Omeopatia musicale: pillole per attenuare il male dell'insensibilità culturale dilagante.
Curarsi con la musica senza necessariamente ricorrere al suono...

giovedì, giugno 29, 2006

Il barbiere di Madrid

Al teatro La Zarzuela di Madrid stavamo ultimando le prove de Il Barbiere di Siviglia di Rossini. La parte di Figaro era stata affidata al bravo baritono Enzo Sordello.
Dopo una "generale" assai faticosa, decidemmo di permetterci una cena coi fiocchi in uno dei ristoranti più in voga della capitale spagnola. Detto fatto.
Il locale era pieno zeppo di gente molto chic, l'ambiente assai elegante, e numerosi camerieri volteggiavano indaffarati, stretti in impeccabili frac. Ordinammo delle golosità come Gazpacho, Paella alla valenciana, Asado e non so cosa ancora. Eravamo affamatissimi, dopo aver trascorso quasi tutto il giorno in teatro.
Pregustando quelle delizie culinarie, l'amico spazientito, tamburellando con le dita sul tavolo canticchiava il sestetto dei secondo atto del Barbiere: "E' il cervello, poverello, già stordito, sbalordito...", solo che, storpiando volutamente le parole, diceva: "E il Sordello poverello, già stordito, sbalordito, non ragiona, si confonde, si riduce ad impazzar". Appena vide arrivare il primo piatto, s'infilò velocemente il tovagliolo nel colletto a mo' di bavagliolo ed impugnando
forchetta e coltello si preparò all'attacco.
Il nostro maitre era un signore anziano, alquanto sussiegoso, ed impettito nel suo frac dallo sparato inamidato.
Vedendo come l'amico si era combinato con il tovagliolo, come se si trovasse in una trattoria a Trastevere, gli si avvicinò sussurrandogli tra i denti indispettito: "Barba o capelli, Signore?", fissandolo negli occhi con sguardo provocatorio.
Il buon Enzo rimase per un po' interdetto, ma poi, ripresosi, gli disse ad alta voce: "Solo capelli, prego! La barba, se vuole gliela faccio io domani sera in teatro, perché IL BARBIERE sono io".

dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Ariè

martedì, giugno 27, 2006

Quirino Principe: "Non dò giudizi, però..."

Sono in crisi, lo confesso. Non me la sento più di scrivere. Mi son venuti meno parametri e criteri, regoli e sestanti, bussole e astrolabi. Da anni sto covando questa confessione: non so giudicare. Non è una posa semiseria, quel che dico: è la verità. Per anni ho mascherato la disperazione dietro il sorriso (bella frase, ammettiamolo! me la annoto), ma come si fa a non disperarsi, quando, al termine di un'opera o di un concerto, invece di fuggire dalla pazza folla e di tapparsi le orecchie per non udire i commenti dei maitres à faire le compte rendu, si indugia a conversare? Negli anni dell'adolescenza si era tanto ingenui da dichiarare la propria opinione, subito e apertamente. La regia era così così, mentre l'orchestra era mediocre. Per carità, interveniva questo o quello: la regia era splendida, l'orchestra faceva pena. "Com'era il concerto del tale pianista?", domandava il giorno dopo un tale, lasciando intendere che la domanda era reale, non retorica, e che lui al concerto non era stato presente. Incautamente, si rispondeva: "Molto bello...", poi, all'aggrottar di ciglia dell'interrogante, si correggeva timidamente il giudizio: "Interessante, ad ogni modo...". Sorriso ironico: "Dev'essersi trattato di un miracolo!". Con gli anni, abbiamo imparato a spiare in simili domande le inflessioni nascoste e i sottintesi. Ora mi sono abituato a replicare con una controdomanda: "Quale risposta ti fa piacere che io ti dia?". Chi è tanto temerario da sfidare il rischio della conversazione deve avere la pazienza di compilare, per suo uso personale, una tabella dei gusti e delle idiosincrasie altrui, avendo la massima cura di non parlare mai di un pianista con altri pianisti, mai di un cantante con altri cantanti, e così via.
Ho avuto anch'io, in misura modesta (la misura che mi si adatta) la mia estate di ascolti e di viaggi musicali, ma non è mancata un'alta lezione critica che mi ha sprofondato in un vuoto d'identità semantica e ontologica. L'ultimo giorno della mia unica settimana di vacanza, durante il viaggio di ritorno in treno, mi è capitato di sfogliare due giornali scroccati come di consueto ai vicini di scompartimento, essendo io notoriamente tanto avaro da non comperare mai un quotidiano. Il vicino di sinistra aveva il Corriere della sera. C'era un servizio di Duilio Courir da Salisburgo. Radu Lupu? Brillante, al di là di ogni elogio. Peccato che l'orchestra fosse diretta da Zubin Mehta, sempre piú maldestro e greve, fuori tono. Murray Perahia? Volonteroso ma incerto, ben lungi dall'essere divenuto davvero un grande pianista, e chissà se mai lo diverrà. C'era al suo fianco, per fortuna, sir Georg Solti, vecchio intramontabile mago della bacchetta, e Solti ne sa sempre una piú del diavolo. Il vicino di destra aveva La Repubblica. Secondo scrocco, e lettura da impenitente écornifleur. Ed ecco l'immediata punizione: la pagina con il servizio su Salisburgo, firmato Marcello De Angelis. Radu Lupu mediocre, Mehta grandissimo, Perahia il vero grande pianista, Solti ripetitivo. Al di là dei trauma s'intravede un disegno prestabilito ancorché anonimo, dal momento che i suoi autori ne sono inconsapevoli, e forse questo è il modo con cui il sistema si mantiene in perfetto equilibrio di forze.
Bene. Se devo parlare delle mie rare escursioni musicali dell'estate, mi asterrò, almeno per questa volta, dai giudizi, ma che dico, dalle opinioni sugli esecutori. Dirò soltanto dei progetti, della qualità organizzativa, degli ambienti e del pubblico. Dal 15 agosto al 3 settembre sono stato ospite del Salerno Festival, proposto nel 1987 al Comune della città campana da due giovani, entusiasti animatori musicali, i fratelli Giulia e Vittorio Ambrosio. Gli Ambrosio sono due tipiche figure di provincia, nel senso migliore: dedicano tre quarti delle loro energie a far musica sul serio, non sono, come nelle metropoli, forze di potere in dialettica con altre forze, ma tenaci e pessimisti don Chisciotte che s'incuneano tra forze irrigidite e capaci soltanto di spiarsi a vicenda. Inutile dire (e anche questo fa parte del provincialismo regionale nostrano) che il Salerno Festival non è molto gradito ai centri di potere musicale insediati a Napoli, città nella quale neppure le locandine diffuse a mano dai collaboratori dell'iniziativa salernitana vengono affisse, con mille pretesti, ed è molto se per miracolo se ne trova qualcuna esposta in sedi meno infette da spirito camorristico. Il Festival 1991 si è aperto con due concerti di Uto Ughi e dell'Orchestra Filarmonica di Israele diretta da Zubin Mehta (15 e 16 agosto). Della capacità comunicativa di Ughi è superfluo parlare, ma sottolineiamo anche l'intensità con cui il violoncellista Michael Haran (l'Orchestra d'Israele ha in sé nuclei di formazioni cameristiche e veri solisti di alta statura) ha interpretato Schelomo di Ernest Bloch il 17 agosto. Quella sera, Mehta ha diretto anche la Prima Sinfonia di Mahler includendo, come secondo tempo, l'Andante detto "Blumine", ed è occasione assai rara di ascolto, soprattutto nel contesto organico della sinfonia. Il 18 e il 19 la rassegna mahleriana è proseguita con due gigantesche partiture, la Quinta e la Nona. I concerti hanno avuto luogo, come di consueto, all'aperto, nel magnifico atrio del Duomo, a pochi metri dalla tomba di Gregorio VII: un luogo di grande splendore architettonico nel cuore di una città fatiscente, abbastanza sporca, economicamente depressa. Ma il pubblico, forse non dei piú agguerriti all'ascolto né dei piú culturalmente preparati, ha reagito con ingenuo, delizioso entusiasmo. Il Festival ha offerto altre cose d'eccezione, che avrebbero meritato un afflusso di ascoltatori non soltanto salernitani o campani. In realtà, mancavano presenze milanesi o romane ma c'erano parecchi stranieri. Eccone la rassegna: un programma palestriniano con i Tallis Scholars diretti da Peter Phillips, un concerto liederistico di Elly Ameling col pianista Rudolf Jansen, il flautista Roberto Fabbriciani con i solisti del Salerno Festival, un'esecuzione in forma di concerto della Damnation de Faust di Berlioz diretta da Marek Janowski con l'Orchestra di Radio France, la rappresentazione in forma scenica di The Rakes Progress di Stravinsky diretta da Ivan Filev con l'Orchestra del Teatro Lirico di Bulgaria.
Dal Sud insolitamente gotico di Salerno all'architettura umbra immersa nella campagna piú verde che mai e chiusa da colline che sembrano sirene pronte a sedurre il visitatore: "fermati qui, non te ne andare!". Sto introducendo l'iniziativa nota con la lunghissima denominazione di "Festival delle Nazioni di Musica da Camera di Città di Castello ". Qui spicca una diversa personalità di animatore: Gabriele Gandini, uno strano musicista che non soltanto suona un numero incredibile di strumenti ma possiede una cultura musicologica e filologica acquisita con passione artigianale. Gandini è un uomo perennemente arrabbiato: con i politici ottusi e pigri, con i musicisti coltivanti ciascuno il proprio feudo di piccoli privilegi, con il pubblico amante della routine. Per giunta, aiuta i giovani, forse perché lui stesso vive quasi con l'irruenza dell'adolescente di fronte agli adulti assuefatti alla dilazione e alla perenne mediazione. Questo Festival 1991, il XXIV della serie, è stato condotto secondo il consueto progetto di grande complessità e multivalenza che a Gandini piace: una rassegna tutta mozartiana, articolata per temi monografici, e un parallelo convegno medico-epistemologico-musicologico accentrato sulla creatività infantile con Mozart fanciullo come esempio supremo.
Ho partecipato direttamente al convegno, ma con l'impressione di essere ultimo fra gli ultimi, data la presenza di Edgar Morin, un uomo per il quale la qualifica di maitre à penser non suona, una volta tanto, ironica. Serate monografiche, dunque, per quanto riguarda i concerti. Memorabile quella dedicata a tutte le musiche massoniche di Mozart, con l'Orchestra da camera di Praga diretta da Josef Hercl. Violando la consegna - tacere della qualità esecutiva - non posso tralasciare qualche segnalazione, poiché c'è stato chi ci ha commossi davvero, noi del pubblico (un pubblico internazionale, attento e criticamente affinato): l'organista Jiri Kotouc, il tenore Miroslav Kopp, il basso Ludek Vele. La serata successiva (3 settembre) ha offerto, accanto alla fulgida Messa solenne KV 337, una curiosità: il Requiem, davvero brutto e sgraziato ma commovente per l'intento cui fu legato, scritto dal compositore boemo Frantisek Antonín Rössler detto anche Francesco Antonio Rosetti o Rossetti o Rosety (ca.1750-1792) ed eseguito il 14 dicembre 1791 nella chiesa di St. Nikolaus a Praga per la commemorazione funebre di Mozart.
Avevo seduto accanto a me Giovanni Carli Ballola, che continuava a deprecare la bruttezza di quella partitura, e con ragione. Che il giudizio di lui, sommo conoscitore di Mozart come dimostra il suo recente, magnifico e sfortunato libro, sia sempre preciso e penetrante, è cosa nota. Tuttavia, credo che Gandini bene abbia fatto a mettere in programma il Requiem di Rössler: è stata, credo, un'occasione unica in vita, e del resto si tratta di una fresca acquisizione della musicologia boema. Si pensi che i repertori e dizionari (il Deumm per esempio), rubricano il Requiem come "perduto".

