al colore e più interessato al disegno - lui, grande colorista! -, ed aveva di conseguenza "raffreddato" e "asciugato" il pathos travolgente che lo aveva reso famoso in Occidente negli anni sessanta.
Era cambiato anche per un altro aspetto: non accettava più di suonare nelle grandi sale deputate e nelle grandi città, ma preferiva scegliere lui i luoghi dei suoi concerti in base a considerazioni affettive. Il direttore del Teatro di Aachen, l'antica Aquisgrana, ricevette un giorno un telegramma del segretario di Richter "Il Maestro ha letto una biografia di Carlo Magno e vorrebbe suonare ad Aquisgrana". L`onorario di Richter era, giustamente, molto alto, e la sua scrittura avrebbe quindi dovuto essere pianificata con un congruo anticipo. Ma Richter voleva onorare subito Carlo Magno suonando ad Aquisgrana. Con un po' di telefonate il direttore del teatro trovò un gruppetto dl sponsor, raschiò il fondo del barile del suo budget, e ad Aquisgrana Richter suonò. Un'altra volta volle suonare al Vittoriale di Gardone in onore di Eleonora Dose. E ci suonò, con il pianoforte accanto ad un quadro ritraente la grande attrice. Inutile fargli notare che con D`Annunzio al Vittoriale non c`era stata la Duse ma Luisa Baccara: per Richter non valevano i dati della cronaca ma quelli del mito, e nella dimora ultima di un poeta da lui ammirato voleva la grande attrice dal poeta amata.
Un`altra volta Richter, che viaggiava preferibilmente sulla sua Mercedes, mai in autostrada e mai ad una velocità superiore agli ottanta, passò per Casalpusterlengo.
Il nome Casalpusterlengo gli piacque a tal punto che disse: "Voglio fare un concerto qui". Quella volta, purtroppo per lui, fu impossibile accontentarlo, molte altre volte, invece, Richter poté suonare in paesini e paesotti che venivano individuati dalle società di concerti sulla base dei suoi desiderata.
Così, per alcuni anni Richter non suonò a Milano ma nell'hinterland milanese, e di questi concerti decentrati io ne sentii parecchi. Non era comodo; si faticava a trovare la strada per X o per Y, si faticava a trovare la via, si faticava a trovare il posteggio, e non di rado si entrava in sala a concerto iniziato. Mi capitò anche a Lugano... Non che Lugano sia un paesino o un paesotto, ma io lo associo alle mie scorribande nell'hinterland milanese perché incontrai difficoltà ad arrivarci (era domenica e c'era una gran coda alla frontiera di Brogeda), dovetti lasciare l'auto in un parcheggio lontanissimo dal Palazzo dei Congressi ed entrar in sala a concerto già iniziato.
Richter stava suonando Grieg, con il suo faretto, la musica sul leggio, il voltapagine al fianco. Tutto come di consueto negli ultimi anni. Però c'era qualcosa di diverso nel suono e nel gesto, e quel qualcosa di diverso andò aumentando a mano a mano, da Grieg a Franck a Ravel: a mano a mano io vidi ricomparire il Richter che avevo conosciuto negli anni sessanta e che avevo perduto dopo un memorabile concerto a Genova che mi aveva fatto uscir di senno. Adesso che ho visto il filmato curato da Bruno Monsaingeon mi accorgo del fatto che il mio Richter degli anni sessanta era un po' diverso dal Richter degli anni cinquanta. Il Richter che compare nei più antichi spezzoni filmati era un fascio di nervi in cui la musica passava come una corrente elettrica al massimo potenziale possibile Il Richter degli anni sessanta era in realtà un po' meno sussultorio, e ancor di meno lo era il Richter degli anni settanta e ottanta.
