Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

venerdì, aprile 21, 2023

Giorgio Federico Ghedini, un incontro...

Via Tiepolo, 11: qui abita il M° Giorgio 
Federico Ghedini, dopo essere stato 11 anni Direttore del Conservatorio Giuseppe Verdi, e qui sono andata a trovarlo. Pur conoscendo la sua musica, desideravo conoscere anche l'uomo che l'aveva concepita e tradotta sul pentagramma. Il Maestro mi accoglie nella sua nuova casa. Mi colpisce il suo studio, posto a mezzogiorno, dalla cui finestra lo sguardo spazia sul sottostante prato. La luce che l'illumina è viva, l'aria pura e l'arredamento moderno si accoppia, in maniera quanto mai armoniosa, con quello antico. Molti libri, tanti dischi, un magnetofono e, sul lungo tavolo-scrivania, le fotografie dei genitori: davanti al tavolo, una grande poltrona scura sotto una lampada chiara. Tutto questo registrano i miei occhi prima di posarsi sulla figura del compositore.
Giorgio Federico Ghedini è un uomo di media statura, asciutto e con una innata distinzione di modi: ha mani lunghe, nervose ed occhi penetranti, vivissimi, allo sguardo dei quali non si può sfuggire. Si intuisce subito che dietro la sua fronte alta e spaziosa c'è una mente attiva. La sua intelligenza trapela da tutta la persona, ed io mi rendo conto di trovarmi di fronte, oltre che ad un grande artista, ad un uomo di levatura eccezionale. Il Maestro mi guarda sorridendo; sorrido anch'io ed inizio la mia intervista, certa della sincerità delle risposte. Perché anche questo si comprende dal suo volto: che egli è un uomo sincero.

So che lei è piemontese ma il suo diploma l'ha conseguito nella città dotta, cioè Bologna: cosa può dirmi sulla diversità di insegnamento fra Torino e Bologna?
Mia madre era di Casale Monferrato e mio padre bolognese. Io ho studiato a Torino, ma il diploma l'ho conseguito a Bologna nel 1911 quando il Liceo Musicale era diretto da Marco Enrico Bossi, organista e compositore. Bologna aveva, allora, note tradizioni musicali: ci ricorda, infatti, Mancinelli, compositore e direttore d'orchestra, Martucci, pianista e compositore, direttore d'orchestra, Busoni, ecc. Io sono figlio di un appassionato, anzi fanatico, della musica ed ho ancora presente quanto mio padre mi narrava relativamente ad episodi avvenuti nella sua giovinezza. Egli, tutte le domeniche, si recava con un suo amico a S. Petronio per ascoltare la Messa cantata che veniva diretta da Mancinelli - Direttore del Liceo Musicale - il quale, oltre a dirigere concerti, era Maestro di Cappella a S. Petronio, Presidente della Società del Quartetto, Direttore dei Concerti Sinfonici al Comunale e Direttore dell'Opera. In una di queste domeniche, si sentì battere la spalla da Mancinelli che domandò: «Perché venite sempre a sentire queste brutte esecuzioni?». Mio padre, giovane universitario, rispose: «Maestro, noi siamo poveri, ci piace la musica e veniamo a sentirla dove non si paga» Mancinelli allora offrì loro delle tessere perché quei giovani avessero potuto ascoltare i concerti.
Nel ricordo della giovinezza trascorsa nella musica, mio padre, ingegnere, poi, a Cuneo, preferì mandarmi a conseguire il diploma a Bologna. Avevo diciotto anni.
Lei ha insegnato nei Licei e Conservatori di Torino, Parma, Milano; può dirmi qualcosa sulle sue maggiori soddisfazioni di insegnante?
Soddisfazioni ne ho avute dappertutto, anche se colorate diversamente in quanto i caratteri cambiano da regione a regione, e ingratitudine, espansività, comprensione o incomprensione, entusiasmi, fanno parte
dell'animo umano per cui si alternano. La lunga esperienza, però, mi ha temprato a queste vicissitudini: concludendo, posso affermare che il bilancio e più positivo che negativo.
Lei preferisce, se di preferenza si può parlare in campo musicale, comporre musica da camera o teatrale?
Sono due impegni diversi: l'una e l'altra.
So che lei è compositore di sicura immaginazione, di tecnica senza compromessi, senza legami o preconcetti: ciò premesso, posso dire che la musica è la linfa della sua vita?
Sì, è stata ed è la linfa della mia vita.
Poiché è considerato, a ragione, l'esponente più valido della musica contemporanea italiana, desidererei da lei un parere: annovera fra la musica la così detta «musica-elettronica» o per lei essa è semplicemente «elettronica»?