Quirino Principe (Musica Viva, Anno XV n.10, ottobre 1991

domenica, giugno 25, 2006

Mozart si spazientisce!

Nei viaggi - tre, in Italia, decisivi, con il padre - l'Europa s'era aperta a Mozart con il suono dell'organo di Rovereto, dove la città tutta s'era data convegno per ascoltare quel "raro e portentoso" tredicenne, per dirla come pochi giorni dopo l'avrebbero celebrato a Verona i sonetti e i ritratti in onor suo. Poi, via per Mantova, nella meraviglia architettonica del piccolo teatro del Bibiena, via alla scoperta di città e paesi, pronto a tutto copiare ed a trascrivere per studiare: i vocalizzi zampillanti della Bastardella, mandati per lettera a Nannerl, il Miserere di Gregorio Allegri, udito a Roma una volta sola alla Cappella Sistina, e messo subito esattamente sul pentagramma a memoria nel suo fitto contrappunto di sette voci. Questa voglia dì capire la musica degli altri lo accompagnerà per tutta la vita. Quando a Lipsia, già famoso, gli cantarono in onor suo un mottetto di Bach, esclamò: "ecco finalmente qualcosa dove c'è da imparare!" e volle tutte le singole parti scritte e le posò attorno a sé, e le guardava e pensava...
"Viva il maestrino!", avevano gridato a Milano dopo il Mitridate. Era la felicità del trionfo. Per Lucio Silla a Milano, invece, c'era stata approvazione, non era mancato il successo in venti repliche; ma anche qualche dubbio, qualche disagio; troppe ombre patetiche, troppe novità dentro i personaggi, per il Teatro Ducale, poco avvezzo ai brividi inaspettati. Era la sfida, la voglia della rivincita completa a stuzzicarlo.
Troppi echi, troppi fremiti del passato verso il futuro, per tener tranquillo l'adolescente Mozart ritornato a Salzburg. Lo spazio della città, non solo quello della tastiera, l'aveva già tutto esplorato; vedeva ormai il padre e il vescovo nelle loro dimensioni reali. Era molto guardato.
Non era alto, ed era mingherlino, biondo pallido con gli occhi d'un azzurro un po' stinto che potevano prendere a volte il colore delle cose vicine, come accade a chi ha gli occhi chiari; ma anche l'aspetto fisico lo staccava dagli altri, la mobilità continua gli dava una sua attrattiva; e quella stessa sua risatina acuta, rapida, che sorprendeva d'improvviso, era il segno d'una sua imprevedibile, nervosa ironia sulle cose. Faceva scherzi, poi, era divertente e spiritoso, e aveva il fascino del predestinato che aveva viaggiato incantando e che avrebbe viaggiato ed incantato ancora.
Era al momento dei primi bigliettini furtivi, delle occhiate più lunghe, delle immagini femminili che prendono senza perché una luce nuova. Una bella fornaia gli apparve bellissima, si dice, o lei trovò troppo attraente lui. Immaginare è facile, ma sapere è impossibile. "Ogni donna mi fa sospirar", avrebbe cantato Cherubino nelle Nozze di Figaro. Ci viene da sovrapporlo, un Cherubino nelle stradette protette dalla roccia a Salzburg, in un mondo senza la leggerezza di battute dei palazzo del Conte e del libretto di Da Ponte. La famiglia Mozart è tutta riunita, non si scrivono l'un l'altro; i ricordi in futuro di questo periodo sono fievoli e rari; nessun altro si interessa ancora di Mozart tanto da tenersi qualche appunto per tramandarlo a noi.
Se ne interessa, ma a modo suo, l'arcivescovo; per affermare la sua autorità, contrapponendo principescamente e vescovilmente il futile desiderio d'evasione del musicista a lui soggetto ai sani sostanziosi doveri di servitore della nobile cappella. E così gli concede pochissimi permessi, e Mozart resta a Salzburg a onorare l'impiego; e scrive Messe, brevi perché tutto deve stare nei tre quarti d'ora, compone anche altra musica sacra, tanto più che Leopold dirige la cappella della cattedrale, e molta musica strumentale, come i famosi concerti per violino, tra cui quello ammaliante in La maggiore che porta già il numero d'opera K 219. Perché altra è la necessità di trovare occasioni per un armonioso e ricco sviluppo della propria cultura e della propria personalità, altra è la capacità d'un artista di inventare in qualunque condizione, anche la più deprimente. Sarà ad esempio proprio a Salzburg, nel 1779, che licenzierà l'inarrivabile Sinfonia concertante per violino e viola in Mi bemolle K 320, fi cui Adagio è l'elegia più composta e struggente che sia dato d'ascoltare, e, l'anno dopo, i Vesperae solemnes de confessore K 339, in cui il "Laudate Dominum" dall'ampia, innocente, calda frase distesa del soprano, cui fa presto eco il coro, per quello che possiamo ipotizzare del rapporto fra le invenzioni umane e Dio, dovrebbe essere tra le poche sicure credenziali per vantare il diritto naturale al Paradiso.
Un permesso, comunque, fu accordato, nel 1775, per interessamento non trascurabile del Grande Elettore di Baviera Massimiliano III, quando a Mozart fu chiesto di comporre a Monaco La finta giardiniera, che era un'opera buffa e quasi una favola giocosa, su libretto dei grande Ranieri de' Calzabigi. Mozart la scrisse, la rappresentò: piacque a tutti, a teatro strabocchevole: "Se volessi descrivere il baccano alla mamma, non ce la farei", confessò Mozart a Nannerl. Queste vittoriose imprese venivano considerate fino a pochi anni fa, quando dei grandi autori si eseguivano soltanto poche opere (e se si eseguivano le altre si cercava di farle assomigliare a quelle già note), gradevoli momenti senza troppo peso d'un genio capace di rispondere alle attese dei suoi tempi, e si sprecavano aggettivi come "grazioso" e "delizioso ". Ma chi potrà sottrarsi, in una esecuzione intelligente, allo stupore di quel gioco perfetto, di quei sette personaggi che si disconoscono e riconoscono, e si trovano e si disperdono e alla fine degli atti si raggruppano vorticosamente dialogando tutti insieme?
Tornare a Salzburg era sempre più difficile, ogni volta. "Vivo in un Paese dove la Musica fa pochissima Fortuna", "per il Teatro stiamo male", nelle Messe si devono mettere "tutti stromenti - Trombe di guerra, Tympani", scriveva Mozart nel '76 a Padre Martini, in lingua italiana, ma per mano del padre, il che dà subito una patina solenne e ci lascia questa volta senza gli spiragli attraverso cui cerchiamo nelle lettere solite di guardare oltre le parole e le cose. Come avranno eseguito, come avranno capito Il re pastore, opera su libretto del Metastasio, in lingua italiana, data a Salzburg, ancora nel'75, con quell'intreccio a metà tra favola pastorale e omaggio illuministico alla saggezza dei regnanti, in cui così sottilmente si esprime il rovello dentro a tutti i personaggi? Come avranno fatto sentire, nell'ampia, classica, insistente aria "L'amerò, sarò costante" costruita col violino solista concertante, la malinconia saggia con cui il re medita sul conflitto tra amore e ragione di stato, vivendola quasi con distacco, in una pensosa tenerezza? E Mozart stesso sarà riuscito ad imprimere agli strumentisti nelle sue sinfonie, a cominciare da quella affettuosa e suadente in La maggiore K 201, la convinzione per non fermarsi solo al primo aspetto, quello d'una incantevole conversazione? Ancora adesso a volte a Salzburg sembra che una confidenza eccessiva, da indigeni a indigeno, chiuda Mozart nelle quiete soglie dell'intrattenimento, senza chiedere oltre; come se non fosse ormai chiaro che Mozart è un compagno simpatico e leggero, che riserva le sue risposte fonde solo a chi a fondo vuole interrogarlo.

da "Mozart una vita" di Lorenzo Arruga (supplemento a Musica Viva n.12/1990)

venerdì, giugno 23, 2006

La viola di Kim Kashkashian

Fascinosa ma discreta, la violista Kim Kashkashian ha il carattere dello strumento che ha scelto.
Si dice che ogni musicista rientri in un cliché: ciascuno ha le caratteristiche fisiche e psicologiche che corrispondono al suo strumento. Kim Kashkashian, giovane virtuosa della viola, non fa eccezione. Somiglia allo strumento che ha scelto: fascinosa ma estremamente discreta, nient'affatto primadonna, ha sempre l'aria di scusarsi ("non ho mai pensato di diventare solista"). Americana di origine armena, diplomata al Peabody Conservatory di Baltimora, si è recentemente trasferita in Europa, a Monaco di Baviera. Ha al suo attivo dischi con Nikolaus Harnoncourt, con Gidon Kremer (col quale ha inciso anche un'inaspettata frivolezza, valzer di Strauss senior e di Lanner per quattro strumenti ad arco) e due dischi di brani contemporanei per viola sola, o per viola e pianoforte, incisi per la ECM.