Ma la trasformazione successiva era stata così radicale da cancellare nella mia memoria l'evoluzione progressiva del gesto di Richter e da farmi pensare solo a due Richter, il primo posseduto dal demone
come una baccante, l'altro ieratico sacerdote. A Lugano, il 5 giugno l994, io non rividi in realtà il Richter del 1962, ma non vidi nemmeno il Richter del 1993 Sr dice che in una persona vicina alla morte ricompaiano i lineamenti della pulsante giovinezza. E a Lugano io provai questa impressione: la forza panica della musica si era di nuovo impadronita di Richter. Per l`ultima volta? Per quanto mi riguarda, sì, perché nelle altre occasioni che ancora ebbi di ascoltarlo ritrovai il Richter degli anni Novanta, per me enigmatico.
Il programma di Lugano comprendeva due vecchi amori di Richter, come Franck e Ravel, e un grande amore degli ultimi anni, Grieg. Non il Grieg della Ballata, pezzo da concerto che parecchi pianisti della generazione 1860 avevano avuto in repertorio, ma il Grieg dei Pezzi lirici, delle pagine non destinate all'esecuzione pubblica. Grieg, con i Pezzi lirici, fu l'esponente massimo della musica per i dilettanti nella seconda metà dell'Ottocento, e in quanto tale aveva già attirato l'attenzione di Walter Gieseking, il duale aveva però affidato soltanto al disco la sua interpretazione di queste piccole pagine, così come solo al disco si era rivolto Emil Gilels. Richter aveva il coraggio di mettere in programma, in una grande sala, un`antologia di Pezzi lirici, dandone un'esecuzione diversa da ouella di Gieseking e di Gilels, e cioè epicizzante. Richter vedeva in realtà in Grieg la matrice storica da cui era uscito in Russia Rachmaninov e da cui era uscito in Francia Debussy. Per me fu l`ultima lezione di storia che ebbi da lui, l`ultima dopo tante altre, perché nei confronti di Richter mi sento debitore non solo di intense emozioni ma anche di input che mi portarono a riflettere su cose apparentemente di poca importanza.
Franck e Ravel non provocarono nuove scoperte ma solo il piacere della riscoperta. Ricordo che, non so se per errore, il programma stampato non recava i due ultimi pezzi dei Miroirs, Alborada del gracioso e La vallé des cloches. Il pubblico non applaudì quando logicamente avrebbe dovuto applaudire, e Richter girò la pagina e andò avanti con l`Alborada. Dupo l'Alborada il pubblico applaudì, e Richter si inchinò compitamente (come sempre: l'inchino di Richter era un misto di aristocratica cornpostezza e di leggera rigidezza militare). Poi attaccò la Vallée, pezzo che avevo ascoltato da lui per la prima volta, se non ricordo male, nel 1963. Non ci furono bis. Ed io rne ne andai a recuperare l`auto nel lontanissimo parcheggio saldando negli occhi e nelle orecchie due immagini distanti trent`anni l`una dall`altra, e con il sentirnento che un`epoca si chiudeva per me, per sempre.
Piero Rattalino

giovedì, marzo 07, 2019

L'altro Schubert: un itinerario tra i capolavori dell'ultimo anno

Classic Voice 126 - (p) 2009
Ex Novo Ensemble | Katia Pellegrino
“Non ebbe cariche ufficiali, né impieghi stabili. Non viaggiò per l’Europa come concertista, non attirò l’attenzione dei circoli internazionali. Non si sposò, non ebbe mai una casa propria né una rendita fissa, non amori alla luce del sole. Non, non, non: a quanto pare, una biografia di Schubert si potrebbe scrivere solo per successive negazioni". Poche righe, per una sintesi esemplare.
La scelta dei brani raccolti in questo doppio cd prende spunto dall’acuta riflessione di Sergio Sablich: L’altro Schubert, titola il suo libro.
“Davvero uscirà qualcosa da me? Io spero ancora di fare qualcosa di buono di me stesso, ma chi ne sarebbe capace, dopo Beethoven‘?”. Questo si era chiesto Schubert all’inizio della sua carriera: talmente breve, talmente poco appagante che è difficile definirla davvero una carriera.