La così detta musica «elettronica» è un esperimento che può essere anche interessante, i cui risultati possono, se mai, impiegarsi nei suoni in sottofondo di certe scene cinematografiche. Arte, forse no.
Ho interrogato molte persone che la conoscono a fondo e tutte sono concordi nel riconoscere in Giorgio Federico Ghedini molto spirito intelligentemente umoristico: perché questo umorismo non si riflette nella sua musica? Forse anche per lei, come per tanti altri Grandi, la musica rappresenta una evasione?
Nel mio caso è l'«humor» che rappresenta una evasione. Quando io faccio musica, faccio dramma; da ciò la necessità di evadere anche per il senso dell'umorismo che e un freno ed una misura.
Ho sentito, al Conservatorio, il suo concerto dell'Albatro: perché ha incluso nel complesso anche una voce recitante? Forse perché uno strumento, od un cantante, non avrebbe potuto rendere quello che lei desiderava?
Sì, perché mi parve, a un certo punto, che l'intervento di una voce recitante, e non cantante, si addicesse meglio a questa stupefazione che volevo dare a quelle parole. Parole che in origine dovevano essere cantate da una voce di baritono. Ma in questo caso la voce di baritono mi pareva troppo realistica.
Chi considera, oltre a lei, degno di rappresentare la musica italiana?
Io credo ancora nelle radici etniche della musica; voglio dire che, per chi è nato in Italia, la sua musica deve rispondere alle caratteristiche etniche della sua terra. Vedi, ad esempio, Verdi e molti altri di quell'800 benedetto. Oggi c'è una tendenza ad una sorta di «esperanto» musicale, ad un livellamento, quasi ad una abolizione della personalità: perché questo?
So che lei ha lasciato quest'anno la Direzione del Conservatorio «Giuseppe Verdi»: sente la mancanza delle voci degli allievi, dell'organizzazione degli studi, della preparazione ai saggi che lei seguiva sempre con severo e pur affettuoso incitamento?
Molto.
Cosa pensa di Sergiu Celibidache?
Dire cosa penso è dire poco, e dire niente: penso che sia un mio fratello.
Perché, secondo lei, Maurizio Pollini, dopo il concorso Chopin, ha quasi abbandonato quell'attività che ci si aspettava da lui dopo un premio simile?
E' errato: Maurizio Pollini non ha mai lasciato la sua attività musicale che consiste non solo nello studio del pianoforte, che è cosa per lui tecnicamente superata (la tecnica di Maurizio Pollini è meravigliosa), ma anche nella sua vita intensissima fatta di pensiero, di profondi studi degli autori e dei testi e di battaglie contro la pigrizia del pubblico e le consuetudini. I rapporti, per esempio, delle velocità nello stacco dei movimenti musicali sono oggetto, per lui, di una continua problematica. Pollini è il più meraviglioso musico che io mi conosca!
Quale delle sue composizioni le ha dato più soddisfazioni, perché eseguita come lei voleva, o per successo del pubblico?
La mia produzione é molto vasta, le composizioni anche del 1926 o del 1927 sono ancora oggi eseguite, e questo prova la loro vitalità. Generalmente, il compositore ama l'ultima sua opera, l'ultimo suo lavoro. Per me non è sempre così. La «Partita» (1926), «Marinaresca e Baccanale», «Architetture» (1940), i «7 Ricercari» per trio: violino, violoncello e pianoforte (1943), il «Concerto Spirituale» per due voci e strumenti (l943), l'«Antifona per Luisa», i «Contrappunti» per trio d'archi e orchestra, il «II Quartetto», gli «Appunti per un Credo», gli «Studi per un affresco di Battaglia», il recentissimo «Credo di Perugia» (1962) e infine l'ultima composizione, «Musica concertante» per violoncello e archi (1962), sono le tappe più significative: quali preferire? E' una imbarazzante domanda: magari nessuna...
Penso che quella del compositore sia una strada molto difficile, anche perché penso che quando si compone si abbia una idea personale di come va eseguito il pezzo: non crede anche lei che l'esecutore possa travisare quello che concepì l'autore? Chi, in questo senso, è stato più aderente alla idea esecutiva di Ghedini?
Tutti i direttori che sono musicisti sanno, perché tali, leggere oltre il segno.
Quando lei compone, concepisce la sua idea musicale al pianoforte per poi maturarla sulla carta, oppure ha qualche suo sistema? In quest'ultimo caso, me lo sveli.