Che cosa ti ha fatto innamorare del tuo strumento?
Forse il fatto che, quando ho cominciato, i violisti erano ancora più rari di quanto lo siano adesso. Grazie al cielo ora le cose stanno cambiando, però ci sentiamo ancora un po' come dei missionari. Ci vorrà del tempo perché la viola venga considerata un vero strumento solista.
La viola è stata la tua prima scelta, quando hai cominciato a studiare?
Dai nove ai dodici anni ho studiato il violino, poi sono passata alla viola. Ho cominciato tardi, comunque: nove anni sono tanti, per uno strumento ad arco. E' uno handicap che sconto ancora, ogni giorno. Devo fare molta attenzione ai muscoli e alla coordinazione. Però sono anche felice che le cose siano andate così: ho avuto la possibilità di avere un'infanzia, diciamo così, normale, il che non succede a chi inizia lo studio di uno strumento ad arco all'età giusta. Ho potuto dedicarmi anche a molte attività ex tramusicali.
E te ne occupi ancora?
Si, amo molto le arti visive, mi piace guardare. Seguo l'arte contemporanea e il mio interesse per il cinema sta crescendo. Ho anche praticato per qualche anno lo jujitsu, ma quando sono diventata brava ho dovuto smettere: i movimenti erano troppo rapidi e pericolosi.
Hai mai suonato in un'orchestra?
Soltanto per brevi periodi, mentre ancora studiavo, nella Baltimore Symphonic Orchestra. Non ho mai pensato che quello potesse essere il mio mestiere. E' una questione di carattere: mi sentivo più utile nella musica da camera.
Speravi fin dall'inizio di diventare solista?
Assolutamente no! Non ci ho mai neppure pensato. E' stato... non un incidente ma, diciamo, uno sviluppo nient'affatto premeditato. Il mio primo concerto da solista è stato voluto da me, ma per ragioni in un certo senso didattiche. Ogni volta che suonavo in un gruppo di musica da camera mi accorgevo di non essere in grado di interpretare bene una melodia, di darle un senso. La avvertivo come una grossa debolezza, ed è per correggerla che ho deciso di suonare qualche volta come solista. Avevo vent'anni. E' stato così che la mia carriera ha preso una direzione inaspettata.
Chi sono state le persone più importanti, nella tua formazione?
Prima di tutto Sandor Vegh. Ho partecipato spesso al Marlboro Music Festival e per due estati è venuto anche Vegh. Suonare i quartetti di Bartok con lui è stata un'esperienza che mi ha insegnato moltissimo. Un'altra persona che ho incontrato al festival e che ha significato molto per me è stato Felix Galimir, che aveva una grande passione per la musica d'oggi e metteva una straordinaria energia morale nel comunicare ai giovani i valori in cui credeva. Naturalmente potrei elencare moltissimi altri nomi, ma preferisco fermarmi qui per non sminuire l'importanza di questi due, che hanno veramente contato moltissimo.
Come sono stati i tuoi incontri con Harnoncourt e con Kremer?
Bellissimi. Con Harnoncourt non soltanto si imparano molti dettagli preziosi nell'interpretazione del repertorio classico, ma si è anche ispirati e trascinati dal suo personale approccio alla musica, che è straordinariamente intenso e coerente. Senza compromessi.
Si dice che sia molto esigente con chi lavora con lui.
Non è un problema: anch'io sono molto esigente con me stessa. Sempre. Qualsiasi cosa faccia. Sono fatta così.
Come è nato il tuo entusiasmo per la musica contemporanea?
Penso che le radici siano nello studio di Bartok e Hindemith; ho cominciato a eseguirli verso i quindici anni, come è normale, perché la loro musica è una delle basi del repertorio violistico. Oggi ho l'abitudine di includere sempre un lavoro contemporaneo nei miei concerti. Ma, al contrario di quanto si fa in Europa, io uso l'aggettivo "contemporaneo" in senso letterale: intendo dire un brano scritto nell'arco degli ultimi due anni.
Cambi spesso i programmi dei tuoi concerti?
Non troppo spesso. Mi piace ripetere ogni brano molte volte, perché ho l'impressione di aver sempre molto da imparare e perché l'approccio musicale varia in continuazione. Non ho ancora mai avuto la sensazione di aver suonato un pezzo una volta di troppo. C'è sempre qualcosa di sperimentale nei miei concerti: non sono mai troppo sicura di me.
Quali sono i tuoi programmi, adesso?
Il prossimo sarà un anno abbastanza normale. Includerà una tournée in Germania, Inghilterra e America con il Concerto di Bartok, e un programma con Robert Levin al pianoforte. Intanto continuerò a dedicarmi al progetto che, presumibilmente, mi impegnerà per i prossimi dieci anni: studiare il tedesco. Monaco è una bellissima città, ma finché non conoscerò la lingua mi ci sentirò un po' isolata. Sto anche lavorando alla mia trascrizione dell'anno: lavoro sempre a nuove trascrizioni, per allargare il repertorio della viola; stavolta si tratta di alcuni concerti di Vivaldi. Poi sto pensando a un programma di musica per viola e percussioni, ma questo è un progetto ancora agli inizi.

intervista di Nicoletta Gasperini (Musica Viva, Anno XII n.10, ottobre 1988)

mercoledì, giugno 21, 2006

50° Maggio Musicale Fiorentino

CONTRO LA PIGRIZIA CULTURALE
Emozioni e ricordi, testimonianze e motivi di riflessione alla cinquantesima edizione della rassegna fiorentina.

Fu al Maggio Musicale Fiorentino la mia prima trasferta da critico musicale. Eravamo nel 1969, c'era Il ratto dal serraglio, il palcoscenico e la cavea dell'orchestra al Teatro della Pergola erano tutti foderati d'argento. Non sapevo la trama, e si cantava e recitava in tedesco; mi ritrovai vicino ad un'amica milanese, la feci complice: se c'è abbastanza chiaro, io tengo d'occhio il libretto, tu dammi un colpettino sul gomito ogni volta che c'è qualche cosa in scena che deve assolutamente essere guardata. Lo spettacolo era pieno di luce, ma dopo pochi minuti avevo già accusato quattordici colpi normali e sette urtoni al gomito. Rinunciai a sbirciare nel libretto, capii tutto lo stesso, inneggiai alla fine a Strehler, a Damiani, anche un po' a Zubin Mehta. Dietro le quinte, qualcuno gridò a Strehler che era un genio. "Lè lü, il genio", rispose vagamente indicando il piano superiore, e capii che alludeva a Mozart. Ero un po' come Snoopy quando si sente il Barone Rosso: "Ecco il famoso critico che corre a telefonare al suo glorioso quotidiano la cronaca d'una grande serata". Dovevo scegliere un luogo adatto, andai al Bar delle Giubbe Rosse. Mi sentii nella storia di Firenze. Chiamai Il Giorno, chiesi del mio caposervizio, Franco Belli. "Dovrei scrivere domani, ma qui ci son state trentacinque chiamate. E' uno spettacolo storico". "Se è storico", osservò Belli placido, "sarà buono anche domani". Ogni tanto nei teatri, fino ai nostri giorni, torno a incontrare Il ratto, a recensirlo; e penso sempre a quella Primavera.
Ognuno ha i suoi Maggi, i ricordi di qualcosa di straordinario; ed il profumo della sera fiorentina e il tremolio alto dei grilli. La memoria naturalmente bara: i grilli sono coperti dal baccano dei turisti vocianti e degli indigeni motorizzati; l'odore dei tubi di scappamento non è quello che faceva cantare le stornellate. Ma qualcosa di indefinito e necessario si mescola, nelle serate riuscite, alla musica, al teatro. Non è un festival che si svolge a Firenze, è un festival che cerca di catturare qualcosa del vernacolo e dell'internazionale confusione che è Firenze. Come Puccini, l'artigiano toscano, che parlava in un'opera di Signa e di Fucecchio, e respirava in anticipo la musica dell'Europa più avanzata, nascosta nel suo gioco degli effetti teatrali e delle spontanee melodie, Firenze è fascinosa, immediata, quasi irritante ed imprevedibile. Il Maggio Musicale, nella sua storia, la rispecchia proprio perché è a sua volta disordinato, geniale, cittadinesco, universale, balordo, luminoso, profetico. Cinquantaquattro anni e cinquanta edizioni non ci danno tracce d'una vicenda precisa, d'una fisionomia riconoscibile; non ci danno soprattutto ricette per gli anni futuri. Che cos'è il Maggio Musicale Fiorentino? Perché è importante? Qual è la ragione per cui, senza avere motivazioni specifiche, viene considerato un bene irrinunciabile, una tradizione da portare avanti con gloria?

Cerco nella memoria e nella storia dei Maggi se mi riesca di trovare una cifra, una tinta, una tensione. Fu tradizionalista e avvenirista, affollato e desertico, fieristico ed autarchico, consacratore di valori e propizio ai giovani talenti. Fece litigare con furia e con brio, in una città dove la battuta che altrove chiuderebbe una disputa è considerata un inizio di discussione. Ebbe il coraggio di presentare agli inglesi ed agli americani alla caccia di scontate sensazioni italiche invenzioni e problemi arditi; a volte travolgendo gli uditori, a volte neanche un po'; qualche altra volta fu assai più corrivo ed anche in questi casi piacque o no. Cerco all'interno temi ricorrenti, idee guida, stili. Non è facile diagnosticarli.
Lo aveva detto, in occasione della quarantatreesima edizione, Massimo Bogianckino, non ancora sindaco di Firenze, ma sovrintendente del Teatro Comunale: "Il Maggio, insomma, è una stagione intensa ed inquieta, dove raro è lo spazio per le abitudini mentali, per la celebrazione ed il rito"; e si augurava: "spero che ogni avvenimento di esso non ci lasci uguali: che la modernità possa sorprenderci e catturarci, o perfino irritarci, e che sia possibile vedere in una luce nuove cose che crediamo di conoscere compiutamente perché sono mutevoli, com'è appunto di ogni cosa viva".