Altro, soprattutto rispetto a Beethoven. Anche se l’unico concerto monografico dedicato a Schubert durante la sua vita ha luogo a Vienna, nella sala piccola del Musikverein, il 28 marzo 1828, a un anno esatto dalla scomparsa del Titano.
“La sala era strapiena, ogni singolo pezzo veniva acclamato con entusiasmo, Franz è stato chiamato alla ribalta innumerevoli volte”, raccontano le cronache degli amici. Nessun giornale si occupò della serata, ma il successo artistico fu notevole, l’incasso cospicuo: per la prima volta Schubert poté acquistare un pianoforte di proprietà. Pochi mesi dopo, lui cessava di vivere, Vienna non aveva trovato l’erede e si innamorava di altri musicisti - Niccolò Paganini, Gioachino Rossini - ai quali tributava trionfi a Schubert sconosciuti.
Nei confronti del repertorio più amato, abbiamo un atteggiamento duplice: mentre lo ammiriamo e lo collochiamo nel tempo in cui è nato, sempre proviamo ad ascoltare anche le ragioni, le pulsioni della sua attualità. Per Schubert, il suo essere nostro contemporaneo risiede probabilmente nel prevalere delle domande rispetto alle risposte: la sua musica schiude interrogativi, solleva dubbi, evoca, allude, più che offrire certezze, stabilire confini, narrare con esattezza di contorni. Spesso - e in particolare nelle opere degli ultimissimi anni, che segnano la particolarità di questo disco - la sua alterità è spiazzante.
Soltanto due mesi dopo aver terminato il ciclo della Bella Mugnaia, Schubert sceglie uno, uno solo, dei venti Lieder che lo compongono e lo sottopone a radicale metamorfosi. Sceglie Trokne Blumen (Fiori appassiti) e ne fa nascere qualcosa d’altro, riconoscibile eppure estraneo. Un amico flautista lo prega di scrivere un brano lieve, adatto all’allegria dei salotti Viennesi. Lui lo accontenta: via la voce, sostituita dal flauto. Resta il pianoforte, pero tutto cambia.
“Schubert aveva una doppia natura: l’allegria viennese era in lui unita e nobilitata da un tratto di profonda malinconia”: quello che accade con queste Introduzione e variazioni D 802 spiega alla perfezione la frase di un suo amico, il poeta Mayrhofer.
Il dominante carattere doloroso del Lied persiste nell’inizio prima pianissimo, poi lancinante come una lama, e sospeso. Quando appare il tema, è ancora perfettamente se stesso, è il compianto che conosciamo; dura poche battute, poi come fosse entrato in una galleria degli specchi deformanti, quel motivo, sospinto dall’energia del flauto, si trasforma: è una mutazione che impressiona, un controsenso assoluto. Perché partire da questo dolore per offrire all’amico e al suo flauto passaggi brillanti, virtuosi, cantabili, salottieri, galanti?
Se doveva essere un lavoro d’occasione, un foglio d’album, un gioco di società, perché scegliere questo punto di partenza? C’è un’unica spiegazione: la musica, la materia di cui è composta, la sua grammatica, parla tutte le lingue, dice tutte le cose che vuoi farle dire, come se da uno stesso seme potessero crescere alberi completamente diversi. Come una pomice che assume ogni forma, se sai maneggiarla. Ma quel tema, quel passo d’avvio che il flusso della musica ci aveva ormai fatto dimenticare, ritorna nella penultima variazione, come un detrito di memoria che riaffiora e di nuovo scompare, nel passo che vola, ma sempre ricorda, del finale. Perché questa allegria viennese era partita da quei fiori appassiti, da quel lutto.
L’Adagio D 897 viene composto nel 1827. Si tratta di un Trio per pianoforte, violino violoncello che si sviluppa in un unico movimento e sulla cui origine non abbiamo certezze: nasce in maniera autonoma, Viene inizialmente concepito come parte di uno dei due Trii op. 99 e op. 100 per poi esserne espunto, oppure è una trasformazione della Fantasia per violino e pianoforte D 934, forse concepita all’inizio come un trio?