La musica se é, per esempio, per orchestra, nasce fin dal primo appunto vestita nei suoi timbri, immaginata per quel tale strumento e non per un altro. Potrebbero passare degli anni: ma se ritrovassi un appunto di allora ricorderei perfettamente che tale motivo era, per esempio, destinato a un violoncello, o a un flauto, o a un oboe...
Quale paesaggio la ispira di più?
Io posso comporre senza pensare a visioni naturistiche o ad altro, perché faccio della musica. Anzi, un paesaggio troppo bello mi distrae e disturba.
Secondo lei, quale influenza ha l'amore nella musica?
Moltissima: esempio celebre il «Tristano».
Ci sono i tram, le sirene, tutti i rumori che influenzano ogni stato d'animo: come fa ad astrarsi, a concentrarsi, a trovare un senso musicale per la sua arte nel marasma della vita moderna?
Quando compongo non penso che a quello che debbo fare. Ad esempio, ricordo che in un paese di villeggiatura, mentre lavoravo, fui assalito da uno scampanio domenicale della vicina chiesa che mi costrinse ad uno sforzo per non perdere il filo di quanto stavo tessendo: non fu, però, una astrazione la mia (il suono delle campane mi frastornava veramente), ma un atto volontario il ribellarmi a quel suono.
Ho ascoltato, e gustato, la sua ultima composizione per violino ed orchestra eseguita, nella scorsa stagione della R.A.I., dal violinista Franco Gulli sotto la direzione del Maestro von Matacic: cosa pensa di questo nostro violinista?
Franco Gulli é una natura violinistica stupefacente e ha quella musicalità ricca che sanno avere i triestini quando sono musicisti: Gulli lo é in tutti i sensi. Nella interpretazione del mio «Divertimento» per violino e orchestra, egli raggiunse, nel lungo arabesco del I° tempo (è per violino solo) quello che l'esecutore dovrebbe sempre raggiungere, ossia la sensazione che la musica non sia scritta ma che l'esecutore la capti per l'aria e la realizzi in quel momento: musica non scritta, ma creata lì per lì. Queste sensazioni mi ricordano quelle provate, a volte, ascoltando grandi esecutori come: il Quartetto Italiano, il Trio di Trieste, il Quartetto Bush, ecc.
Desidererei sapere da lei la sua idea su Arturo Benedetti Michelangeli: è un genio?
E' un pianista squisito! Il suo suono è meraviglioso, la sua tecnica ineccepibile, i suoi piani sonori studiatamente perfetti: é un apollineo!
In relazione ai risultati conseguiti dai giovani compositori che frequentavano il Conservatorio quando lei ne era Direttore, prevede che la tradizione musicale italiana continui?
Ho molti dubbi sotto questo riguardo perché, come ho già detto, c'é un senso di pianificazione e anche di far presto che, per varie ragioni che non sto qui a dire, pare orientare i giovani verso strade alla moda.
Da che cosa dipende, in genere, la sua maggior disposizione a comporre?
Il fatto creativo e sempre misterioso: a volte con tutte le comodità e l'ambiente propizio, il risultato é nullo, a volte, invece, quando manca il tempo, o disagiate condizioni di ambiente sembrerebbero opporsi ad ogni buon rendimento, l'idea musicale - che forse covava nel «sub-cosciente» chissà da quanto tempo - dà l'avvio ad una buona giornata di lavoro.
Mi può dire qualcosa della sua ultima opera, il «Credo di Perugia», eseguito alla Scala?
E' musica senza tempo. E' musica, come del resto quasi tutta la mia, che non segue i postulati contingenti e non vuole essere né antica, ne moderna.
Avremo qualche suo altro frutto in un prossimo futuro?
Non si può ipotecare il futuro, ma io penso di poter ancora scrivere qualcosa di valido e di non inutile, forse, per chi avrà la bontà di ascoltarmi.

Questa é l'ultima risposta di Giorgio Federico Ghedini; ed e una risposta che dà a me e al suo pubblico la speranza di sentire ancora qualcosa di nuovo e di sempre maggiore interesse musicale. Guardando intorno vedo il pianoforte aperto: è quasi un simbolo, perché tutto é pronto per accogliere l'ispirazione musicale, per donare altra fonte di gioia a chi ama l'arte dei suoni.
Le voci degli allievi del Conservatorio che il Maestro ha detto di udire sempre dentro di sé, si uniscono a quelle degli appassionati di musica e diventano un coro, in attesa che quel pianoforte presto vibri sotto il tocco dell'illustre compositore.
Carta da musica vergine verrà riempita di note, orchestre suoneranno una volta di più le vive composizioni di questo Maestro, il pubblico applaudirà ancora e la musica italiana contemporanea troverà sempre in lui il suo maggiore esponente.