Eppure, mano a mano che i ricordi e i documenti si accumulano, un'impressione sul passato, un'indicazione sul futuro, viene come un sottofondo ai pensieri, o come un'emozione sottopelle. In qualche modo si potrebbe definire il senso dell'orgoglio del far nascere, per dirla in modo aguzzamente intellettuale; ed è anche però come una sorta di dolcezza primaverile, che invita allo schiudersi naturale delle cose. Firenze sa d'avere creato, non per nulla chi viaggia e cerca l'Italia del mito pensa come città a Firenze (anche un sondaggio dell'Espresso, per quel che può valere, nel marzo scorso confermava il dato): l'Italia del Rinascimento, di Dante, del programma stipulato ed estenuante di meraviglie di secoli da visitare. Chi scende alla stazione e va verso il Teatro Comunale (ahi, questo, non meraviglia fra le altre; se mai meraviglia moderna la stazione, di Michelucci) incontra, tra muri antichi, via Rucellai, via degi Orti Oricellari, e gli vien quasi da fiutar nell'aria se senta ancora un'eco di quel clima che respiravano studiosi e letterati e artisti, nel Rinascimento, proprio negli Orti Oricellari, auspice Bernardo Rucellai nei suoi giardini, rivisitaron la parola antica, ritrovando la classicità greca e consegnando alla Camerata de' Bardi l'ideale da cui sarebbe sorto autonomo il melodramma. Proprio in via Rucellai abitava Riccardo Muti, negli anni della sua direzione fiorentina; e pareva, la storia, di passato e presente, tutta a un passo. Non per nulla, quando diresse Orfeo ed Euridice di Gluck, che era il popolare manifesto dell'opera riformata del Settecento, Ronconi e Pizzi non guardarono al contenuto drammaturgico legato all'epoca fra Arcadia e Illuminismo, ma traguardaron oltre, cercando l'immagine preziosa e antica della musica invocata, della cetra che si ricompone, in un teatro quasi in attesa di compiersi: e fu un successo trionfale, la gente si sentì toccata personalmente. Il tema della nascita, che già diede la vita ad Euridice due volte nella Camerata de' Bardi, tema della vita strappata alla morte e ritrovata nuova (e per la Camerata de' Bardi nel libretto di Rinuccini musicato prima da Peri e da Caccini) poi non più perduta, percorre molto spesso le stagioni del Maggio Musicale, con il simbolo di Orfeo. La fantasia conserva e ingigantisce le stanze multiple, i portali, le scalette,
le figure carezzate dalla luce delle scene di Pasquale Grossi per Euridice di Caccini del 1980, inventare l'antico; ma conserva anche i più cauti tentativi per riproporlo lontano, le colonne e i trofei d'un Orfeo ed Euridice di Haydn, settecentesco, nel 1951, per la regia di Guido Salvini; la figuratività d'avanguardia storica con cui fu, nel 1966, riproposta da Gianfranco de Bosio Orfeide di Gian Francesco Malipiero, o le presenze scarne e solitarie in coni di luce che Aurelio Miloss coreografo inventò per Orpheus di Stravinsky nel 1974, memore da lontano d'un Orfeo alla Pergola del giovane Béjart, presentato nel 1960, l'anno stesso in cui Zeffirelli ai Giardini di Boboli apparecchiò la festa rinascimentale per Euridice di Peri. E suoni d'un Orfeo di Monteverdi ripensato, rivissuto, rigiocato in un perenne suo rinascere, dal gruppo di compositori guidati da Luciano Berio, tre anni fa, con la Firenze di epoche sovrapposte e incantenate e presenti dello spettacolo di Pizzi, e le figure che prendevano vita in mezzo alla gente, nel cortile con statua di Dante ricostruita e messa lì a sorpresa... Il nascere, il rinascere. Il teatro che s'aprì ferito ed orgoglioso, ancora intriso dall'alluvione nel novembre 1966, atto di forza morale spregiudicata voluto da Remigio Paone, ha sempre avuto la sua luminosa energia, in congiura con il pubblico compatto, nei momenti difficili. Anche quando chi dimentica il soffio di vittoria che animò, nel Maggio con il commissario (ma commissario era il provvido e coinvolto Polifroni), le recite di Agnese di Hohenstaufen, che resero Spontini popolare, direttore Riccardo Muti, protagonista Leyla Gencer, regista Franco Enriquez, e la gabbia area spericolata e misteriosa dell'impianto scenico di Corrado Cagli?

Nascere, per Firenze, come vivere, significa prendere subito parte all'avventura delle immagini. Città culla dell'arte, dicono i dépliants, dice la storia, dicono chiese e gallerie e conventi. E il Maggio nacque con le scene affidate a Sironi, a Casorati, a De Chirico, Savinio fu poi fra coloro ch'ebbero la ventura di fare rinascere il Rossini serio, con Armida, e sotto l'occhio vigile ed il suggerimento di Francesco Siciliani con il Macbeth di GrÜndgens s'aprì infine la nuova legge della figuratività, tutta schiusa sulla musica, funzionale all'azione; ed anche quando erano Cagli in Perséphone, Maccari nel Naso o Manzù in Ifigenia in Tauride, ormai la grande classe figurativa aveva comunque il sapore inteso e l'indifesa vertigine del teatro. Anche di questa prospettiva la cultura e la memoria prendono coscienza, anzi si sperdono quasi nell'intrico delle innumerevoli proposte: non esistono festival dove la vita dell'immagine scenica abbia avuto così ricca e mutevole vicenda.
Gli scenografi di professione, tutti i più grandi, hanno gareggiato in fantasia con chi, dei grandi pittori e scultori, si cimentava straordinariamente; hanno fissato insieme ai registi le frontiere del linguaggio.

Poi c'è il pubblico. Estremista, non tanto nel giudizio; nell'adesione o no al programma, o alla gente che lo propone.
Ci sono anni in cui senti che la musica del Maggio è il respiro della gente, e neanche i portieri d'albergo più accorti riescono a catturare più un biglietto d'emergenza; ci sono gli anni in cui anche avvenimenti ragguardevoli non trovano piena adesione, e conti molti posti vuoti. Accanto al senso del creare e del creare bello, la gente di Firenze, esempio trascinante per i forestieri, vuole il creare insieme, vuole cioè sentirsi umanamente interpretata. Per quali vie, forse anche questo è da inventare. Ma si sa che nemmeno ritornassero come un tempo o come appena fuori dalla città, non basterebbero i grilli ed i profumi e gli stornelli, per fare un altro glorioso mezzo secolo di storia.

Lorenzo Arruga (Musica Viva, Anno XI n.5, maggio 1987)

lunedì, giugno 19, 2006

Quartetto Arditti: in repertorio la musica che ci sarà

"Peccato, è un vero peccato", dice Irvine Arditti quando capisce che, per ragioni squisitamente linguistiche, il personaggio intervistato del Quartetto Arditti non sarà lui, ma il violoncellista Rohan De Saram che parla un italiano fluente. In realtà lo spiritato Irvine, che mi perdona dell'affronto a fatica soltanto quando scopre che fumiamo lo stesso tipo di sigari, non può sapere che, in onore dell'originale configurazione moderna del complesso da lui fondato nel 1974, e di cui è rimasto con il violista Levine Andrade il simbolo (rispetto alla formazione originale, nata tra compagni di corso alla Royal Academy of Music di Londra, ci sono stati due avvicendamenti nel 1977 s'è aggiunto De Saram e, tre anni fa, il secondo violino David Albermann), l'intervista si configura come una sorta di dialogo multimediale, a distanza.
Con lui aveva già parlato, a Hong Kong qualche mese fa, la nostra collaboratrice Luciana Galliano che aveva incontrato il Quartetto Arditti al locale Festival di Musica Contemporanea. Con De Saram abbiamo invece completato il quadro a Torino, in settembre, tra la prova e l'esecuzione della seconda tranche dell'integrale dei Quartetti di Carter (nonostante i problemi tecnici che stavano mettendo a repentaglio il Quartetto n.3, non abbiamo avuto problemi a chiacchierare: siamo grati alla disponibilità e alla simpatia dei quattro che sanno usare humor e professionismo per sdrammatizzare anche questioni tutt'altro che rassicuranti).
Quindi il nostro profilo risulta completo e duplice. Ma tenendo come indicazione di comportamento giornalistico una dichiarazione di Irvine - "la mia opinione è quella di quattro, e in un quartetto, cioè in questo quartetto, sono davvero voci uguali. Qualche volta hanno bisogno di essere messe assieme (in quel caso tocca a me farlo), e i gusti musicali singoli possono non coincidere, ma per quel che riguarda l'attività quartettistica agiamo come una sola persona. E' la nostra forza" - abbiamo scelto di non personalizzare le risposte dell'uno e dell'altro. In effetti, per altri versi, Irvine che malgrado il cognome non ha parentele con la madre di Elias Canetti - ha tutte le ragioni per offendersi un pochino. Il Quartetto Arditti "è" lui. E non soltanto in quanto porta il suo cognome. La passionaccia contagiosa per la musica contemporanea, la dedizione quasi maniacale allo studio e alla scoperta (o la commissione) di nuovi lavori per quartetto d'archi è quasi tutta farina del suo sacco. L'avventura di un quartetto una formazione "antica", quindi abbastanza rigida nelle possibilità esecutive, e non aggrappata a un'istituzione pubblica come l'Ensemble InterContemporain o emanazioni strumentali del genere - impostato per la missionaria esclusività alle composizioni d'oggi, e quindi mai pago del piccolo repertorio, insistente procacciatore di partiture inedite o appositamente scritte, poteva sembrare quindici anni fa senza futuro. Una semplice bizzarria. La trovata d'un tifoso a oltranza della musica moderna, con tendenze masochiste. Forse solo un modo per farsi largo nell'ambito del camerismo interpretativo evitando i confronti con i complessi «classici» oramai storici.
In molti devono averlo pensato. E per molte stagioni l'Arditti era il quartetto-kamikaze delle rassegne elitarie, dei più ristretti e poco frequentati festival di musica contemporanea. Gradatamente la bravura assoluta, la disciplina strumentale abbagliante e la carica interpretativa persuasiva (anche quando si è davanti a una musica mai ascoltata, certe qualità si avvertono) hanno riscattato qualsiasi prevenzione. Una prima assoluta o una programma tutto-Dopoguerra degli Arditti è diventato un classico irrinunciabile anche per le società concertistiche d'impostazione non spregiudicata. La scommessa di Irvine è una nostra grande realtà musicale: insostituibile per la vita musicale, come su altri fronti la Filarmonica di Vienna, i Solisti Veneti o la London Sinfonietta. Oggi non possiamo che ringraziare il Quartetto Arditti. Il contributo alla conoscenza e all'arricchimento del repertorio nuovo dato in quindici anni di attività non ha confronti. La storia della musica contemporanea deve a questo straordinario complesso londinese tutta una sezione di se stessa. Bussotti, Boulez, Carter, Dillon, Ferneyhough, Harvey, Henze, Kagel, Kelemann, Ligeti, Lutoslawski, Nono (Fragmente Stille l'hanno suonato alla Scala qualche settimana fa), Gubaidulina, Penderecki, Scelsi, Rihm, Xenakis, oltre a tutti i musicisti che stanno scrivendo per loro ... : la storia del quartetto d'archi è debitrice agli Arditti d'un'imprevedibile stagione creativa e ora, con un'attività discografica meno casuale, un buon numero di questi pezzi verranno anche registrati - proprio in tempi teoricamente sfavorevoli alla sopravvivenza di organici e modi esecutivi legati alla stagione del classicismo.
Vista la specializzazione dei quattro cavalieri inglesi, l'intervista al Quartetto Arditti si fa soprattutto sguardo penetrante alla situazione della musica contemporanea degli Anni Ottanta. Al repertorio e ai problemi esecutivi legati alle nuove musiche. Per cominciare vediamo come funziona l'attività d'un complesso che in pratica cambia repertorio concerto per concerto. Ad esempio i quartetti di Carter insieme non li eseguivano da un paio d'anni (da quando li hanno registrati per la Etcetera): il bellissimo Quartetto n.2 da sei-sette mesi. E quanto studio occorre per suonarlo in pubblico?