Il carattere è quello, così schubertiano, di una fantasia, di un Notturno, come l’opera viene chiamata. Scrive Brigitte Massin: “Un’introduzione Adagio appassionato, in pianissimo, propone agli archi un tema lento, dalla curva dolcemente ascendente, sottolineato dai misteriosi accordi arpeggiati dal pianoforte. Non è che una preparazione al grande episodio centrale in mi maggiore, un dialogo a tre voci attorno a un tema dall’andamento ritmico molto particolare, con la sua rottura sul secondo tempo".
Instabilità di Schubert, nelle frequenti trasformazioni del tema, nel suo ritornare per mutare: la sola persistenza è questo scontornare la solidità di un’idea nel prisma dei suoi volti possibili, in una luce sfumata, fatta di ombre.
“Alcuni anni fa mi sono vergognato moltissimo rendendomi conto di non avere la più pallida idea di quello che contenevano i testi poetici dei Lieder di Schubert. Tuttavia, dopo aver letto le poesie, mi sono accorto di non averne tratto alcun vantaggio per la comprensione. Al contrario, anche se non conoscevo il testo poetico, avevo colto il contenuto, quello vero, della musica ancora più profondamente che se mi fossi attenuto ai puri e semplici pensieri espressi dalle parole”. Così Arnold Schönberg.
Il teatro impossibile di Schubert, il suo altro teatro, non ha bisogno di scene, di costumi, di effetti, di una narrazione plausibile: gli basta la musica, il canto.
“Prendi gli ultimi baci d’addio, / e i saluti portati dal Vento / che mando a riva / prima che i tuoi passi si voltino per lasciarmi!”: cosi la prima quartina di Auf der Strom (Sul´fiume) D 943, il testo di Ludwig Rellstab che Schubert affida alla voce, al pianoforte e al corno, o violoncello, preferito nella presente esecuzione.
Il testo è già detto in quell’incedere ansioso del pianoforte, nell’esordio piano, così evocativo, del violoncello, nelle arcate delle sue note tenute, e lontane, nell’entrata di una vocalità che insegue, cerca, domanda affannosa. Una scena lirica, un teatro interiore, a cui ogni rappresentazione sensibile recherebbe violenza.
Il brano debutta proprio in quel concerto viennese del marzo l828 e la scelta non è certo casuale, se Rellstab aveva offerto a Beethoven quei versi, che dalla cerchia beethoveniana erano poi giunti a Schubert.
I versi, è meglio conoscere i versi, forse, anche. “Guarderò le stelle / nella loro sacra distanza! / A quella tenue luce / per la prima volta l’ho chiamata mia. / Forse lì, o destino felice, / incontrerò il suo sguardo”.
Schubert ripete gli ultimi quattro, poi ancora una volta gli ultimi due, e un’altra volta ancora l’ultimo. Il grido, lo strazio, infine - nella musica - la consolazione: è un addio, e non si può raccontare meglio un addio Der Hirt auf dem Felsen (Il pastore sulla roccia) D 965 nasce nell’ottobre l828, l’ultima opera finita, iniziata e finita, in quei mesi estremi, quando la sua mente era attraversata da un fiume di musica. “Ho ritrovato il più rinnovato coraggio”, aveva scritto dopo il concerto del 26 marzo 1828. Nascevano, come in una vertigine, melodie e temi inesauribili, per i quali l’idea stessa di compiutezza, la necessità di scrivere l’ultimo accordo, di chiudere, contrasta con la volontà di proseguire, di continuare, oltre la vita stessa: “Si crede che la felicità sia attaccata al luogo dove si è stati un tempo felici, mentre risiede in noi stessi”.