Lascio casa Ghedini felice di aver personalmente conosciuto l'autore del «Credo» e, nello stesso tempo, felice di aver constatato che anche l'uomo, oltre al musicista, è eccezionale. I suoi occhi mi sorridono nel salutarmi e la sua vigorosa stretta di mano mi trasmette forza ed un acuto senso di gratitudine.
Jolanda D'Annibale
("Rassegna Musicale Curci", anno XVII, n. 1 marzo 1963)

sabato, aprile 08, 2023

Dal metronomo al magnetofono

Il tentativo di determinare meccanicamente l'esatta velocità d'un pezzo musicale
e di contribuire, contemporaneamente, alla divisione scientifica dei quarti, ottavi o sedicesimi di una indicazione di tempo (2, 3 o 4 quarti, 2, 3 o 6 ottavi eccetera) è abbastanza antico: se ne hanno tracce sin dal secolo diciassettesimo, con gli esperimenti di Winkel, del Loulié, dello Stockel e d'altri. Il vero inventore del moderno metronomo, usato da tutti i musicisti e imposto come norma agli studenti di musica, è però, Johann Nepomuk Maelzel nato a Regensburg nel 1772, morto durante un viaggio in America nel 1838. L'invenzione risale, secondo gli specialisti, al 1816.
Maelzel, noto maestro di musica in Vienna, aveva già precedentemente stupito i suoi contemporanei con parecchie altre invenzioni: il «Panharmonium», che era una specie di orchestrina, il «Trombettiere automatico» e il famosissimo «Giocatore di scacchi automatico»: il personaggio Maelzel, che univa alla qualità di eccentrico pioniere un carattere romanticamente hoffmanniano dovette parere, allora, una specie di mago e la sua figura, all'alba ancora incerta della civiltà meccanica, dovette parere straordinaria. Fu nominato meccanico della Corte asburgica.
In realtà i princìpi del metronomo erano stati già studiati da Winkel, un olandese di Amsterdam, meccanico di fama nella sua città. Ma la messa a punto definitiva del metronomo oggi tuttora usato (quando, come spesso avviene, non se ne abusa) porta il nome di quel Maelzel che fu conosciuto anche da Beethoven, per il quale l'inventore di Regensburg costruì cornetti acustici ed apparecchi di sollievo che però, non furono molto efficaci. Ma Beethoven conobbe il metronomo di Maelzel. Dicono anzi che, a chi gli chiedeva se considerasse particolarmente utile la piccola piramide in legno chiamata metronomo, il maestro di Bonn rispondesse: «Interessante ed utile. Ma chi è musicista nato non ha bisogno del metronomo e chi non è musicista non lo diventerà col metronomo». Parole d'oro che definiscono i limiti dello strumento.
Il metronomo di Maelzel, secondo un noto dizionario, «consta essenzialmente d'un pendolo, la cui lunghezza si può variare spostando un peso lungo la sua asta a guisa di corsoio. Sull'asta sono indicate, con un numero, le oscillazioni che il pendolo stesso compie in un minuto primo allorché il peso è fermato in corrispondenza di quel numero. I compositori sogliono segnare questo numero accanto ad una figura musicale, cui deve perciò essere riferita la durata dell'oscillazione». Con questo sistema il compositore può trascrivere il «suo›› tempo sulla carta pentagrammata con la sicurezza scientifica che chi legge la sua musica la eseguirà alla velocità voluta.
Non risulta, però, che i grandi compositori del secolo decimonono abbiano fatto un grande uso di questa comodità: forse per le ragioni enunciate nella battuta di Beethoven, sopra riportata. Le annotazioni metronomiche di Chopin, Schumann, Mendelssohn, Brahms, per non parlare dello stesso Beethoven, sono quasi tutte posteriori, cioè di mano d'altri, e molto spesso assolutamente arbitrarie: più che giovare, nuocciono perché la musica non si fa con un regolatore meccanico. Il taglio d'un tempo è implicito nella pagina e il musicista non ha bisogno d'un mentore meccanico per trovarlo.
Un largo uso del metronomo hanno, invece, fatto i compositori detti moderni, dai post-romantici ai contemporanei. E per i contemporanei, almeno, la cosa si capisce benissimo: il taglio dei tempi non è implicito nella pagina, come tutti sanno, e la sola fonte alla quale si deve ricorrere, in tali casi, è l'indicazione metronomica. Una funzione molto più importante ed utile ha il metronomo come ausilio agli studi. Se lo studente, poniamo, di pianoforte, stabilito un numero di oscillazione metronomica (cioè quello segnato dal revisore accanto all'indicazione del tempo, e sperando, naturalmente che il revisore sia onesto e non segni veloci i Gravi, i Larghi, gli Adagi, gli Andanti e gli Allegretti, ma soltanto gli Allegri e i Presto) mette in azione il metronomo e si cimenta a suonare scandendo esattamente i tempi sul battito dello strumento, è certo che può raggiungere una esattezza ritmica dalla quale, negli anni di studio, non deve dipartirsi e che non è sempre un dono di natura.