Quello che ha sentito di prova questa mattina. Mi sembra venga abbastanza bene, che ne dice?
Col nostro repertorio non c'è proprio il tempo di provare di più; ma a differenza
da un quartetto classico che magari per certi pezzi non ha nemmeno più bisogno di provare, noi dobbiamo farlo prima di ogni concerto.
Proviamo a quantificare questo repertorio ?
Più di trecentocinquanta partiture...
Di cui moderne?
Il novantacinque per cento sono contemporanee. In buona parte le abbiamo chieste agli autori, altre sono entrate in repertorio per curiosità o per rispettare impegni festivalieri (come quando eseguiamo pezzi scelti da giurie di concorsi). Il resto è dedicato al Novecento storico: Janacek, Ravel, Zemlinsky, Schoenberg, quattro di Bartok.
Solo quattro?
Il secondo e il quinto non li abbiamo mai eseguiti in pubblico, non sono ancora pronti...
Non avete trovato il tempo per studiarli...
... forse. Al di fuori di questi, soltanto la Grande Fuga di Beethoven.
Soltanto... ?
Beh, sì, in effetti il nostro repertorio è più vasto di quanto potrebbe sembrare: ci sono gruppi che suonano soltanto alcuni lavori del Settecento...
Anche voi avete qualche Haydn, se non sbaglio.
Una sola volta, ma non siamo molto soddisfatti quando suoniamo il repertorio classico
Esiste una ragione per questa singolare considerazione?
Alla base c'è un interesse personale per la musica contemporanea che attraverso Irvine - che ha una formazione da compositore, che a quindici anni era già a Darmstadt nelle stagioni d'oro - ha contagiato tutti. Certo, da quando il Quartetto Arditti ha iniziato a suonare (l'occasione fu nel 1974, quando Penderecki venne a Londra per ritirare un Premio e lo si voleva festeggiare con un programma di musiche sue: il gruppo nacque così), l'interesse per la musica contemporanea è stato esclusivo.
L'anno scorso ci hanno invitato al Festival di Salisburgo; ci chiedevano un programma suddiviso tra Mozart e i moderni. Abbiamo declinato l'invito. Ci sono molti Quartetti che nel classico riescono meglio di noi: perché dovremmo rinunciare alla nostra immagine più autentica? Poi non va dimenticato che il nostro modo di studiare la musica nuova è diverso da quello che occorre per Mozart... .
Vediamo da vicino questo problema. Come ci si avvicina a una partitura nuova?
Intanto c'è un lavoro preventivo, quello di decifrazione della musica, di immedesimazione nello stile dell'autore: e sono tutti diversi, spesso ogni partitura anche se dello stesso compositore rappresenta un problema diverso di lettura delle note. La prima fase è collettiva, con la partitura: e non è sempre facile «sentire» alla semplice lettura il pezzo, capire quali sono i punti di riferimento costruttivi e isolare gli episodi tecnicamente ostici. Per tentare una visione d'assieme, è necessario impadronirsi di ogni dettaglio prima ancora di mettere mano allo strumento.
Dopo di che inizia la fase del montaggio vero e proprio: separatamente o insieme?
A differenza dei classici che si possono lavorare singolarmente, con le nuove musiche bisogna entrare subito nella fase a quattro. Ci sono parti che devono essere risolte da soli, ma di solito la linea musicale non esce finché non suoniamo tutti e quattro.
Una percentuale enorme spetta alle composizioni scritte appositamente per voi. In questo caso, quale rapporto si instaura con l'autore?
C'è chi parla con noi prima ancora di iniziare il pezzo. Xenakis, ad esempio ha costruito il suo Quartetto n.2 con molti «soli» dopo che avevamo discusso a lungo su quello precedente che ci pareva troppo denso. Altre volte ha seguito delle indicazioni più tecniche...
Al di là di queste imbeccate tecniche, in molti casi anche lo studio della partitura avviene col compositore. Cosa succede in questa fase?
Ci sono musicisti che lasciano il campo libero agli esecutori, altri seguono da vicino ogni dettaglio nel momento della preparazione. Carter è uno di questi, ma la sua musica è talmente precisata e tecnicamente giusta che è sufficiente fare quello che è scritto per ottenere il risultato migliore. Come accade con Ligeti, che realizza lavori perfettamente fissati sulla carta, ma che sa anche intervenire nella fase preliminare con assoluta competenza strumentale, come un concertatore di fascinosa esperienza. Altri invece scrivono abbastanza astrattamente, e lasciano agli esecutori carta bianca.
E capita che la collaborazione porti l'autore a modifiche del suo lavoro?
Non spesso, ma succede. In questi giorni stiamo imbastendo un nuovo pezzo di Lachenmann: abbiamo già fatto alcune sedute insieme, ma nei prossimi giorni dovremo riprendere in mano una buona parte del lavoro perché Lachenmann è intervenuto in molte parti della stesura originale. Non sappiamo nemmeno come e dove: lo vedremo da domani.
Le cose filano sempre lisce con questi autori?
Generalmente si. A volte capita che il compositore non apprezzi le scelte interpretative e si senta tradito. Ogni compositore, per se stesso, è il più importante; cerchiamo di non dimenticarlo quando suoniamo.
Ma può accadere di approdare a un'idea opposta dalla sua?
Penetrare lo stile personale significa essere a tre quarti della buona interpretazione: ciò avviene attraverso lo studio ma anche nel rapporto musicale e personale. Nel nostro caso abbiamo un vantaggio in più, l'esperienza, che ci permette di evitare gli errori d'un quartetto normale che cerca un accostamento «classico» anche alle partiture moderne e quindi equivoca su questioni che riguardano la produzione del suono, l'uso dell'arco e del vibrato, la diversa concezione della tecnica strumentale.
Non affermiamo di essere un modello, ma siamo convinti - e il pubblico spesso ce lo conferma - di poter suonare certe musiche in modo completamente diverso da altri quartetti. E con una misura esecutiva di avvicinamento alle intenzioni dell'autore che fa parte della nostra fisionomia musicale.
Anche perché suonare certi pezzi si configura più simile all'analisi che all'esecuzione in senso tradizionale.
Come s'è detto prima, molte opere non possono nemmeno essere suonate se non c'è un grosso lavoro teorico alle spalle. E' necessario capire la musica prima di suonarla e, semmai, di interpretarla... E non dimentichiamo che suonare è molto diverso che ascoltare, nel senso che nel momento in cui siamo impegnati con lo strumento ci si lascia coinvolgere maggiormente dalla musicalità, dalle tecniche del suono.
Ascoltato e basta, un pezzo può piacere o no. Suonato è un'esperienza musicale e strumentale completa, che giustifica spesso scelte non convincenti per il pubblico.
E l'esecutore diventa co-autore a tutti gli effetti.
Certo, non c'è nulla di scontato, vanno creati i punti di riferimento volta per volta. Il lavoro non è mai ripetitivo: il fascino di operare su musica nuova consiste anche in questo. Ci capita molte volte di partecipare profondamente alla «prima volta» d'una partitura.
Ma quanto spesso si arriva alla «seconda volta»?
E' sempre la più difficile. Tra le nostre trecentocinquanta opere le «seconde volte» sono in effetti poche, anche se negli ultimi tempi ci siamo imposti di creare un piccolo repertorio tra i pezzi nuovi. Si tratta anche d'una questione di sopravvivenza: non è possibile continuare a suonare ogni sera tre-quattro pezzi nuovi come quando abbiamo iniziato.
Con che criterio create questo «repertorio»? Quali sono gli autori che preferite?
Non c'è un criterio preciso né vogliamo dire che un compositore ci interessa più di altri (qualche altro potrebbe pensare che la sua musica non la suoniamo volentieri, o col medesimo impegno... ). Lo stesso vale per il termine «qualità» che ha una valenza diversa a seconda di chi lo usa. Se siamo convinti che una certa musica sia spazzatura non la suoniamo; se un certo stile non ci convince ma un brano in quello stile ci pare interessante, lo mettiamo di certo in cantiere (anche per non creare altri ghetti nel ghetto della musica contemporanea).
In genere, se prepariamo una novità d'un autore italiano, vorremmo magari che quella stessa musica potesse essere ascoltata lungo tutto la tournée italiana oppure che servisse da base per scambi-travasi europei: suonare giovani autori scandinavi o tedeschi in nazioni differenti da quelle d'origine, far conoscere musiche conosciute soltanto localmente in altri paesi fa parte integrante dei nostro lavoro di ampliamento culturale.
Facciamo allora un'ipotesi: un programma ideale - teoricamente, per illustrare i linguaggi quartettistici più significativi del secolo - quale potrebbe essere?
Quando siamo stati per la prima volta negli Stati Uniti, visto che non c'era un pubblico abituato al nostro repertorio di novità, abbiamo dovuto fare una scelta del genere; cercando di abbinare lavori eloquenti tecnicamente con altri che potessero (sulla base delle nostre precedenti esperienze) interessare immediatamente gli ascoltatori. Si combinavano dunque programmi che avevano come base «storica» i due Quartetti (soprattutto il secondo) di Ligeti, Tetras di Xenakis, il Quartetto n.2 di Ferneyhough: naturalmente anche in questo caso una parte del concerto era dedicata ai giovani autori americani.
Tre autori molto diversi. Ma la loro «storicità» dipende anche da fattori tecnici?
Malgrado le apparenze hanno molti elementi formali e compositivi in comune: ad esempio la concezione del quartetto d'archi non come gioco indipendente di quattro parti (come avviene dall'ultimo Mozart in poi) ma come piccola orchestra. Ovvero, per questi autori il quartetto d'archi non è più configurabile come autentica «musica da camera» secondo la concezione classica... E forse in questo atteggiamento compositivo, che del resto si riconosce anche in altri autori, c'è una sorta di aggancio metaforico con la vita sociale odierna: viviamo in una società globale, massificata, che non crea spazi all'individuo.
C'è da dire che l'osservazione non vale soltanto per il repertorio cameristico.
Certamente. Basta analizzare molti concerti con solista: quasi sempre si tratta di composizioni che solo nominalmente lasciano uno strumento in primo piano...
Ma con che criterio scegliete gli autori cui chiedere nuovi lavori per quartetto?
Ci interessano tutti... quelli interessanti. Vogliamo suonare. Fare musica, non autori: suoniamo tutti i quartetti e tutti gli autori, senza esclusione, basta non sia musica qualsiasi.
Può però capitare che un compositore non sia stuzzicato dalla formazione quartettistica: Birtwistle, ad esempio, ha finora rifiutato sostenendo di non avere idee per noi. Altri hanno aderito, pur non riuscendo a dare nel quartetto la stessa impressione di genialità evidente in altri generi.
Il quartetto è un confronto molto impegnativo: ci vogliono molte idee, materia musicale interessante e varia che consenta di arricchire una formazione che ha una grande gamma dinamica ma poco colore.
Da almeno dieci anni aspettiamo il terzo Quartetto di Ligeti...
Dal vostro osservatorio privilegiato come giudicate il pubblico?
Per cominciare, le differenze tra pubblico «normale» e pubblico specializzato... Penso sia importante avere entrambe le esperienze. Il pubblico in genere non è mai interessato alla musica contemporanea, a meno che non la senta, ma la compilazione dei nostri programmi impone agli ascoltatori questa prova - se non è possibile qualcosa di più avanzato, anche Zemlinsky rappresenta spesso una provocazione salutare: in Giappone accostavamo Janacek, Berg, Xenakis e Ives - e spesso è proprio da questo pubblico che vengono le reazioni più autentiche.
Comunque non c'è maggior soddisfazione che avvertire di essere riusciti a interessare al repertorio contemporaneo il normale pubblico di una stagione concertistica d'impostazione classica.
Il pubblico specializzato invece è itinerante, non cambia. Si sposta da un festival all'altro, è sostanzialmente intollerante e di parte: per cui sa riconoscere gli stili per contestarli, soprattutto se appartengono a nuovi autori. In questo caso facciamo il possibile per realizzare programmi in cui i contrasti linguistici siano calcolati, ma non è sempre possibile.
E non ci sembra che si noti - nonostante qualche segnale di effimero entusiasmo, e i nostri sforzi - un significativo movimento spontaneo degli spettatori: la musica contemporanea tende a rimanere una faccenda per addetti.
E se doveste giudicare l'inclinazione della musica nuova sulla scorta delle reazioni del pubblico?
Il grande richiamo rimane la tonalità. Non solo per chi ascolta. Anche da parte dei compositori, quelli stessi che alcuni decenni fa erano in prima fila nel serialismo totale, come Stockhausen o Boulez... Noi lo notiamo più facilmente - gli strumenti ad arco sono per natura melodici e chi scrive per noi deve tenerne conto. E lo fa dopo le stagioni di effetti strumentali artificiosi - ma è un fenomeno più generale, al quale pochi autori resistono ancora: Ferneyhough è rimasto tra gli ultimi rigorosi, ma anche nella sua musica densissima si notano delle schiarite in questo senso. Stiamo aspettando con curiosità il completamento del suo Quartetto n.4, che sarà col soprano, come in Schoenberg.
D'altra parte tutta la musica, soprattutto quella di altre civiltà, molto più antiche di quelle occidentali, dimostra che i centri tonali sono una base da cui non si può prescindere, se non sul piano strettamente teorico: l'uguaglianza assoluta, la mancanza di gravitazione tra le note, in natura non esiste.
Però nel vostro repertorio sono ancora iprotagonisti dello strutturalismo a dominare. Il minimalismo, ad esempio, vi interessa meno.
Lo seguiamo meno, certo. Forse perché ci siamo fatti la reputazione di strumentisti che fanno musica «difficile»... A parte gli scherzi, non è possibile suonare tutto bene e per il minimalismo ci sono complessi, come il Kronos Quartett, che danno il meglio. In generale crediamo che questi due estremi sintattici siano destinati ad avvicinarsi sempre più. Com'è sempre avvenuto nella storia della musica, laddove il celebralismo s'è congiunto alle seduzioni folkloriche (pensiamo all'op.59 di Beethoven, per cominciare) o all'interesse per «altri» materiali: l'attuale concetto di musica globale ha spinto in superficie altri folklorismi, sovrapposizioni stilistiche, infiltrazioni orientali e via dicendo.
Questo continuo correre avanti, inseguendo le novità e gli autori giovani, significa che la musica di oggi non avrà mai un repertorio simile a quello dei secoli passati?
Perché no? Anche noi torniamo sempre su certe musiche, quando avvertiamo che possono sopravvivere oltre la «prima volta». Semmai la preoccupazione è un'altra nell'ambito di questo repertorio: non vediamo molti altri complessi disposti a impegnarsi in un lavoro simile al nostro. Già la disciplina di gruppo, quartettistica, con la mortificazione individuale che procura, non trova molti proseliti al di fuori della cultura musicale inglese e tedesca. E la fatica della musica nuova, ancor meno.
Anche perché evidentemente nel linguaggio contemporaneo c'è ancora qualcosa di irrisolto, di non abbastanza condiviso dagli esecutori. E non è da sottovalutare l'influenza negativa della credenza che la musica moderna rovini la tecnica strumentale (quando non sfrutta le qualità più naturali dello strumento forse accade, ma è un alibi che vale solo per pochi lavori ... ).
Alcuni anni fa abbiamo tenuto dei corsi, in varie nazioni europee, sulla musica contemporanea: tra gli uditori avevamo strumentisti di tutti i generi, mai un quartetto...
Se doveste riflettere su come è cambiato tutto il panorama produttivo della musica contemporanea, cosa ricordereste subito?
L'aumento delle occasioni, la libertà degli stili. Come un albero che abbia germogliato in tutte le direzioni: e questa molteplicità stilistica rende più problematico il riconoscimento della qualità. Alla moltiplicazione degli stili è corrisposta la varietà delle tecniche e delle difficoltà strumentali, prima che interpretative.
E' difficile passare da un episodio aggressivo a uno quieto, da una frammentazione ritmica quasi ineseguibile a un pezzo tutto giocato sulla ricerca timbrica, cambiare il proprio modo di suonare di continuo. Per riuscirci occorre uno studio e una disciplina ferrea...
Viaggiare, studiare, studiare, studiare... ?
E farlo senza perdere l'entusiasmo. Come una missione, faticosa forse, ma che dev'essere vissuta a fondo per poterla veramente godere. Tutti noi abbiamo avuto esperienze d'orchestra: anche in concerto se suoni in orchestra c'è sempre il momento in cui puoi distrarti e riposare. Nella musica da camera sei sempre esposto e sotto pressione: in quella moderna con ancor maggiore tensione. Era ciò che cercavamo.