Un turbinio di vitalità, non ripagato da nulla: senza altri successi pubblici, dopo quel primo e ultimo concerto tutto suo; senza felicità privata, Senza ricchezza, malato ormai in modo fatale. “E’ da 11 giorni che non mangio e non bevo e mi trascino sfinito e barcollante dalla poltrona al letto”, scrive nell'ultima lettera. Chiedeva che gli facessero avere dei libri di avventura, gli era molto piaciuto L’ultimo dei Mohicani.
Solo la musica lo ripagava. Una condizione unica, malattia ed ebbrezza. Ebbra è l’immaginazione di quel pastore seduto sulla roccia, sulla cima più alta. E' solo e racconta che ogni speranza è svanita. Non sono versi sublimi, assomigliano a quelle immaginazioni da quattro soldi di cui tutti siamo capaci. Però, c’è il canto.
All’inizio, il tempo è un Andantino e a lungo rimane così; poi cresce, accelera, diventa un Allegretto prima di trasformarsi in un più mosso: l’idea è diventata vertigine.
“Verrà la primavera, / la mia amica / e io già mi preparo, / pronto per andare. / Quanto più lontano arriva la mia Voce, / tanto più chiara me ne ritorna l’eco”.
Questa frase Schubert la ripete, per cinque volte, ogni volta provando a guardarla più da vicino, ad afferrarla, ogni volta inseguendo la felicità, che attrae i cuori verso il cielo, e la gioia che come un’eco ritorna è tutta in questo slancio impossibile, soltanto qui. Mite, impudico Schubert.
Ma Il pastore sulla roccia è anche una testimonianza dell’incapacità di Schubert di pensare in termini di successo, di carriera. Il Lied è dedicato ad Anna Milder, che molto ammirava il compositore e più volte gli chiese di scrivere qualcosa di nuovo per lei: “Mi permetta di dirle per iscritto quanto mi appassionano i suoi Lieder e quanto entusiasmo provochino nel pubblico a cui li presento”.
Perché Schubert lascia passare tre anni prima di soddisfare l’insistente richiesta della cantante? Perché soltanto poco prima della sua morte Scrive Il pastore sulla roccia, la sua ultima opera vocale che giunge, postuma, alla Milder solo per l’intervento dell’amico cantante Johann Michael Vogl? E Anna finalmente la interpreta, a Riga, nel marzo l830.
Ha scritto Schubert: “Si spera sempre di andare verso l’altro, ma in verità non ci si incontra mai”.
Da un’amicizia, e da una separazione, nasce anche l’Allegretto D 915: “Al mio caro amico Walcher, in ricordo. Vienna, 26 aprile l827”.
Un foglio d’album, così risolto nella sua concisione, nella semplicità di un tema che non prende mai un vero slancio, nell’alternanza minore-maggiore-minore, nei silenzi, nei bravi trasalimenti, nel cercarsi senza trovarsi delle voci, nel suo essere una visione fuggitiva, raccolta nell’intimità di un addio.
Il viaggio lungo la musica da camera prosegue nel secondo cd e inizia con l’esecuzione del Rondò in si minore D 895 per Violino e pianoforte, pubblicato nell’aprile del 1827 dall’editore Artaria con il titolo senz’altro allora alla moda di Rondò brillante. Un brano che sembra stemperare la ricordata “alterità” di Schubert. Inizia con breve Andante, si sviluppa in un più ampio Allegro, marcato da una vivacità davvero “brillante”, tipica della musica da salotto nel clima Biedermeier e che si deve immaginare impreziosita dall’estro dei due amici virtuosi per i quali l’opera venne scritta e che per primi la eseguirono, a Vienna.
Ma come subito porta nel cuore del racconto lo slancio, tuttavia così riflessivo, dell’Andante iniziale, come si concatenano le idee generate dalla melodia affidata dapprima al Violino, Come, attraverso numerose variazioni, accelera con un impulso che è stato definito “all'ungherese" l'Allegro, prima di giungere alla sua coda (qui l’autore indica Più mosso). Rondò, brillante, alla moda: nessun dubbio, ma con un fiorire di intuizioni che rendono impossibile nascondere la firma.