D'altra parte un maestro coscienzioso ed artista deve mettere in guardia l'allievo contro gli abusi metronomici; deve avvertirlo, tra l'altro, che il suonare a regola di metronomo non è suonare e deve, soprattutto, insegnargli a diffidare della maggior parte delle indicazioni metronomiche le quali, come sopra detto, sono troppo spesso arbitrarie e capaci, spesso, di alterare completamente il carattere d'una pagina con indicazioni che riflettono più la smania del «tutto unito e tutto presto», grave malattia conservatoriale, che non lo scrupolo d'una interpretazione artisticamente fedele e rispettosa.
Di ieri è invece l'invenzione del magnetofono, o registratore, il quale consente di incidere su nastro qualsiasi esecuzione musicale, per non dire qualsiasi suono o parola. Al suo apparire, il magnetofono sembrò una bella trovata familiare, per riascoltare la propria voce o quella di persone care, per trasmettere messaggi, per riprodurre dischi o esecuzioni musicali desunte da trasmissioni radio. In seguito si rivelò strumento professionale di vasta utilità in tutti i campi e particolarmente in quello musicale. Inutile descrivere qui il magnetofono che tutti conoscono e la cui diffusione odierna è tale che, si può dire, non c'è casa in cui non esista almeno un piccolo registratore portatile (molte industrie vendono apparecchi radio che sono dotati di grammofono e di magnetofono).
A parte l'uso che un nastro di magnetofono può suggerire per concerto, con inserti appropriati, e l'uso che se ne fa oramai su vasta scala come ausilio a spettacoli, per esempio, di danza, quando non sia possibile servirsi di un complesso strumentale o anche soltanto d'un pianista, il registratore è strumento di studio per qualsiasi virtuoso: il pianista, il violinista, il violoncellista, qualsiasi strumentista insomma, può controllare, su una registrazione del proprio lavoro, la qualità del lavoro stesso e procedere alle necessarie correzioni. Il medesimo si dica per i cantanti. Il magnetofono consente, insomma, all'artista di ascoltarsi con la necessaria freddezza (e non come avviene quando si esegue) e di correggere i propri difetti, o di migliorare le proprie qualità.
In questo senso l'invenzione del magnetofono è stata molto più utile ed importante di quella del metronomo. Perché l'aiuto che il magnetofono può portare allo studente, allo studioso, al professionista è di gran lunga superiore qualitativamente a quello di una semplice indicazione di tempo. Inoltre il magnetofono consente imprese che, fino a pochi anni fa, potevano parere fantastiche. Per esempio, un pianista può, con una serie di registrazioni appropriate, suonare musica per due pianoforti o a quattro mani in duo con se stesso. Basta che incida separatamente le due parti in questo modo: registrazione del primo pianoforte (o primo «quattro mani») su nastro; esecuzione del «secondo» assieme alla riproduzione del «primo» già registrato, curata su un secondo magnetofono.
Al termine di queste operazioni il pianista avrà un nastro dove potrà ascoltare sé stesso in duo con sé stesso, nell'interpretazione di pagine per due pianoforti o a quattro mani. Il che, oltre l'utilità, è anche emozionante e curioso. Analogamente un nastro registrato con la parte d'orchestra servirà ad un solista per lo studio di un Concerto per pianoforte, o violino, o violoncello, o flauto, o arpa e orchestra. Un cantante potrà avere accompagnamenti pianistici o orchestrali già pronti su nastro per studiare la sua parte; e così un violinista e qualsiasi altro solista.
A parte queste combinazioni, una raccolta di nastri registrati è sommamente utile a qualsiasi solista o cantante: essa consente un riesame del proprio lavoro, isola e conserva i momenti di grazia, codifica gli errori, sottolinea i caratteri d'una tecnica e via discorrendo. Dove, insomma, il primo collaboratore meccanico conosciuto dai musicisti, il metronomo, aveva soltanto facilitato l'impostazione dei tempi, il collaboratore moderno è quasi un compagno di studi e di ricerche il cui ausilio si rivela ogni giorno più prezioso.
Gian Galeazzo Severi
("Rassegna Musicale Curci", anno XIX settembre 1965)