Angelo Foletto con la collaborazione di Luciana Galliano
(Musica Viva, Anno XIII n.11, novembre 1989)

sabato, giugno 17, 2006

Lodovico da Viadana: le Canzonette a tre voci

Le Canzonette o tre voci di Fra' Lodovico appartengono a quel particolare periodo che vede il morire di un'epoca e la nascita di un'altra. Ma come sempre accade nella normale evoluzione storica e sociale dell'uomo, un'epoca non soppianta mai integralmente l'altra, ma prende avvio da un terreno culturale comune creando sì da ciò che è stato, ma mutandone poi lentamente caratteri, stili e forme.
Composte nel 1594 e pubblicate a Venezia presso Ricciardo Amodino, le Canzonette sono appunto un'opera che, con grande chiarezza di intenti, crea quell'ideale estetico-culturale che fa da trait d'union tra rinascimento e barocco, inserendosi a pieno titolo tra le prime pagine barocche del secolo che condurranno di lì a poco alla produzione monteverdiana. L'opera profana rimasta del celebre frate viadanese, forse più famoso per i suoi Concerti Ecclesiastici, purtroppo per noi è limitata a ben poche composizioni: si contano un madrigale a cinque voci, due canzonette a 4 voci appartenenti ad un libro composto nel 1590, una canzonetta a 3 nella raccolta dei Vincenti del 1598 e le Canzonette a tre voci del 1594 qui proposte per la prima volta. L'organico vocale, nelle varie canzonette, non è stabilito dall'autore, ma si evince dall'ambito vocale: ecco perché nella sequenza adottata vi è gran varietà. La presenza degli strumenti, non prevista in partitura, è una prassi d'epoca che abbiamo voluto assolutamente rispettare. La presenza evidente dei violini dà naturalmente una luce più barocca alle canzonette; non dimentichiamo che ci troviamo in area lombarda a soli 50 Km da Cremona, patria dei più grandi costruttori di violini, Il copostipite della famiglia Amati, Andrea, aveva già consegnato i suoi strumenti oltralpe (nel 1556 costruì alcuni strumenti per Carlo IX di Francia, figlio di Caterina De' Medici).
Molti musicisti abbandonarono lentamente l'uso delle più rinascimentali viole da gamba per indirizzarsi verso una maggiore incisività dinamica e varietà di fraseggio proprie del periodo barocco. Il violino è l'elemento trainante della musica strumentale e non del primo '600; crediamo basti citare G. B. Fontana e Salomone Rossi per fugare ogni dubbio in proposito.
Se da un lato Michael Praetorius, nel suo Syntagma Musicum, dà assoluta libertà al maestro concertatore noi, peraltro, non abbiamo voluto optare per un atteggiamento privo di regole, al contrario abbiamo adottato un criterio interpretativo ben chiaro in tutte le canzonette: l'attenzione al testo e l'imitazione, o meglio, l'aderenza al modello vocale nei ritornelli strumentali e nei "tutti". Anche la scelta di coinvolgere quasi tutti gli strumenti che appartengono alla prima fase del barocco, che per accezione comune inizia nel 1580 e termina nel 1630, non è stata affatto casuale. Scritte quando Fra' Lodovico era maestro di cappella del duomo di Mantova, le Canzonette furono dedicate al conte G.Pepoli, suo protettore, La freschezza solare di alcune e la drammaticità di altre ci mostrano un musicista al passo coi tempi, nonostante l'abito, anzi in alcune lo vediamo come tedoforo della luminosità barocca, paragonabile senza esitazioni a quella del coevo e più celebrato Monteverdi.
Le imitazioni e la scrittura morbida ed elegante molto attenta alle rispondenze fra testo poetico e musicale, ci pongono davanti ad una nuova considerazione del rapporto fra musica e poesia che, di lì a poco, sarà l'argomento principale di tutti i salotti colti del XVII e XVIII secolo. Comunemente le canzonette vengono definite come la naturale evoluzione delle più rustiche villanelle e progenitrici del madrigale, ma dato per scontato che le canzonette e i madrigali coesistevano, è bene precisare l'importanza culturale della "forma canzonetta".
I recenti lavori di Concetto Assenza e soprattutto un articolo di Massimo Ossi, apparso sul Journal of America Musical Society, hanno dato una nuova e più alta considerazione alle canzonette nella musicologia internazionale. Così questa forma della polifonia profana italiana acquista importanza assoluta e, sino ad oggi, neppure immaginata.
L'opera di Lodovico, pur non essendo paragonabile ai più aulici madrigali seicenteschi che rifuggono gli artifici contrappuntistici del recente passato musicale per riallacciarsi invece all'ideale della musica greca (N.Vicentino, V.Galilei) ha sicuramente segnato una tappa importante nel panorama musicale non solo di quel tempo ma nei secoli a venire.
 