Anche il Trio in mi bemolle maggior op. 100, D 929, per violino, violoncello e pianoforte figurava nel programma del concerto viennese del marzo 1828.
“Il Trio in mi bemolle (tonalità preferita da Schubert) è più discontinuo; i suoi momenti più belli - la passione e l’ardore dell'Adagio, lo Scherzo in forma di canone, l'inatteso ritorno nel Finale del tema del violoncello già apparso nel tempo lento - superano qualitativamente il Trio in si bemolle, ma altre parti, come il primo tempo troppo lungo e l’inizio del Finale, gli sono inferiori. Tuttavia, in ultima analisi, anche il Trio in mi bemolle è un’opera valida”: così Maurice Brown, confrontando i due Trii op. 99 e op. l00, alla voce Schubert di un diffuso dizionario musicale.
Quanto imbarazzo, quanta prudenza, quanto distacco - “in ultima analisi”! - in questo giudizio critico. Quando una musica sfugge alle consuete griglie formali, converrà dunque essere molto prudenti nell’esprimere il proprio comunque contenuto entusiasmo?
“Troppo lungo”: critica spesso rivolta a Schubert. La sua musica non va verso, non tende a, non percorre un itinerario da un punto A verso un punto B, da un inizio a una fine. La sua imprevedibilità, spiazza: il suo essere “ardente” (come Schumann definì il primo tema dell’Allegro iniziale) presto si placa in un abbandonato lirismo, nel gioco di forti contrasti dinamici, nell’alternanza frequente di pianissimo e fortissimo, in una sismografia costantemente incostante, sempre variante. Nella malinconia virilmente irrimediabile, nella breve e così definitiva andatura funebre del passo d’avvio dell’Andante, nell’apparizione sognante del violoncello che interrompe la densità del tema brillante dello Scherzo, nell’ampiezza - inusuale, ancora una volta - dell’Allegro moderato conclusivo, dove l'invenzione e la memoria, ciò che è già accaduto e quanto si sta creando in quel momento, convivono, si sovrappongono, riaffiorano, si smarriscono, riappaiono.
L’esecuzione qui proposta del Trio op. 100 si segnala per la decisione degli interpreti di rispettare, nell’ultimo movimento, la versione contenuta nel primo autografo dell’opera, inviato da Schubert all'editore Probst di Lipsia. Scrive Eva Badura-Skoda, curatrice nel 1973 de1l’edizione critica: “L'autografo del Finale presenta molte correzioni e contiene due serie ciascuna di cinquanta misure che mancano nella prima edizione a stampa. Da una lettera all’editore Probst di Lipsia del 10 marzo 1828 sappiamo che Schubert stesso ha effettuato questi tagli. Egli si esprime così: “I tagli riportati nell’ultimo movimento sono da osservarsi scrupo1osamente”. I due frammenti eliminati appaiono alle misure 357 e 414 della presente edizione”.
L’e1iminazione dei due incisi non sarà certo dovuta alla preoccupazione di consegnare un`opera troppo lunga; piuttosto, in un lavoro che l’autore sa destinato alla stampa (ma Schubert, scomparso il 19 novembre 1828, non farà in tempo a vedere il Trio pubblicato), dal quale si attende un riscontro concreto e che Viene eseguito in quel concerto dedicato alla memoria di Beethoven, può essere forse prevalsa la volontà di ‘rispettare’ il calco beethoveniano del Finale del Trio op. 70 n. 2, la sua architettura costruita sull’opposizione di episodi ben differenziati.
Schubert consegna un movimento in forma-sonata, molto libero, nella fremente ricchezza della sua fantasia creativa. Il materiale musicale sembra auto generarsi: ogni cellula racchiude in sé altre invenzioni possibili, divagazioni, sentieri iniziati e interrotti. Quei due frammenti, che entrambi propongono elementi tematici già apparsi, saranno sembrati troppo schubertiani perfino al loro autore?
di Sandro Cappelletto