di Giovanni Battista Columbro (note di copertina al CD Stradivarius STR 33387)

giovedì, giugno 15, 2006

Il Figaro di Busseto

Durante un ennesimo pellegrinaggio nei luoghi verdiani andai a Busseto per salutare l'amico Carlo Bergonzi. Non trovandolo nell'albergo di sua proprietà e dal nome naturalmente verdiano, I due Foscari, mi misi a passeggiare per la via principale di quella tranquilla e sonnolenta cittadina.
M'imbattei così in un piccolo e strano negozio di parrucchiere con centinaia di fotografie di artisti lirici appese alle pareti, con tanto di dediche "Al Figaro nazionale". Con mio stupore, sbirciando più insistentemente tra i vetri ne vidi due o tre di mie, in costume teatrale di Boris, Don Carlo e Nabucco.
Incuriosito, con la scusa di farmi fare la barba entrai.
Il buon uomo, che aveva in mente solo il mio volto truccato, non mi riconobbe e si mise diligentemente ad esercitare con abilità la sua funzione. Mentre stavo sotto i suoi ferri decisi di provocare in lui qualche reazione, facendo delle considerazioni sulla Lirica e sui suoi cantanti preferiti.
Esordì subito, affermando che all'infuori di Verdi non c'era nessuno e che il più grande tenore verdiano era, senza alcun dubbio, il suo concittadino Bergonzi, vantandosi di fargli regolarmente la barba ogni mattina, mentre diceva peste e corna di un tale "spagnolo".
Volli allora punzecchiarlo un po' bonariamente e gli espressi una esagerata preferenza per la musica del grande antagonista, il teutonico Riccardo Wagner. Gli dissi maliziosamente che anche Wagner, quando lo voleva, poteva scrivere delle melodie alla Giuseppe Verdi, come per esempio quelle del Vascello fantasma e del Rienzi. Era stato Verdi stesso, negli ultimi anni della sua maturità, ad avvicinarsi al genio di Bayreuth.
Questa mia affermazione lo fece uscire dai gangheri e, mentre le sue mani tremolanti per la rabbia maneggiavano ormai troppo pericolosamente l'affilato rasoio, decisi di rivelargli finalmente la mia identità, confessandogli che per divertirmi un po' volevo solo stuzzicare la sua commovente sudditanza verdiana. Lo rassicurai che pure io ero e sono grande ammiratore del Peppino Nazionale, di cui durante la mia lunga carriera avevo interpretato tutti i personaggi, dal Filippo II al Fiesco, dal vecchio Silva all'Attila, da Padre Guardiano a Zaccaria.
A lavoro terminato chiuse il negozio anche se fuori orario per accompagnarmi, pieno di entusiasmo, prima nel museo verdiano indi nel teatrino antistante la piazza, pregando poi un suo compaesano di scattargli una foto ricordo da aggiungere alla sua collezione di noi due inginocchiati davanti alla statua del grande Cigno di Busseto. Finimmo al bar e dopo qualche bicchierino aggiunse: "Ma lo sa, mio caro Ariè, che con le sue incaute asserzioni su Wagner ha corso un bel pericolo per la sua preziosa gola... per poco io gliela tagliavo!".

dai "Ricordi Teatrali" di Raffaele Ariè

martedì, giugno 13, 2006

Un abate torinese "ispirò" Mozart

Gennaio 1771: Mozart adolescente soggiorna per due settimane a Torino, durante il suo primo viaggio italiano. Va a teatro, partecipa a ricevimenti e concerti, incontra musicisti, certamente anche l'abate e compositore Quirino Gasparini, che pochi anni prima ha messo in musica un libretto di Vittorio Amedeo Cigna Santi, Mitridate re di Ponto. Lo stesso soggetto finisce poi tra le mani di Mozart e qui si genera il primo cortocircuito tra i due autori: alcune arie mozartiane sono simili a quelle di Gasparini e una, "Vado incontro al fato estremo", è proprio identica. Mozart ha copiato?
La musicista e studiosa Rita Peiretti, che alla storia di questo "prestito" ha dedicato un prezioso saggio sulla rivista Diastema, poi arricchito per le edizioni del Mozarteum di Salisburgo, ritiene trattarsi di un classico caso di dittatura dei cantanti: il tenore Guglielmo d'Ettore aveva cantato il primo Mitridate e quando deve ricantarlo per Mozart pretende che il ragazzino lasci intatta l'aria che già conosceva. Il tempo rovescerà le proporzioni: il Mitridate di Gasparini sparisce dal repertorio, viene ricordato solo in funzione di quello di Mozart, che resiste imperterrito: a volte le "copie" suonano meglio dell'originale. Tra le migliori incisioni recenti, quella diretta per la Decca da Rousset, con Sabatini, la Bartoli e la splendida Nathalie Dessay.
Alle settimane torinesi di Mozart - e a una storia d'amore che trova nella musica il modo di realizzarsi - Attilio Piovano dedica La stella amica, due appassionanti, agili racconti (Daniela Piazza Editore). Il cuore della trama punta ancora sul rapporto Mozart-Gasparini. Un Adoramus te del compositore italiano, ricopiato da Leopold Mozart che lo aveva giudicato eccellente, finisce tra le carte di Wolfgang e lì rimane, fino a venire catalogato tra le sue opere. L'equivoco è scelato solo nel 1960 e la paternità del breve inno ritorna al legittimo proprietario. L'ascolto dell'Adoramus - nell'edizione in compact dell'etichetta Musica Sacra - è un test utilissimo per comprendere quale fosse la tinta musicale dominante di quegli anni, alla quale Gasparini si adegua. Poi, come suggerisce Piovano, per misurare persistenze e differenze si può ascoltare il mozartiano Ave verum.
Sandro Cappelletto (da "La Stampa")

domenica, giugno 11, 2006

Bach sul tram?

Ci guadagna Bach. E anche il traffico.

I gridi d'allarme sono quasi sempre la maschera di un trauma: svegliarsi un giorno e scoprire di non avere più appigli e punti di riferimento per capire la realtà, una realtà della vita che viviamo. Accorgersi all'improvviso di essere rimasti indietro, chiama istintivo un bisogno: universalizzare la propria inadeguatezza, farla comune a tutti o a molti, per dire che il mondo è cambiato in peggio, a che punto siamo arrivati e dove andremo a finire.
La musica, ad esempio. Non è più la stessa da un giorno all'altro. Procediamo attenti e "aggiornati" fino a un certo punto della vita, convinti di ascoltare la miglior musica possibile nel miglior modo possibile, e poi un giorno apriamo la finestra e ascoltiamo cose mai udite prima, vediamo la gente ascoltare cose che noi non ascoltiamo. E noi ascoltiamo cose che altri non ascoltano, o, peggio, le stesse cose ma in maniera diversa. Chi ha ragione?
Se n'è andato un decennio in cui dovremmo finalmente esserci resi conto che è finita, se mai è esistita, l'era della musica, sostituita dall'era delle musiche, e leggo un altro grido d'allarme. Giorgio Vidusso, come in un diario di sofferenze, elenca, con il fuoco e con l'intelligenza di un grande militante della musica, tutti i motivi di disagio di una generazione, di un ambiente, di un mondo ("E il sottofondo ci seppellirà", sottotitolo "Il magma va salendo" nel Giornale della musica di novembre).
Uso quello scritto come falsariga di un pezzo di riflessioni perché è una rubrica dettagliata di tutto ciò che l'ingresso negli ultimi dieci anni del Novecento fa passare per la mente. Vidusso tocca tutti i punti nodali dei problemi e nel mio dissenso sulle conclusioni sono ovviamente impliciti l'onore e il rispetto.
Il sottofondo dal quale saremmo destinati ad essere sepolti è quello della Muzak, della musicaccia nata senza dichiarazioni d'arte, con il solo scopo di volare basso sui bisogni dell'orecchio: unico suo impegno, blandire il timpano e tenerlo occupato alla bell'e meglio, mentre le gambe, le mani e il nervoso centrale stanno facendo altro (acquisti nei grandi magazzini, attese in stazioni e aeroporti, monotono lavoro quotidiano). La Muzak sarebbe insomma la grande colonna sonora che da radio, dischi e televisione un vero o immaginario Grande Fratello ci insinua come gas nervino. Gli altoparlanti, le cuffie e gli schermi sono le grate di un condizionatore d'aria in cui uno scienziato sadico da Uovo del serpente fa uscire i fumi dell'annichilimento.
La chiave apocalittica non è mia. "La Musica - dice Vidusso - anzi la Muzak, questa atroce realizzazione della musique d'ameublement vagheggiata da Satie, è la droga libera del tempo libero, che attenua l'angoscia della libertà mentre lo stare insieme evita di trovarsi a tu per tu con se stessi, cioe con nessuno. E lo squittio con cui la folla manifesta il suo entusiasmo non evoca branchi di topo ammaliati dal pifferaio di Hamelin piuttosto che il mito di Orfeo?". E poco prima il bersaglio è meglio focalizzato: "... E il sorriso, la liberatoria risata, l'avete mai letta sulle facce dei coinvolti nelle Woodstock nostrane? Per quel che ho visto io son tutti assorti, rapiti come monaci tibetani nella contemplazione del nulla; la loro musica è l'assenza".
Andando a ritroso fra le righe di Vidusso: "L'avvenire che cosa ci riserva?... Ho l'orrendo sospetto che il ciclo stia ricominciando, che musiche profetiche siano già apparse, che il sogno del Gesamtkunstwerk sia già realtà, che l'umanità tutta sia prossima a trovare i suoi inni, che un altro cerimoniale si stia affermando, che il divertimento e il gioco siano nuovamente espunti dai programmi, che la politica sia ancor più manifestamente connessa alla musica che in passato (così come la scienza e la sociologia); la sola salute, forse l'avrà vinta nei confronti della malattia, ma sarà una salute così coatta, così stupida, cosi malsana, da essere mille volte preferibile la malattia... I segni premonitori di questo disastro? Non tremate quando vi accorgete che i giovani vivono e anche studiano rintronati dalle cuffie? Passi se ascoltassero solo musica rock, si potrebbe pensare che sono gli epsilon del Nuovo Mondo di Huxley, bassa forza, intellettuale o manuale, non importa, tanto oggi non fa differenza. Nossignori, ascoltano Bach, o Mozart o Stravinsky, dicono (e sono studenti di ingegneria, di fisica, di medicina) che gli concilia l'attenzione...".
Alla fine, la chiave di tutto e il culmine del grido: " ... non è che i giovani, o genericamente il pubblico di oggi, non 'usino' 'anche' Schubert, non è questo il punto: il pericolo è che Schubert venga trasformato nella coscienza dell'ascoltatore in un qualsiasi ingrediente di quell'indifferenziato minestrone che è l'ascolto passivo a ciclo continuo alimentato da radio, mangianastri e televisione; che vada inglobato in quel rumore di sottofondo che sembra proporsi come tranquillante universale per il prossimo millennio. Ecco qual è la buia prospettiva: non temo la musica leggera, il rock la disco-music e tutti i consimili prodotti conseguenti alla massificazione delle élites; temo la lava magmatica, il suono come abitudine, il sottofondo come nostro pane quotidiano".

L'oggetto di questo appassionato grido d'allarme da Mille-non-più-Mille sono due cose diverse: la musica di oggi, evoluzione snaturata della musique d'ameublement di Satie, e il modo degenerato di ascoltare, in futuro ancor più degenerabile.
Insomma non si scrive più buona musica e non si ascolta più bene anche quella buona.
Ora, non c'è né tempo, né voglia, né utilità per trattare seriamente la prima affermazione, che è solo uno sfogo e che Vidusso, comunque, dissimula per concentrarsi sul secondo e più vero problema.
Quanto alle facce tristi e inebetite dei partecipanti alle Woodstock, originali o nostrane, avrei da rilanciare con altre facce tristi e inebetite delle società di concerti o di stagioni Rai, in cui si servono i piatti fragranti di certe sinfonie di Rachmaninov o di Sibelius. E poi oserei distinguere se sul palcoscenico c'era Jimi Hendrix oppure canta Ozzie Osborne. Se si rischia di mettere sullo stesso piano Mc Cartney ed Alice Cooper, se per il colore della pelle si rischia di confondere Sade con Tracy Chapman, allora è meglio piantarla lì subito. E sarebbe anche meglio non parlare nemmeno di rock come categoria o come stile, che poi sono tanti stili. Quale rock? Frank Zappa o Miles Davis, John Zorn o U2, Bob Dylan o Jackson Browne, Joni Mitchell o Sade, i Pretenders o gli Who? Se gli uni o gli altri pari sono, si finisce nel mucchio selvaggio di quelli che parlano "della classica" e "della lirica", nell'anticamera del cervello di chi può confondere Monteverdi con Rameau, Bach con Telemann, Mozart con Salieri.
Che la musica vada, creativamente, ovvero non creativamente, verso il magma indistinto è poi un'altra cosa su cui discutere a lungo. Mentre i mezzi di comunicazione accelerano i processi di assimilazione e di osmosi, alla fine degli anni Ottanta abbiamo visto insinuarsi in quella cosiddetta New Age Music un'accentuata attenzione verso le radici etniche: chi più coscientemente lavora nei territori di confine ha già capito che solo aggrappandosi al salvagente della propria cultura si sopravvive all'oceano elettronico.
E mentre il tempo veloce della vita plasma nel "leggero" una musica iper-ritmica, nascono tendenze in fuga, che dal Tempo non si fanno condizionare, che il ritmo lo trascurano e quasi volutamente l'annullano. Rispetto alla tonica-dominante dell'ambiente, la musica ha sempre trovato scarti imprevedibili. La musica che resta è sempre quella che ha contraddetto il suo tempo. E ogni tempo ne ha una. Se non la troviamo noi, non è colpa sua.

Il mutato modo di ascoltare. Anche qui, sul pericolo che anche Schubert finisca "oggettivamente", e non soggettivamente, appiattito nel magma sonoro di un landscape immaginario, avanzo i miei dubbi. Tempo fa Brian Eno scriveva, con sobria arte della provocazione, certa Ambient Music da diffondere in locali pubblici: Muzak in sostituzione di altra Muzak, quattro accordi perfetti lasciati suonare in eco su un lieve tappeto elettronico-vocale. Musicaccia d'autore al posto di altra musicaccia. Qualunque ragazzino svezzato a Pink Floyd entrando in un supermercato l'avrebbe riconosciuta e staccata dalla paccottiglia. E' solo questione di allenamento. Anche distinguere Vivaldi da Marcello è questione di allenamento.
In una realtà che fa spendere a milioni di persone un quarto della loro vita sui mezzi di trasporto, l'ascolto lungo, rilassato ed esclusivo della musica è una chimera. L'ascolto puro diventa un lusso per la stragrande maggioranza del pubblico. Che fare? Non ascoltare se non nella camera anecoica? E se lo si fa in contemporanea con certe attività motorie o cerebrali, è per questo un ascolto meno consapevole?
Rivaluto ogni giorno di più Stockhausen quando dice che il tratto saliente dell'uomo dei nostri giorni è la prontezza a decodificare più eventi simultanei. Se uno strumento mi permette, in una coda d'autostrada, in un ingorgo di traffico, in un viaggio in treno o in aereo, di buttar fuori il mondo dalla mia porta sensoriale per isolarmi con la Winterreise di Schubert, viva quello strumento. Se una cuffietta aiuta a sprecare meno tempo della vita in una sola attività, automatica e per giunta forzata, quello Schubert è un regalo.
Ascolto mostruoso? Ascolto inconsapevole? Certo, è innaturale la vibrazione acustica a ridosso del timpano, ma è un'altra questione. Siamo invece sicuri che ascoltare un quartetto di Mozart in una sala di cinquemila metri quadri, a cinquanta metri dagli strumenti, in una platea di gente che pensa ai fatti suoi, sia più consapevole, filologico, vicino alla destinazione, alla natura, al tempo, al luogo in cui quei brani sono nati? Invece che nell'ascolto diretto, senza spazi fuori scala, senza intermediari, senza distrazioni?
Qual è il grado di consapevolezza dopo la seconda ora di musica della Società del Quartetto nel vecchio abbonato stanco di una giornata di lavoro, quando attacca la Grosse Fuge? 0 alla Rai, alla fine della Florentinische Tragödie di Zemlinsky in forma di concerto a sala mezza vuota? Niente topi del pifferaio di Hamelin né celebrazioni del mito di Orfeo, ma Morfeo puro. Il problema dell'ascolto consapevole risolto nella maniera più radicale: abolendo l'ascolto.
Quegli studenti che s'immergono nei libri con Stravinsky in testa probabilmente vanno anche a concerto pensando ad assonometrie e formule dell'energia. L'ascolto distratto è sempre esistito, come dimostrano la Tafelmusik o i Reali fuochi d'artificio. L'ascolto inconsapevole doveva essere la norma anche nei tempi senza cuffiette e televisione che il tempo ha mitizzato, quando i principi stavano a due passi dal clavicembalo e pochi amici attorno al fortepiano dell'amico musicista, se Mozart e Schubert morirono ricchi di fama tutta da costruire. Di far parte del grande magma che avanza, per aumentare le probabilità di incontro consapevole, o anche solo per aumentare il numero degli ascolti inconsapevoli, così anche solo per il piacere di porli in lista, sarebbero i primi loro ad essere felici.
Che il luogo faccia l'ascolto, che soprattutto i luoghi che noi frequentiamo oggi lo facciano, è la realtà stessa a smentirlo. Gli strumenti nuovi nell'era della riproducibilità dell'arte, alla fine neutri come qualunque strumento di fronte a una volontà vera, aumentano le occasioni di incontri ravvicinati con la musica. Di primo, secondo, terzo, ennesimo tipo.
Demonizzare gli strumenti nasconde sempre l'imbarazzo di non saperli usare. E a usare gli strumenti, come ad ascoltare la musica e a fare un mestiere, si impara praticandoli.
Eric Fromm, polemizzando con la formula freudiana dell'Eros come acquirente del miglior oggetto in vetrina, sosteneva che anche l'amore è un'arte, un'attitudine cui la disciplina e il tempo aggiungono qualcosa. Che l'amore si apprende amando. Cosa del resto, nei suoi risvolti più concreti, nota alle culture orientali da sempre.
Imparare a riconoscere l'oggetto d'amore sperduto tra la folla delle musiche che ci stringono d'assedio, è la più dura e bella sfida che gli anni Novanta ci lancino.

Carlo M. Cella (Musica Viva. Anno XIV n.2, febbraio 1990)